Al pari di altre grandi città dei Balcani, di tanto in tanto Tuzla ricompare in cima alle classifiche delle città più inquinate del mondo. Oltre ai tumori e alle malattie cardiovascolari, sono in aumento anche i casi di allergie, bronchite cronica e asma
(Pubblicato originariamente da Le Courrier des Balkans il 18 febbraio 2023)
Ogni anno la stessa storia: appena le temperature iniziano ad abbassarsi, le strade di Tuzla si ritrovano avvolte da una fitta nebbia. Questo “smog”, come lo chiamano gli abitanti, è diventato il simbolo dell’estremo inquinamento dell’agglomerato urbano di Tuzla, che conta poco più di 100mila abitanti e dove a tutt’oggi si coltiva la memoria di una Bosnia Erzegovina cosmopolita e antinazionalista. I ritratti del maresciallo Tito, fondatore della Jugoslavia socialista, ancora campeggiano orgogliosamente negli uffici del comune, sin dall’indipendenza della BiH governato dal Partito socialdemocratico (SDP), erede della Lega dei comunisti.
Al pari di altre grandi città dei Balcani, di tanto in tanto Tuzla ricompare in cima alle classifiche delle città più inquinate del mondo, accanto alle megalopoli cinesi e indiane. “L’inverno è la stagione peggiore”, spiega Goran Stojak. “La nebbia corrode il corpo, il naso pizzica, gli occhi bruciano, i bronchi fischiano. Avvertiamo gli effetti delle polveri che penetrano nel nostro organismo”.
Questo giovane robusto vive nel villaggio di Divkovići, sulle colline nell’immediata vicinanza della centrale termoelettrica. Dalla sua casa si vede il fumo che esce dalle alte ciminiere.
Le lapidi del piccolo cimitero del villaggio recano incise date inquietanti: poche persone hanno vissuto più di sessant’anni. “In questo villaggio non ci sono anziani. Tutti muoiono di cancro prima di giungere alla vecchiaia”, spiega Goran Stojak, aggiungendo che nel 2006 anche suo padre è morto prematuramente. “Qui in ogni casa c’è un inalatore”.
Prima degli anni Duemila il villaggio di Divkovići contava oltre cinquecento abitanti. Oggi ve ne sono meno di un centinaio. “Gli abitanti, per la maggior parte, sono malati, oppure sono costretti a rimanere perché non riescono a vendere la loro terra. Gli altri se ne sono andati da tempo”, lamenta Stojak.
Izet Barčić, sessantacinque anni, vive in uno dei pochi edifici non abbandonati. Da tempo ormai è costretto a fare i conti con le conseguenze dell’inquinamento. “Sono quasi vent’anni che vivo con un solo polmone funzionante. Non so per quanto tempo ancora resisterò”, spiega Barčić con la sua voce roca. Operato più volte, non esce mai senza il suo antiasmatico. La modesta pensione che riceve dallo stato non basta per coprire i costi delle cure, quindi spesso si trova costretto a chiedere aiuto ai parenti.
“L’inquinamento atmosferico è un assassino invisibile”, riassume il professor Emir Durić che ha lavorato al Centro clinico di Tuzla prima di trasferirsi in Germania. Majda Mulić dell’Istituto di sanità pubblica spiega che l’inquinamento provoca numerose malattie. “È un grande problema per l’intera comunità locale”. Oltre ai tumori e alle malattie cardiovascolari, sono in aumento anche i casi di allergie, bronchite cronica e asma. “Queste patologie colpiscono in particolare la popolazione vulnerabile, soprattutto i bambini”, sottolinea Majda Mulić. Nelle aule scolastiche le concentrazioni di anidride carbonica e di polveri sottili sono fino a otto volte superiori ai limiti stabiliti dall’Organizzazione mondiale della sanità (OMS).
Ogni anno, nella centrale termoelettrica di Tuzla , la più grande della Bosnia Erzegovina, vengono bruciati in media 3,3 milioni di tonnellate di lignite. La centrale, messa in funzione nel 1963, è uno dei dieci impianti industriali più inquinanti d’Europa: le sue ciminiere emettono oltre 51.000 tonnellate di anidride solforosa all’anno. Il complesso di Tuzla non è l’unico grande inquinatore della regione. Stando ai dati pubblicati dalla rete di ong ambientaliste Bankwatch , diciotto centrali a carbone dei Balcani occidentali inquinano più di tutte le centrali (221) dell’Unione europea.
Gli abitanti di Tuzla spesso scendono in strada per protestare contro l’inerzia delle autorità nel combattere l’inquinamento atmosferico. Nel gennaio 2020, poco prima dello scoppio della pandemia da Covid 19, in centinaia erano scesi in piazza indossando la mascherina, sfidando il freddo glaciale con lo slogan: “Vogliamo respirare a pieni polmoni”. Tra i manifestanti c’era anche Denis Žiško.
Dieci anni fa, questo instancabile attivista ambientalista aveva partecipato all’elaborazione del primo studio sull’impatto della combustione del carbone sulla salute umana nel cantone di Tuzla. Pur essendo diventato bersaglio di numerose minacce a causa delle sue ricerche su questo argomento, Žiško non ha alcun rimpianto. “Siamo riusciti a sensibilizzare la popolazione sui rischi. Oggi tutti sanno che il carbone è un problema”, afferma Žiško. Nonostante le conclusioni allarmanti dei vari rapporti pubblicati nel corso degli anni, le autorità locali non sembrano disposte a rinunciare all’oro nero.
Žiško spiega che ai tempi della Jugoslavia i minatori venivano presentati come eroi e a tutt’oggi sono percepiti come simbolo di un’epoca.
Oggi in Bosnia Erzegovina, afflitta da una disoccupazione di massa, circa 11mila persone lavorano nelle miniere di carbone, per la maggior parte di proprietà dello stato. Tuttavia, l’estrazione di lignite è un’attività sempre meno redditizia e il settore sopravvive a stento. I salari dei lavoratori sono stati tagliati più volte negli ultimi anni. Per di più, in alcune miniere la lignite deve essere estratta manualmente per via dei continui guasti ai macchinari ormai obsoleti. Nel novembre 2021 i minatori si sono ribellati chiedendo più mezzi e più diritti. Le loro richieste però sono rimaste sostanzialmente inascoltate.
“L’ambiente di lavoro è tossico”, racconta Senad Sejdić, presidente del sindacato di Mramor, uno dei tre siti di estrazione della miniera di Kreka, la più antica della Bosnia Erzegovina, situata nei pressi di Tuzla. “Da tempo ormai la direzione non investe, né tanto meno assume nuovi lavoratori. Dal 2017 il macchinario per l’estrazione non funziona, quindi i minatori sono costretti ad estrarre il carbone manualmente, muniti di pale, picconi ed esplosivi.
“Le quattro centrali elettriche del paese acquistano la lignite ad un prezzo dimezzato rispetto al costo effettivo di produzione, e la differenza la pagano i contribuenti”, spiega Denis Žiško. Nonostante in BiH il costo di un kWh sia di cinque volte inferiore alla media UE, i cittadini – come sottolinea Žiško – pagano tre volte: il costo della fornitura, le tasse e le spese mediche.
Stando ai dati diffusi dall’OMS , la Bosnia Erzegovina è il quinto paese al mondo per morti attribuibili all’inquinamento atmosferico. Nel cantone di Tuzla, l’aspettativa di vita è inferiore di 3,2 anni rispetto alla media del paese. Tra le persone di età superiore ai 30 anni, un decesso su cinque è associato ad un’esposizione eccessiva a polveri sottili.
Nel 2018 gli esperti di Bankwatch hanno stimato i costi sanitari aggiuntivi legati all’inquinamento causato dalla centrale di Tuzla, arrivando alla cifra di oltre 600 milioni di euro. Lo stesso anno, Bankwatch ha monitorato quotidianamente la qualità dell’aria in BiH per 144 giorni consecutivi, rilevando che per ben 98 giorni, quindi più di due terzi del periodo analizzato, le concentrazioni di polveri sottili erano superiori ai limiti di legge. Nessuno è mai stato sanzionato per questo inquinamento, nonostante la legge bosniaco-erzegovese, in linea con gli standard internazionali, preveda un massimo di 35 giorni all’anno di sforamenti consentiti.
Nel 2020 la Bosnia Erzegovina si è ufficialmente impegnata a decarbonizzare l’industria del paese , ossia a chiudere le miniere e le centrali a carbone entro il 2050. Sei anni prima, nel 2014, era stato approvato un piano di riduzione delle emissioni. Da allora però non è stato fatto alcun passo in avanti. “Una delle raccomandazioni era di predisporre tempestivamente impianti di desolforazione – ricorda Denis Žiško – un intervento che a Tuzla viene continuamente rimandato perché, come alcuni sostengono, porterebbe ad un aumento del consumo di energia elettrica”.
Nell’ottobre 2020 la Comunità dell’energia ha criticato la BiH per la sua inerzia nel combattere l’inquinamento da carbone. Due anni prima lo stato aveva annunciato di voler chiudere il blocco 4 della centrale termoelettrica di Tuzla e il blocco 5 della centrale di Kakanj dopo 20.000 ore di funzionamento, per poi posticipare la chiusura motivando tale decisione con l’aumento del fabbisogno legato alla guerra in Ucraina e alla crisi energetica.
Nel frattempo, la centrale di Tuzla continua a inquinare anche il suolo. I residui della combustione del carbone, un terzo della massa iniziale, vengono mescolati con l’acqua in appositi impianti e poi trasportati alle discariche a cielo aperto alla periferia di Tuzla. In sei decenni di attività della centrale, in queste discariche, situate nelle immediate vicinanze dei campi coltivati e delle abitazioni, si sono accumulate decine di milioni di metri cubi di fanghi tossici. Il cosiddetto Veliko Jezero II [il grande lago], trasformato in una discarica di scorie e ceneri prodotte dalla centrale di Tuzla, ormai ha un colore blu soprannaturale dovuto all’alcalinità molto elevata delle sue acque. “Quest’acqua ha un pH superiore a 11, come la candeggina”, spiega Denis Žiško. L’attivista si reca regolarmente in questa zona per prelevare campioni e documentare i danni causati all’ambiente circostante. Tutt’intorno gli alberi sono morti. D’estate, quando le temperature sfiorano i 40 gradi, la polvere vola dappertutto.
“Queste scorie e ceneri contengono diversi metalli pesanti”, afferma Abdel Đozić, professore presso l’Università di Tuzla e autore di una ricerca sull’inquinamento dell’acqua e del suolo nell’area circostante la centrale. “I campioni prelevati a diverse profondità dimostrano che le concentrazioni di cadmio, piombo, nichel e cromo sono fino a 340 volte superiori ai valori consentiti. Questi metalli pesanti penetrano nel suolo e nelle acque sotterranee, compromettendo così l’intera catena alimentare. Quindi, le conseguenze si faranno sentire per centinaia di anni”, sottolinea il professor Đozić.
Le discariche abbandonate non sono mai state bonificate. Il suolo, carico di metalli pesanti, è stato semplicemente ricoperto da un sottile strato di terra, per poi essere destinato ad uso agricolo. Nelle discariche dismesse di Plane e Držnik, ormai trasformate in campi coltivati, Bankwatch ha rilevato la presenza di nichel in concentrazioni tra 6 e 12 volte superiori ai limiti raccomandati. Anche le concentrazioni di cromo e cadmio risultano ben al di sopra dei limiti (1,6-4 volte). Questi metalli pesanti provocano gravi danni alle ossa e agli organi vitali (fegato, milza, cervello) anche in piccole quantità.
“Nel 2005, uno studio finanziato dall’UE ha confermato che è troppo pericoloso svolgere attività agricole nelle discariche dismesse”, ricorda Denis Žiško, per poi aggiungere ironizzando: “La transizione verde inizierà solo quando i politici capiranno come utilizzarla per riempirsi le tasche. Per il momento, anziché costruire un centinaio di parchi solari o eolici, preferiscono controllare quattro grandi centrali a carbone”. Ed effettivamente, i posti di lavoro pubblici, peraltro ben retribuiti, nelle centrali termoelettriche servono ai partiti etno-nazionali per piazzarvi i loro seguaci, ottenendo in cambio un nutrito bacino di voti ad ogni tornata elettorale.
Le autorità bosniaco-erzegovesi sperano di poter finalmente concretizzare quello che hanno a più riprese definito come “il più grande investimento estero dalla fine della guerra”, ossia la costruzione del nuovo blocco 7 della centrale di Tuzla. Il progetto, affidato ad un’azienda cinese, per un valore complessivo di oltre 600 milioni di euro, è stato più volte rinviato , per poi ritornare in auge con la crisi energetica globale che, aggravata dalla guerra in Ucraina, ha portato ad un rinnovato interesse per il carbone. Nei primi sette mesi del 2022 le esportazioni di carbone bosniaco sono raddoppiate rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. Il principale importatore resta la Serbia, dove la quota di energia elettrica prodotta da lignite costituisce i due terzi del totale nazionale e le miniere del paese non bastano a soddisfare la domanda.
Anche la Germania sembra puntare nuovamente sul carbone, fatto che spesso viene utilizzato come argomentazione per mettere a tacere le critiche che l’UE rivolge ai Balcani occidentali per gli scarsi progressi sul fronte della transizione verde e della promozione delle energie rinnovabili.
Nel frattempo, la Bosnia Erzegovina resta tra i dieci paesi più dipendenti dal carbone al mondo. Nel 2020, la quota di energia elettrica prodotta da carbone costituiva il 70% della produzione nazionale totale. Il resto dell’energia (27,5%) proveniva principalmente da grandi centrali idroelettriche costruite nel periodo jugoslavo. Nonostante alcuni recenti investimenti, l’energia eolica rappresenta solo l’1,5% e quella solare appena lo 0,3% della produzione nazionale.
Dopo alcuni scandali degli ultimi anni riguardanti le piccole idrocentrali, le autorità della BiH non sembrano più disposte a investire nell’energia idroelettrica. “Se ci focalizzassimo sullo sviluppo del fotovoltaico e delle turbine eoliche, riusciremmo a produrre una quantità di energia più che sufficiente per evitare di ricorrere al carbone”, spiega Denis Žiško concludendo: “Le autorità sanno che prima o poi dovranno avviare la transizione, ma – in combutta con la potente lobby del carbone – cercano di rimandarla il più a lungo possibile per trarre maggiori benefici dall’energia sporca, senza preoccuparsi del suo effetto devastante sull’ambiente e sulla salute dei cittadini”.
L’articolo è stato realizzato con il sostegno di Journalismfund.eu
Hai pensato a un abbonamento a OBC Transeuropa? Sosterrai il nostro lavoro e riceverai articoli in anteprima e più contenuti. Abbonati a OBCT!