Nella Jugoslavia socialista far parte di un matrimonio misto, cioè tra persone di diversa religione o nazionalità, era motivo di orgoglio. Nell'odierna Bosnia Erzegovina la situazione è molto cambiata, e l'aggettivo"misto" ha assunto una connotazione prevalentemente negativa. L'amara riflessione di un sarajevese 20 anni dopo la guerra

02/04/2012 -  Damir Dizdarević Sarajevo

L’articolo è stato originariamente pubblicato dal portale Peščanik il 16 marzo 2012 col titolo Miješani brakovi 

Sto pensando di andarmene dalla mia città. Già da un po’ di tempo, come forse anche molti altri che si trovano nella mia stessa situazione. Non sono messo male, non me andrei per andare in cercare di un tozzo di pane. Non c’è la guerra, almeno non quella armata. Nessuno ci sta cacciando. Ciononostante, la mia famiglia ed io non ci sentiamo più bene accetti nella città dove siamo nati. L’ambiente sociale, a causa  del terribile bisogno di metter ovunque il marchio nazionale, ci identifica come un matrimonio misto.

Io quell’“essere misto” posso accettarlo solo se si parla di due sessi diversi, ma è ovvio che non è riferito a quello. Questa costruzione linguistica - matrimonio misto - che per alcuni non ha alcun significato e per altri invece significa e descrive molto, nella storia recente della Bosnia Erzegovina viene abbondantemente sfruttata  in vario modo, solitamente negativo.  Ampiamente incoraggiati, come base della fraternità e dell’unione dei popoli e delle nazionalità, con lo scoppio della guerra i matrimoni misti sono presto diventati una delle categorie sociali meno accettate. In particolare i bambini nati da questi matrimoni. Sono persone che non hanno un “loro” di riferimento, e quindi tutti gli altri, che sono “loro”, li rifiutano. Per cui non sorprende il fatto che persone appartenenti a  questa categoria sociale siano andate via dalla ex Jugoslavia, forse in maggior numero dalla Bosnia Erzegovina, perché ce ne erano di più. E siccome anche tutti i governi della BiH dal 1992 fino ad ora sono stati generalmente nazionalisti, e anche loro si sono dati da fare per rendere la vita di queste persone ancora più disgustosa e di spiegare “in modo carino” che sarebbe meglio per loro se se ne andassero via. Perché con queste persone le cose non sono mai chiare. Non sanno per chi votare e non si può far conto su di loro.

All’inizio e durante la guerra, due politici di alto livello dichiararono pubblicamente che i bambini dei matrimoni misti sono un rifiuto genetico. Diedero anche una sconclusionata  spiegazione “scientifica” come prova, rendendo tutto quanto ancora più morboso. Dopo la guerra, i rappresentanti della comunità islamica in più occasioni hanno fatto riferimento a “coloro che sono stati educati nell’ateismo”, e nella maggior parte dei casi ci si riferisce proprio a quelli che provengono da ambienti familiari dove sono presenti più nazionalità/ religioni, oppure a quelli che non attribuivano a nazionalità e religione alcun particolare significato.

Recentemente il vice reis, in un’intervista rilasciata al quotidiano Avaz in occasione del Bajram, ha qualificato queste persone come i nemici più pericolosi.  Devo riconoscere che fa un certo effetto leggere sui quotidiani più diffusi di essere diventato in una notte  il nemico di qualcuno, nonostante sia nato, vissuto e sopravvissuto in questa città. Il titolo dell’intervista era (se ben ricordo) “I bosgnacchi sono di nuovo sotto il giogo della tirannia”, e questa parte sui nemici era evidenziata in un box a parte. Se si tiene in considerazione che la maggior parte dei lettori di Avaz legge soltanto i titoli, eventualmente i sottotitoli e i testi nei box, non è difficile concludere cosa si è voluto ottenere in questo modo, e quale conclusione si volesse imporre. Ma c’è dell’altro.

È ben noto che religione, istruzione e cultura si intrecciano continuamente e si superano a vicenda.  Questo magico triangolo è qualcosa con cui quasi ogni persona, almeno in una fase della vita, viene a contatto. Chi più chi meno. Forse dalle nostre parti i legami reciproci di queste tre categorie, e a volte anche gli scontri, sono più forti che altrove. Il periodo del nostro passato  indicato come “Jugoslavia titina” è stato in qualche modo il periodo in cui l’istruzione e la cultura avevano la priorità sulla religione. Oppure, possiamo dire che la religione aveva una minore influenza sull’istruzione e la cultura. Oggi, invece, è il contrario. La religione regna, e alle persone che non vi si ritrovano rimane molto poco, poiché l’istruzione e la cultura sono in caduta libera (detto in modo blando).

Un interessante e doloroso esempio della superiorità della religione sull’istruzione è quanto accaduto al (ex) ministro dell’Istruzione del Cantone di Sarajevo, Emir Suljagić. A differenza  di quasi tutti gli altri politici, egli è un raro esempio di chi ha cercato di fare qualcosa di concreto per i bambini che vengono da famiglie dove la fede e l’identità religiosa sono una questione di scelta e non una regola. Voleva renderli uguali a tutti gli altri. Perché non lo sono, nonostante il governo di Sarajevo si vanti apertamente del carattere multietnico della città e della tolleranza generale.  Il linciaggio mediatico innescato dopo che il ministro, ora ex, aveva introdotto la materia di religione come scelta facoltativa, perché la sostanza in effetti sta nella scelta, e l’aveva tolta dalla media dei voti  (per non danneggiare quelli che non frequentano quella materia), è stato senza precedenti. Gli ambienti religiosi, guidati dalla comunità islamica, anche se si sono aggiunti anche i rappresentanti di altre religioni “costitutive”, hanno minacciato tutto e tutti. Hanno parlato naturalmente anche di Srebrenica, perché lo devono fare quando sono a corto di argomenti. Questa spaventosa campagna, oltre a portare l’intera vicenda nel contesto del genocidio di Srebrenica, senza motivo alcuno, in realtà è basata su una pura menzogna.

Hanno affermato che il ministro vuole togliere l’ora di religione, ma di questo non si è mai parlato. Ancora oggi è possibile trovare tutti i testi di quel periodo e vedere che non  esiste alcun documento, dichiarazione o qualsiasi altra cosa giunta dal ministero della Istruzione  relativa all’abrogazione dell’ora di religione. Il desiderio era soltanto di mettere l’ora di religione là dove è il suo posto, come scelta di chiunque voglia studiarla, ma anche come diritto per tutti quelli che non la vogliono fare, di non essere discriminati per questo motivo. Nonostante inauditi e brutali attacchi, il ministro è rimasto fermo sulla sua decisione, e ha dato le dimissioni (la prima volta). In quel momento si poteva vedere quanto fosse solo in quello che stava facendo. Il suo partito a mala voglia lo ha appoggiato, il parlamento del Cantone ha preso una decisione che ha mitigato quello che il ministro aveva deciso all’inizio, e non ha accolto le sue dimissioni. 1:0 per la religione. Credo che Suljagić, nonostante i  concreti risultati che ha ottenuto, verrà ricordato solo per quella falsa “abrogazione dell’ora di religione”. Ma ovviamente ci sono state altre cose buone che il ministro ha fatto per l’istruzione, in un periodo molto breve, e lo dimostra bene l’aperto sostegno dei docenti che Suljagić ha ricevuto dopo aver dato le seconde, e questa volta irrevocabili, dimissioni. Ma non era di questo che volevo parlare.

Questo esempio fa vedere chiaramente quanto la religione sia più potente dell’istruzione nella Sarajevo odierna. Inoltre, questo dimostra anche cosa può succedere quando, nella Sarajevo multietnica, i “multi” cercano di chiedere qualcosa a loro favore, oppure qualcuno li appoggia o li rappresenta in qualcosa. Il proiettile destinato a Suljagić nella lettera non era indirizzato soltanto a lui, ma a tutti quelli che hanno creduto che lui avesse fatto qualcosa che porta veramente all’uguaglianza , almeno nel settore dell’istruzione dei minorenni. Anche se si volesse interpretare quel proiettile come il gesto individuale di qualche estremista, la campagna e il linciaggio a cui è stato sottoposto tramite i media nei mesi scorsi non lo sono di sicuro. Il proiettile è soltanto una conseguenza logica di tutto quanto è confermato coi numerosi esempi presenti nella ex Jugoslavia. Quando si arriva al punto in cui bisogna avere il “multi” nella prassi, allora vengono tirati in ballo gli inconfutabili argomenti della maggioranza. Oppure i sondaggi, cosa ancora più ipocrita. Come per esempio, un sondaggio fra i bambini e i genitori per vedere se sono per l’abrogazione della valutazione di una materia dove hanno di media un voto sopra il 9,5. E così fanno vedere che la maggioranza era per l’ora di religione. Ovvio che sì, perché è diventato il modo migliore per migliorare la media dei voti. Garantisco che, se si facesse lo stesso sondaggio sul tema “desiderate che il voto di matematica venisse tolto dalla media dei voti”, il numero di quelli che lo sosterebbe sarebbe ancora più alto del numero di quelli che sostengono la valutazione dell’ora di religione. Comunque, quel sondaggio sarebbe valutato come irragionevole (come difatti lo è).

Inoltre la predominanza della religione rispetto alla cultura è ben visibile. A Sarajevo le moschee si stanno costruendo su ogni pezzo di superficie libera e a gran velocità. Prima che qualcuno mi accusi a priori di essere contro le moschee, vi dico subito che non lo sono. Sono cresciuto in una città con le moschee del periodo ottomano e ne ammiro moltissime come monumenti storico culturali, ma anche come templi religiosi. Ma l’inondazione  di moschee costruite, che difficilmente possono essere paragonate a quelle vecchie è molto indicativa. Allo stesso tempo, vengono chiusi i musei, le gallerie d’arte, i teatri danno soltanto qualche spettacolo al mese, e la Filarmonica  di Sarajevo tiene solo un concerto al mese. In modo parallelo, le manifestazioni di carattere religioso senza nessun problema riempiono lo stadio Zetra, e come massimo del successo culturale e della promozione viene definito il film di Angelina Jolie.

Le istituzioni che a Sarajevo sono al collasso oppure sono state già chiuse sono proprio quelle istituzioni che sostengono la cultura, il carattere multietnico della città, cioè la sua diversità storica.  Non si può dire che le comunità religiose siano direttamente responsabili del fallimento della cultura, né che abbiano dovuto sostenere finanziariamente le istituzioni culturali. Ma, senza dubbio, hanno attirato il “pubblico” dalla loro parte, il che col tempo porta al disgregamento dei contenuti culturali di altro genere. Se a questo viene aggiunto anche il pessimo sostegno dello stato alle istituzioni storico-culturali, è chiaro dove andiamo a finire. Per mantenere in vita la cultura che una volte esisteva a Sarajevo accanto alla religione urlata e onnipresente, c’è bisogno di uno stato molto forte. E la Bosnia, purtroppo, oggi non lo è.

Sui media le notizie e i fatti sul fallimento della cultura e dell’istruzione compaiono fugacemente, quando vengono menzionati. A questi fatti reagiscono pubblicamente  soltanto una manciata di persone che generalmente  non hanno alcuna influenza. A questi fatti non reagisce nessuna comunità religiosa, perché a loro non servono né musei, né gallerie, né concerti. Perché sanno molto bene che quelli che frequentano quei posti non sono materiale adatto per l’indottrinamento.

Dopo 36 anni vissuti a Sarajevo, considerando me stesso una persona di ampie vedute, già da tempo mi chiedo quanto tempo deve ancora passare prima che in quell’intreccio di religione, cultura e istruzione accada di nuovo un cambiamento nel rapporto di forze. E quanto tempo deve ancora passare prima che la mia Sarajevo capisca  di nuovo cosa significa veramente multietnicità, diversità, e accettazione degli altri. Una ventina di anni fa, sembrava che fosse chiaro a tutti. Forse lo era per quelli che non vivono più in questa città, non perché sono stati uccisi, ma perché sono morti oppure se ne sono andati via. Per i sarajevesi di oggi questa idea purtroppo è molto lontana dalla realtà, anche se credo siano quasi tutti pronti a giurare sul carattere multietnico della città, senza pensare a quello che Sarajevo come città può veramente offrire a chi non mette la religione al primo posto. La multi etnicità dichiarata è molto più ipocrita del semplice riconoscimento che Sarajevo è  una città a maggioranza musulmana, e che in quel verso si sta sviluppando, cioè funziona. A volte credo veramente che se ci fosse questo riconoscimento , per noi altri, sarebbe anche meglio. Perché in ogni società dove esiste una maggioranza definita, esistono anche minoranze definite coi rispettivi diritti. Così com’è, la multi etnicità sulla carta in realtà permette alla maggioranza di fare quello che vuole, mentre qualsiasi minoranza viene assolutamente marginalizzata.

L’altro problema sono i criteri del tutto distorti. Se oggi vi lamentate che Sarajevo quelli che non sono bosgnacchi non stanno poi tanto bene, ovunque potete ricevere la tipica risposta “cosa gli manca, nessuno li tocca”. È  vero, ma anche lontano dall’essere sufficiente per far sentire bene qualcuno. L’assedio che ha vissuto Sarajevo, tutto il sangue versato sulle strade di questa città, ha fatto sì che la gente reagisca soltanto quando è minacciata di morte. Tutto il resto non è così grave. Io ho passato tutta la guerra a Sarajevo, e ho vissuto molte cose brutte senza averne colpa, ma 17 anni dopo la guerra non riesco a consolarmi con la frase “va bene, basta che non si spara”. Desidero vedere anche che la mia città mi accetta e desidera come suo cittadino, e che ha qualcosa da offrirmi. E che in questa città posso sentirmi come cittadino d’Europa e del mondo, e non soltanto ed esclusivamente come “altro” (se appartengo ad uno dei popoli costituenti). Per far sentire chiunque in questo modo oggi a Sarajevo, c’è bisogno molto di più che della mera esistenza fisica.  


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