A un mese dalle prime proteste, la 'bebolucija' sembra già avere tradito i suoi propositi originari. Scarso interesse della cittadinanza, confusione dei manifestanti, debolezza dell'organizzazione: la primavera bosniaca è rimandata a data da definirsi

08/07/2013 -  Rodolfo Toè

Lunedì primo luglio sono circa mille di fronte al parlamento, a Sarajevo. Chi si distrae col calcio, chi con la pallavolo, chi ha portato i propri figli a giocare in un ironico "campo di addestramento per terroristi" sotto i cinque anni, improvvisato in trg Bosne i Hercegovine. L'atmosfera, complice probabilmente anche l'allentamento della tensione prodotto involontariamente con il silenzio delle due ultime settimane, è molto più distesa. Quasi apatica.

Tra i pochi gruppi davvero battaglieri, c'è la mezza dozzina di militanti dell'Anti-Dayton group. Bandiere con il simbolo dei Kotromanić bene in vista, sono qui "per ribadire l'illegittimità dell'accordo di Dayton che ci ha rubato il paese", mi dice Ibrahim Halilović, il più bellicoso del gruppo. Ibrahim lavorava alla televisione di Sarajevo prima della guerra, poi fu costretto a fuggire in Canada. "Me ne rimarrò qui, perché ci hanno tradito tutti. Continuerò a sventolare questo vessillo, perché i politici ne hanno paura". Alle sue spalle, sulle barricate erette a protezione dell'edificio, uno striscione recita: viva la repubblica di Bosnia Erzegovina. Le casse trasmettono canzoni degli Zabranjeno Pušenje. La folla occupa pacificamente la strada, che rimarrà chiusa fino alle sei del pomeriggio.

Ci sono gruppi di persone provenienti da tutto il paese, da Mostar a Banja Luka. Ma l'impressione è che qualcosa sia mutato rispetto alle proteste dei primi giorni, che avevano fatto sperare molti nella possibilità di una tanto attesa 'primavera' bosniaca.

Nel corso della settimana appena conclusa, sulla stampa numerosi commenti hanno in effetti parlato di una "degenerazione" della bebolucija: la 'rivolta' sarebbe divenuta appannaggio di piccoli gruppi che le avrebbero impresso una svolta identitaria e pro-bosgnacca. La prima critica in ordine di tempo è stata quella di Almir Pjaneta, pubblicata su 'Slobodna Bosna' con il titolo: "la Bebolucija è finita". Secondo Pjaneta, la scarsa partecipazione alla protesta di lunedì scorso ha finito col favorire formazioni marginali, tendenzialmente bosgnacche e nazionaliste, che hanno preso il controllo della manifestazione alterandone la natura. "La cosa peggiore è che queste derive fanno il gioco dei politici serbi, che fin da subito avevano denunciato il carattere nazionalista della mobilitazione".

Il fatto è che le parole d'ordine, in un clima di generale indifferenza, sono gradualmente cambiate. Le bandiere della Bosnia indipendente, utilizzate dall'Armija durante il conflitto degli anni novanta e riapparse lunedì scorso, sono le principali imputate. Dai biberon si è passati agli zlatni ljiliani, dalla critica alla classe politica al sostegno "della repubblica di Bosnia Erzegovina". Sono nuance che non sono sfuggite agli occhi dei commentatori locali.

Emir Imamović (Radio Sarajevo), in un tagliente pezzo intitolato "i bambini che hanno divorato la bebolucija", esprime la frustrazione per "un'occasione storica mancata", e per una protesta cittadina che si è trasformata "nel suo contrario, ammettiamolo, in una parata bosgnacca [...]. La bebolucija aveva un obiettivo semplice e apolitico: ottenere dal governo i servizi per cui tutti abbiamo pagato". Invece è bastato poco, secondo Imamović, per favorire la comparsa di simboli e slogan che appartengono, di fatto, a una sola etnia, e che sono percepiti in modi diametralmente opposti in tutto il paese.

Se i segnali di questa presunta "degenerazione" sono enfatizzati dalla stampa bosniaca, al tempo stesso il tono risolutamente censorio di questi editoriali è indice di un movimento ormai disorientato."Come è possibile che dal blocco delle istituzioni, dalle richieste di un numero di identificazione personale per tutti e di un fondo per le malattie gravi dell'infanzia, si sia passati a minacce assurde come quella di 'boicottare i negozi' e di non pagare le bollette?", si chiede Vuk Bačanović dalle colonne di 'Buka'. "Come è possibile che gli organizzatori, che sono sempre stati molto attenti a prendere le distanze da ogni formazione politica, ora si trovino in balia di gruppi estremamente marginali come quello Anti-Dayton?".

Le carenze della società civile

Una prima, lapidaria spiegazione la dà lo stesso Bačanović, attaccando gli ideatori della protesta: "Un movimento di resistenza popolare, oltre che di un obiettivo ben definito, ha bisogno di un'organizzazione e deve poter contare su buone capacità logistiche e su di una disciplina di ferro. Altrimenti, si tratta solo di un insieme confuso di individui".

Esistono, certo, difficoltà sistemiche. "Difficilmente movimenti di rivolta civica possono avere effetti sulle istituzioni in Bosnia Erzegovina", spiega a Osservatorio Suad Arnautović, professore alla facoltà di scienze politiche di Sarajevo. Tra i suoi lavori, numerosi sono dedicati al sistema politico del paese: "I movimenti cittadini non possono cambiare alcunché perché il nostro sistema istituzionale, deciso con Dayton, di fatto paralizza la nostra vita politica cristallizzandola su basi etniche". Rivolte come quella avvenuta nella capitale nelle ultime settimane non hanno la forza di portare il cambiamento. "Piuttosto, è meglio riporre la speranza nelle riforme puramente istituzionali, come quelle che dovrebbero risolvere la controversia Sejdić-Finci".

La "rivoluzione dei bebè", nell'arco di un mese soltanto, sembra essere così già condannata a un riflusso che è emblematico dello stallo bosniaco. Società e politica in Bosnia Erzegovina sono continenti separati, ed eventuali 'risvegli civici', lungi dal gettare un ponte tra i due, ne acuiscono la distanza. Perché denunciano la totale assenza di organismi e d'individui capaci di filtrare le istanze popolari, per farle diventare 'politiche' e renderle parte di una dinamica democratica normale.

Sono mancati gli intellettuali, che non hanno preso parte attiva al movimento, limitandosi a "sostenerlo" - come migliaia di altre persone - attraverso la condivisione di proprie foto con la scritta: "JMBG" (Jedinstveni matični broj građana, numero unico di identificazione personale). Gli endorsement che hanno suscitato più entusiasmo, da questo punto di vista, sono stati quello della nazionale di calcio bosniaca, e quello della sua stella principale, l'attaccante del Manchester City Edin Džeko, che ha inviato ai propri connazionali una foto scattata insieme alla compagna su una spiaggia tropicale. Praticamente una cartolina.

Sono mancate le ONG, anche se molti attivisti hanno scelto di partecipare alla protesta "a puro titolo personale". Come Darko Brkan, di 'Zašto Ne', che intervistato da Osservatorio Balcani e Caucaso ha tenuto a sottolineare immediatamente come "il primo imperativo della manifestazione sia stato evitare le ingerenze di qualsiasi organizzazione o partito", per mantenere vivo un movimento cittadino che "non è frutto della speranza, ma della disperazione".

L'isolamento politico

Sono mancati, infine, i partiti politici. La colpa va probabilmente equamente ripartita tra le due parti. Il movimento della bebolucija, invocando a ogni costo la propria indipendenza da ogni formazione partitica, l'ha resa il proprio feticcio: il prezzo che ha pagato per non 'sporcarsi le mani' con la politica è stato l'isolamento. Di fatto, i manifestanti oggi si sono alienati ogni possibile interlocutore.

Da parte loro, i politici non hanno potuto creare un rapporto confidenziale con gli 'indignati', per cercare di appoggiarne le rivendicazioni. Era chiaro che i partiti tradizionali se ne sarebbero disinteressati. Ma anche formazioni 'di responsabilità civica' e slegate da ogni appartenenza etnica come Naša Stranka non sono riuscite a instaurare alcun dialogo con la protesta.

"Abbiamo partecipato fisicamente ai primi giorni di manifestazione", constata il presidente del partito, Dennis Gratz, intervistato da Osservatorio, "io personalmente non avevo problemi a farmi vedere tra gli organizzatori, non fosse altro per il fatto che, banalmente, non ci sono nostri rappresentanti in parlamento".

Gratz sottolinea che ci sono stati tentativi di creare delle sinergie con il movimento, ma è stato tutto inutile: "Erano ossessionati dal terrore che un qualche partito potesse sfruttarli. Una posizione comprensibile, ma un po' naif. Nutro la massima stima per i cittadini che stanno protestando, ma c'è una cosa che purtroppo non capiscono: fare di tutta l'erba un fascio, e mettere tutti i partiti sullo stesso piano, è un gioco pericoloso. La maggior parte dei partecipanti alla bebolucija sono giovani che non votano nemmeno. Ma i politici che detengono il potere in Bosnia Erzegovina sono lì da vent'anni, e il solo modo per mandarli a casa è batterli alle elezioni".

Senza una alternativa che faccia cambiare passo al paese già alle elezioni del prossimo anno, questa protesta rischia di essere un evento episodico. Che forse potrà contribuire al risveglio civico del paese, ma che per concretizzarsi ha bisogno di altro, non solo di palloncini e jugorock.

 

Questa pubblicazione è stata prodotta con il contributo dell'Unione Europea. La responsabilità sui contenuti di questa pubblicazione è di Osservatorio Balcani e Caucaso e non riflette in alcun modo l'opinione dell'Unione Europea. Vai alla pagina del progetto Racconta l'Europa all'Europa


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