Gravi disordini oggi 7 maggio, ndr a Banja Luka, la capitale della entità serba di Bosnia Erzegovina. Tutto era pronto per la prevista cerimonia per la posa della prima pietra della moschea Ferhadija, costruita nel XVI secolo durante la dominazione ottomana nella regione e rasa al suolo durante la guerra di Bosnia in quella che è stata la follia della pulizia etnica. Qui l'undici percento della popolazione era di origine musulmana. Oggi al loro posto profughi e sfollati serbi. Più di cinquantamila.
Troppo rumore per questo evento. I più importanti rappresentanti delle forze internazionali operanti nella regione e le massime autorità di Bosnia e di Repubblica Srpska erano presenti: l'ambasciatore americano Thomas Miller, il responsabile delle missione ONU Jaques Klein, il presidente dell'entità serba di Bosnia Sarovic ed il primo ministro Ivanic, il ministro degli affari esteri della Repubblica di Bosnia Erzegovina, il bosniaco Lagumdzija.
E quindi tanta gente. Bosniaci arrivati in pullmann dalla Federazione dove vivono come profughi e da dove sperano di poter rientrare nella propria città di origine, così come gli accordi Dayton sanciscono. E con loro i profughi e gli sfollati serbi, originari dalla Croazia e dal centro Bosnia. Molti di loro dovranno lasciare le abitazioni in cui hanno trovato rifugio durante questi anni di guerra e dopo guerra, per restituirle giustamente ai bosniaci che intendono rientrarvi.
Gli accordi di Dayton sanciscono che tutti i profughi e gli sfollati della guerra di Bosnia Erzegovina hanno il diritto di scegliere se rientrare nella aree di origine o restare dove attualmente stanno vivendo. Ma una politica definibile perlomeno miope della comunità internazionale sta di fatto aiutando solo chi intende rientrare. Così la maggior parte di quei cinquantamila serbi di Banja Luka sono abbandonati a se stessi. Non hanno né lavoro né assistenza, e vivono con l'incubo di essere sfrattati. L'unica scelta è tornare, ma questo è un percorso difficile sia da un punto di vista pratico - ad esempio per trovare lavoro o riavere la propria abitazione - sia da un punto di vista psicologico-emotivo. C'è paura.
Gente, bosniaci e serbi, quindi stanca e sotto pressione da troppi anni di difficoltà e di traumi: la guerra, la fuga, la vita senza una casa sicura, senza il lavoro, senza i servizi di base, senza un passato e con un futuro incerto. E così, ieri, è scoppiato il peggio. "Le tensioni accumulate in questi anni sono esplose" dice Zoran Baros, giornalista e responsabile delle pubbliche relazioni nel comune di Prijedor, a cinquanta chilometri da Banja Luka, seconda città della Republika Srpska e luogo simbolo per il rientro di musulmani e croati. E' stata impedita la manifestazione con il lancio di sassi e uova: contro gli internazionali, contro i politici, contro i bosniaci.
La polizia ha reagito cercando di fermare la folla, mentre il contingente militare internazionale (lo SFOR) è stato soprattutto a guardare. Per alcune ore gli ospiti internazionali e bosniaci sono rimasti bloccati nell'edificio di cultura islamica, fino a quando il presidente della Repubblica Srpska Sarovic ed il primo ministro Ivanic in persona sono andati tra la folla per permettere ai "prigionieri" di essere liberati.
Un comportamento che esplicita la gravità di questo episodio e delle sue conseguenze sull'immagine della Republika Srpska, della Bosnia e di questa regione agli occhi della comunità internazionale. Qui c'è bisogno di pace, di sicurezza, di fiducia. C'è bisogno di investitori internazionali che credano in uno futuro di normalità per questo paese. E questo evento è un passo indietro. "Nessuno aveva bisogno di questo evento" dice la sindaca di Prijedor Nada Sevo.
Doveva essere evitato e non lo si è fatto. Chi doveva evitarlo è soprattutto la comunità internazionale, che ha quantomeno sostenuto un'iniziativa così spettacolare nella capitale serbo-bosniaca. La convivenza non si impone con la forza ma va costruita "con la politiche dei piccoli passi", come dice Sead Jakupovic responsabile della associazione "per il ritorno e il rinnovamento di Prijedor 98".
Poteva essere evitato. Lo dimostra la realtà di Prijedor, città con cui da anni ormai coopera un coordinamento di associazioni ed enti locali del Trentino. Qui un quinto della popolazione non serba cacciata durante la guerra è già rientrato. E a Kozarac, un villaggio a pochi chilometri da Prijedor, sono state ricostruite senza incidenti ben quattro moschee. Il luogo scelto si è dimostrato intelligente, perché non troppo vicino al centro di questa municipalità che in passato è stata triste simbolo della pulizia etnica. Anche i tempi sono stati quelli giusti, perché la ricostruzione è iniziata dopo oltre un anno dall'inizio del processo di rientro dei musulmani. "Se l'obiettivo è il rientro", dice ancora Sead Jakupovic, "è importante porre attenzione ai sentimenti della gente, dare agli amimi il tempo di calmarsi".
"Creare occasione di incontro tra chi rientra e chi vive a Prijedor, creare luoghi di discussione pubblica, coinvolgendo i rappresentanti politici locali, i leader religiosi, gli intellettuali della comunità, le associazioni, la scuola. Fare informazione corretta." Ecco come promuovere la convivenza secondo le associazioni di donne di Prijedor riunitesi proprio in questi giorni per programmare le attività di sostegno al rientro in collaborazione con la Agenzia della Democrazia Locale di Prijedor, sostenuta dalla Comunità Trentina, dalla città spagnola di Cordoba e dal Consiglio d'Europa.
Chi ora paga la scelta affrettata compiuta dalla comunità internazionale a Banja Luka sono tutti i cittadini che sperano in un futuro di convivenza: i bosniaci, che ora devono relazionarsi a questo ulteriore trauma; i serbi, che si sono macchiati di un ulteriore "crimine" agli occhi del mondo.
Qui in Bosnia Erzegovina vivono persone. Cittadini che vogliono pace e futuro. Uomini e donne che stanno provando a vivere la propria esistenza. La strofa di una canzone recita: "non so perché né per cosa né come ma sono stanco". C'è bisogno di serietà e di intelligenza. Di una solidarietà matura.
Da Prijedor, a 300 chilometri dai confine dell'Unione Europea
Annalisa Tomasi, delegata della Agenzia della Democrazia Locale di Prijedor
© Osservatorio sui Balcani;
Gravi disordini oggi 7 maggio, ndr a Banja Luka, la capitale della entità serba di Bosnia Erzegovina. Tutto era pronto per la prevista cerimonia per la posa della prima pietra della moschea Ferhadija, costruita nel XVI secolo durante la dominazione ottomana nella regione e rasa al suolo durante la guerra di Bosnia in quella che è stata la follia della pulizia etnica. Qui l'undici percento della popolazione era di origine musulmana. Oggi al loro posto profughi e sfollati serbi. Più di cinquantamila.
Troppo rumore per questo evento. I più importanti rappresentanti delle forze internazionali operanti nella regione e le massime autorità di Bosnia e di Repubblica Srpska erano presenti: l'ambasciatore americano Thomas Miller, il responsabile delle missione ONU Jaques Klein, il presidente dell'entità serba di Bosnia Sarovic ed il primo ministro Ivanic, il ministro degli affari esteri della Repubblica di Bosnia Erzegovina, il bosniaco Lagumdzija.
E quindi tanta gente. Bosniaci arrivati in pullmann dalla Federazione dove vivono come profughi e da dove sperano di poter rientrare nella propria città di origine, così come gli accordi Dayton sanciscono. E con loro i profughi e gli sfollati serbi, originari dalla Croazia e dal centro Bosnia. Molti di loro dovranno lasciare le abitazioni in cui hanno trovato rifugio durante questi anni di guerra e dopo guerra, per restituirle giustamente ai bosniaci che intendono rientrarvi.
Gli accordi di Dayton sanciscono che tutti i profughi e gli sfollati della guerra di Bosnia Erzegovina hanno il diritto di scegliere se rientrare nella aree di origine o restare dove attualmente stanno vivendo. Ma una politica definibile perlomeno miope della comunità internazionale sta di fatto aiutando solo chi intende rientrare. Così la maggior parte di quei cinquantamila serbi di Banja Luka sono abbandonati a se stessi. Non hanno né lavoro né assistenza, e vivono con l'incubo di essere sfrattati. L'unica scelta è tornare, ma questo è un percorso difficile sia da un punto di vista pratico - ad esempio per trovare lavoro o riavere la propria abitazione - sia da un punto di vista psicologico-emotivo. C'è paura.
Gente, bosniaci e serbi, quindi stanca e sotto pressione da troppi anni di difficoltà e di traumi: la guerra, la fuga, la vita senza una casa sicura, senza il lavoro, senza i servizi di base, senza un passato e con un futuro incerto. E così, ieri, è scoppiato il peggio. "Le tensioni accumulate in questi anni sono esplose" dice Zoran Baros, giornalista e responsabile delle pubbliche relazioni nel comune di Prijedor, a cinquanta chilometri da Banja Luka, seconda città della Republika Srpska e luogo simbolo per il rientro di musulmani e croati. E' stata impedita la manifestazione con il lancio di sassi e uova: contro gli internazionali, contro i politici, contro i bosniaci.
La polizia ha reagito cercando di fermare la folla, mentre il contingente militare internazionale (lo SFOR) è stato soprattutto a guardare. Per alcune ore gli ospiti internazionali e bosniaci sono rimasti bloccati nell'edificio di cultura islamica, fino a quando il presidente della Repubblica Srpska Sarovic ed il primo ministro Ivanic in persona sono andati tra la folla per permettere ai "prigionieri" di essere liberati.
Un comportamento che esplicita la gravità di questo episodio e delle sue conseguenze sull'immagine della Republika Srpska, della Bosnia e di questa regione agli occhi della comunità internazionale. Qui c'è bisogno di pace, di sicurezza, di fiducia. C'è bisogno di investitori internazionali che credano in uno futuro di normalità per questo paese. E questo evento è un passo indietro. "Nessuno aveva bisogno di questo evento" dice la sindaca di Prijedor Nada Sevo.
Doveva essere evitato e non lo si è fatto. Chi doveva evitarlo è soprattutto la comunità internazionale, che ha quantomeno sostenuto un'iniziativa così spettacolare nella capitale serbo-bosniaca. La convivenza non si impone con la forza ma va costruita "con la politiche dei piccoli passi", come dice Sead Jakupovic responsabile della associazione "per il ritorno e il rinnovamento di Prijedor 98".
Poteva essere evitato. Lo dimostra la realtà di Prijedor, città con cui da anni ormai coopera un coordinamento di associazioni ed enti locali del Trentino. Qui un quinto della popolazione non serba cacciata durante la guerra è già rientrato. E a Kozarac, un villaggio a pochi chilometri da Prijedor, sono state ricostruite senza incidenti ben quattro moschee. Il luogo scelto si è dimostrato intelligente, perché non troppo vicino al centro di questa municipalità che in passato è stata triste simbolo della pulizia etnica. Anche i tempi sono stati quelli giusti, perché la ricostruzione è iniziata dopo oltre un anno dall'inizio del processo di rientro dei musulmani. "Se l'obiettivo è il rientro", dice ancora Sead Jakupovic, "è importante porre attenzione ai sentimenti della gente, dare agli amimi il tempo di calmarsi".
"Creare occasione di incontro tra chi rientra e chi vive a Prijedor, creare luoghi di discussione pubblica, coinvolgendo i rappresentanti politici locali, i leader religiosi, gli intellettuali della comunità, le associazioni, la scuola. Fare informazione corretta." Ecco come promuovere la convivenza secondo le associazioni di donne di Prijedor riunitesi proprio in questi giorni per programmare le attività di sostegno al rientro in collaborazione con la Agenzia della Democrazia Locale di Prijedor, sostenuta dalla Comunità Trentina, dalla città spagnola di Cordoba e dal Consiglio d'Europa.
Chi ora paga la scelta affrettata compiuta dalla comunità internazionale a Banja Luka sono tutti i cittadini che sperano in un futuro di convivenza: i bosniaci, che ora devono relazionarsi a questo ulteriore trauma; i serbi, che si sono macchiati di un ulteriore "crimine" agli occhi del mondo.
Qui in Bosnia Erzegovina vivono persone. Cittadini che vogliono pace e futuro. Uomini e donne che stanno provando a vivere la propria esistenza. La strofa di una canzone recita: "non so perché né per cosa né come ma sono stanco". C'è bisogno di serietà e di intelligenza. Di una solidarietà matura.
Da Prijedor, a 300 chilometri dai confine dell'Unione Europea
Annalisa Tomasi, delegata della Agenzia della Democrazia Locale di Prijedor
© Osservatorio sui Balcani;
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