Il nuovo candidato al posto di Alto Rappresentante in Bosnia Erzegovina e il tempo a disposizione per la comunità internazionale. Il dibattito politico interno, le riforme costituzionali, la crisi economica globale. Nostro commento
Il diplomatico austriaco Valentin Inzko è il candidato dell'Unione Europea al posto di Alto Rappresentante in Bosnia Erzegovina. La notizia è stata confermata mercoledì scorso dall'ufficio di Javier Solana, responsabile dell'Unione per la Politica Estera e di Sicurezza Comune. Inzko, nato nel 1949 in Carinzia da una famiglia di origini slovene, è l'attuale ambasciatore dell'Austria a Lubiana ed è stato - tra il 1996 e il 1999 - il primo ambasciatore austriaco a Sarajevo.
La decisione sulla sua candidatura dovrà essere assunta dal Peace Implementation Council (PIC), un organismo composto da 55 Stati e agenzie internazionali creato dopo la firma degli accordi di Dayton per dirigere il processo di pace in Bosnia Erzegovina. La prossima riunione del PIC, il cui comitato esecutivo è composto da Canada, Francia, Germania, Italia, Giappone, Russia, Gran Bretagna, Stati Uniti, Unione Europea e Organizzazione della Conferenza Islamica (rappresentata dalla Turchia), si terrà il 26 e 27 marzo prossimi a Sarajevo.
Secondo indiscrezioni rese note da Radio Free Europe e riprese dall'emittente belgradese B 92, Inzko avrebbe già ricevuto luce verde da Washington. L'amministrazione americana avrebbe però posto come condizione la disponibilità del nuovo incaricato a utilizzare i cosiddetti "poteri di Bonn", che permettono all'Alto Rappresentante di intervenire nella politica locale imponendo le proprie decisioni e rimuovendo dalle funzioni i politici bosniaci che agiscano contrariamente a Dayton.
Valentin Inzko sarebbe il settimo Alto Rappresentante, dopo Carl Bildt (1995-97), Carlos Westendorp (1997-99), Wolfgang Petritsch (1999-2002), Paddy Ashdown (2002-06), Christian Schwarz-Schilling (2006-07) e Miroslav Lajčák.
La sua nomina andrebbe a colmare il vuoto di potere apertosi in Bosnia con la fine del mandato di Lajčák che, nella sorpresa generale, il 26 gennaio scorso aveva dichiarato che avrebbe lasciato Sarajevo per divenire ministro degli Esteri della Slovacchia. Lajčák non aveva fornito spiegazioni sulla sua decisione. Secondo diversi osservatori, tuttavia, l'ex Alto Rappresentante era ormai una "anatra zoppa", in particolare dopo il conflitto dell'autunno 2007 che lo aveva opposto al premier della Republika Srpska, Milorad Dodik, sulla questione della riforma della polizia. In quell'occasione a molti era sembrato evidente che Lajčák non aveva dietro di sé il sostegno unanime della comunità internazionale. Senza l'accordo delle principali cancellerie coinvolte nel processo di pace, l'Ufficio dell'Alto Rappresentante è una scatola vuota. Terminato il mandato Lajčák, la comunità internazionale sembra però ancora priva di una chiara strategia per porre fine al proprio intervento nel paese. La lentezza del processo che ha portato alla nomina di Inzko suona come una conferma. Il diplomatico austriaco deve essere pronto ad utilizzare i poteri di Bonn. Ma per fare che?
L'Ufficio dell'Alto Rappresentante, secondo le previsioni, avrebbe dovuto chiudere nel 2007, ed essere sostituito da un Rappresentante Speciale dell'Unione Europea. Da due anni questa chiusura continua ad essere rinviata. L'instabilità politica - che ha raggiunto un livello di guardia nel corso della campagna elettorale del 2006, e che continua a rimanere alta - ha portato il PIC a mantenere inalterate le forme della propria presenza nel paese. Questa presenza, tuttavia, sembra ormai vivere alla giornata, tra piccoli e grandi compromessi, cabotaggi e scaramucce con i leader locali.
Il dibattito politico è da tempo polarizzato attorno alle posizioni del premier della Republika Srpska, Milorad Dodik, e del rappresentante bosgnacco dell'ufficio di presidenza bosniaco, Haris Silajdžić. Nel corso degli ultimi mesi - e in particolare dopo la dichiarazione di indipendenza di Pristina del 17 febbraio 2008 - Dodik ha più volte minacciato un referendum per l'indipendenza della Republika Srpska (RS) dalla Bosnia Erzegovina. Silajdžić chiede invece con decisione l'abolizione della RS, e la costituzione di un forte stato centralizzato. Entrambe le posizioni sono contrarie a Dayton. Entrambe hanno scarsissime possibilità di essere realizzate. Entrambe continuano però ad orientare il dibattito pubblico e a funzionare per attrarre voti, soprattutto dalle campagne.
L'ultima tornata elettorale, tuttavia, il 5 ottobre scorso, ha visto la flessione, in campo bosgnacco, del partito di Silajdžić a vantaggio del Partito di Azione Democratica (SDA) del pragmatico Sulejman Tihić. Un mese dopo il voto, l'otto novembre, Tihić si è incontrato con Dodik e con il presidente del partito di maggioranza relativa tra i croato bosniaci (Unione Democratica Croata, HDZ BiH), Dragan Čović.
Da un paesino della Bosnia settentrionale, Prud, presso Odžak, i tre hanno dichiarato alla stampa di aver raggiunto un accordo sulle principali questioni che riguardano il futuro del paese. L'accordo di Prud, preso al di fuori delle istituzioni e nell'afasia della comunità internazionale, è stato l'evento politico più rilevante degli ultimi mesi in Bosnia.
Ma cosa è stato detto a Prud e negli incontri successivi (22 dicembre, il 26 gennaio e il 21 febbraio)? I tre leader stanno affrontando, tra l'altro, l'irrisolta questione della divisione delle proprietà statali (secondo le autorità della RS andrebbero registrate a livello delle entità e non a livello centrale), e l'altrettanto annoso problema del censimento della popolazione.
L'ultimo censimento condotto in Bosnia Erzegovina è quello del 1991. Si parla da anni di una nuova rilevazione, ma tutti la temono, per motivi diversi. Il nuovo censimento potrebbe rivelare che i croati - uno dei tre popoli "costitutivi" con eguale rappresentanza a livello centrale - siano rimasti in pochi, molti meno del 17% rilevato nel 1991. I bosgnacchi temono di scoprire che la RS sia ormai un territorio completamente "pulito" dal punto di vista etnico, mentre i serbi potrebbero trovare che i bosgnacchi sono molto più numerosi degli altri. Per la comunità internazionale, il rischio è invece quello di scoprire che le statistiche sui ritornanti (le persone tornate a vivere dove risiedevano prima della guerra) siano sopravvalutate, e che la pulizia etnica sia in realtà stata un successo dappertutto. Le ultime rilevazioni sono quelle dell'UNHCR. Si parla di 1.026.692 rientrati, meno della metà del totale di profughi e sfollati causati dalla guerra. Nessuno, però, sa se questo milione di persone sia davvero ritornato, e quanti siano invece rientrati solo temporaneamente per riprendere possesso della proprietà e magari rivenderla o scambiarla con chi - in quella determinata comunità locale - è divenuto maggioranza. Un censimento metterebbe fine alle speculazioni, ma il risveglio potrebbe essere amaro.
Il piatto più succulento del dibattito in corso, però, è quello relativo alle cosiddette riforme costituzionali. Si tratta del fulcro della politica bosniaca dal 1995 ad oggi. I termini del problema sono abbastanza semplici: Dayton ha fermato la guerra ma ha creato uno stato non funzionale, come riformarlo? Non è chiaro cosa sia stato detto su questo a Prud. Ognuno dei tre leader - nelle dichiarazioni alla stampa - ha dimostrato di aver capito una cosa diversa. Ci saranno più entità al posto delle due esistenti? Verrà abolita la Federazione con i suoi dieci cantoni? L'impressione generale è che non siano stati fatti molti passi in avanti.
Senza una mediazione internazionale forte, è difficile pensare ad una via d'uscita dall'enigma bosniaco. E' necessario un rinnovato partenariato tra la comunità internazionale e la Bosnia Erzegovina, con soluzioni innovative che permettano di dotare il paese di istituzioni funzionali al percorso di integrazione europeo, basate su criteri di rappresentanza civica, non etnica, ma restando all'interno del quadro territoriale stabilito a Dayton.
Tutto questo può avvenire nel contesto di una nuova conferenza internazionale sulla Bosnia Erzegovina, oppure grazie alla mediazione di un Alto Rappresentante dotato di un mandato chiaro. Soluzioni intermedie non ce ne sono, e il tempo a disposizione non è infinito.
La comunità internazionale però, in questo momento, deve avere una gran fretta di andarsene se persino l'autorevole International Crisis Group, nel suo ultimo report dedicato al paese, ammonisce di non chiudere l'Ufficio dell'Alto Rappresentante: "Adesso è il momento sbagliato per accelerare la transizione".
L'agenda politica è ormai dettata dall'approfondirsi della crisi economica globale. Questa, tuttavia, si sta delineando sempre più come un fattore di rischio ulteriore per i Balcani e la Bosnia Erzegovina.
Una parte importante del sistema finanziario bosniaco è infatti controllato da banche straniere. Le ripercussioni della crisi potrebbero facilmente portare al collasso del credito e del mercato immobiliare. Questo però è un paese in cui il 43% della popolazione attiva - già oggi - è fuori dall'impiego, e che si regge sulle rimesse, oltre che sull'economia informale. Se gli operai bosniaci che lavorano nelle fabbrichette del nord Italia o a St. Louis dovessero smettere di mandare i soldi a casa, il paese entrerebbe davvero in una crisi seria che, sommata a quella politica, potrebbe avere conseguenze imprevedibili.
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