Il racconto della rabbia e dell'indignazione dei cittadini bosniaci. Le possibilità di un nuovo soggetto politico collettivo e un appello accorato a non disperdere questo prezioso patrimonio di energia. Il commento di Larisa Kurtović
(Pubblicato originariamente da “MediaCentar Online" il 9 febbraio 2014, selezionato da Bosnia-Herzegovina Protest Files e tradotto da OBC)
Nel mare di articoli e commenti da cui siamo stati investiti nei giorni scorsi, uno dei temi su cui si è concentrata gran parte dell'attenzione, soprattutto a Sarajevo, è stato se le proteste in corso, le più radicali che la Bosnia Erzegovina ricordi, siano state orchestrate e prodotte dalla manipolazione politica.
Le lezioni del passato hanno portato i cittadini bosniaci a mantenere un atteggiamento estremamente scettico verso le versioni ufficiali degli eventi. In molti sono convinti del fatto che la verità sia nascosta dietro le quinte, che le immagini della realtà offerte siano soltanto un'illusione, e che i cittadini sono sempre vittime di un qualche tipo di manipolazione o cospirazione.
Considerando la manipolazione politica e mediatica a cui abbiamo assistito nei giorni scorsi, questo atteggiamento critico ha il suo perché. Tuttavia, nel caso di queste proteste, il fatto innegabile che va enfatizzato (anche se alcune delle tattiche violente usate dai manifestanti possono essere state in parte motivate da interessi politici particolari), è che gli eventi in corso in Bosnia trascendono assolutamente il quadro di una presunta manipolazione.
Anche se ad alcuni facinorosi pagati è stato consentito introdursi negli edifici governativi, è innegabile il fatto che in molte città bosniache siano apparsi migliaia, in alcuni casi decine di migliaia di lavoratori, pensionati e giovani umiliati, impoveriti e sconfitti, una massa di persone così diverse nel loro orientamento politico, nei pensieri, nelle paure e nelle speranze, che l'unica cosa ad unirle è la rabbia, giustificata ed a lungo soppressa, ora condivisa.
L'incubo della guerra e del dopoguerra
Quello che abbiamo visto nei giorni scorsi è stata la risposta a più di due decenni di una violenza politica dalle molte facce, praticata nei confronti dei cittadini bosniaci da parte di strutture politiche incompetenti, arroganti, criminali, sprezzanti del bene comune. Élite che si sono arricchite grandemente redistribuendo (fra loro) proprietà pubbliche, aziende e beni comuni che appartenevano a tutti.
I cittadini bosniaci hanno pagato il prezzo più alto in seguito al collasso dello stato bosniaco, costretti non soltanto a sopravvivere all'inferno della guerra, ma anche all'incubo del dopoguerra che avevano atteso come un sogno, esausti ma pieni di speranza nel fatto che la pace di Dayton avrebbe portato con sé una qualche forma di normalità ed un futuro in cui valeva la pena sperare.
Affermare che quello che sta accadendo è soltanto il copione di una scenografia politica di partiti che sperano di vincere le prossime elezioni significa ignorare la rabbia collettiva (che è condivisa da molti, moltissimi in Bosnia, indipendentemente dalle diverse posizioni sui metodi violenti) ed il significato politico dell'ingiustizia e dei furti che si sono accumulati dietro la maschera dell'etnonazionalismo e della cosiddetta “liberazione” che doveva seguire alla pace di Dayton.
Un nuovo soggetto politico collettivo?
Le proteste hanno aperto la strada non soltanto al cambio della guardia nei partiti politici, i cui movimenti sono più o meno prevedibili, ma anche all'articolazione di una nuova piattaforma politica che potrà genuinamente servire gli interessi dei cittadini di questo paese.
Per la prima volta dopo decenni, è possibile riconoscere un nuovo soggetto politico collettivo che non si rifà né al gruppo etnico né alla nazione, che unisce classi e generazioni diverse e che ha il potenziale di contestare le strutture di potere. Questo potenziale va usato al meglio, altrimenti perderemmo persino l'ultima speranza che ci resta.
A questo proposito, i manifestanti di Tuzla si sono dimostrati più maturi, presentando alle autorità una chiara lista di richieste e raccomandazioni su come realizzarle. Su questo gli altri centri della protesta sono indietro rispetto a Tuzla, persi in discussioni sulla violenza, se sia giustificata o meno, e sugli “hooligan”.
Una parte della pubblica opinione vede i giovani manifestanti come vittime del sistema in cui sono cresciuti, guardano a loro come ad una generazione aggressiva, distrutta, che non ha più niente da perdere perché nulla ha mai avuto. In altri invece, si è risvegliata una vecchia mitologia, quella dei “borghesi della čaršija” e del loro istinto di percepire come “altro da sé” chiunque non rientri nella costruzione, senza senso, dello “spirito di Sarajevo”, ovvero contadini, persone “arretrate” che in questi giorni sono diventate “hooligan”.
E' anche visibile un po' di ipocrita paura da parte delle persone a cui le scene dal centro della città ricordano troppo, e con troppo dolore, la guerra. Si tratta di una paura, vera, giustificata (condivisa dall'autrice di questo articolo) ma è anche il segno che per molte persone “tutto è ok, basta che non si spari”. Un'idea, una paura, questa, che ha a lungo impedito che manifestazioni così intense prendessero forma prima d'ora in Bosnia. Si tratta di una lettura delle cose che può avere ancora un po' di presa a Sarajevo, i cui residenti godono (si fa per dire) degli standard di vita più alti di tutta la Bosnia, ma non ha alcuna forza ad esempio a Tuzla, dove c'è la più alta concentrazione di disoccupazione nel paese.
Agire prima che il potere si riorganizzi
Per quanto disprezzabili possano essere gesti come il lancio di pietre o gli incendi agli edifici governativi, sono gli unici che per il momento hanno rovesciato alcune poltrone di un potere che fino ad ora non ha sentito la necessità di rispondere alle proteste pacifiche e non violente che hanno cercato di attirare l'attenzione verso i problemi creati dalla negligenza e dal disinteresse per la cosa pubblica.
Prima che i potenti si riorganizzino - ed hanno già iniziato, a partire dalle loro sconfortanti dichiarazioni di essere i meno irresponsabili e corrotti di tutti - i cittadini devono agire. Devono spostare la loro attenzione oltre il dibattito sui giovani “hooligan”, (molti dei quali sono stati già severamente puniti) e verso la creazione di una strategia di lungo periodo e di un piano d'azione mirato all'articolazione di concrete proposte e suggerimenti su come realizzarle.
La cosa più importante da tenere a mente, nello sviluppo di questo percorso di costruzione, sono i motivi e gli obiettivi della mobilitazione, affinché questa energia non si esaurisca, come è accaduto tante volte prima, persa in argomenti senza senso, o in schemi di "fazionalizzazione" o conflitto interno. Sarebbe bene cominciare, ad esempio, con pressioni mirate ad ottenere una riduzione sostanziale degli stipendi e dei privilegi di politici e funzionari a tutti i livelli, e a un rapido sviluppo dei processi che vedono inquisiti per reati di corruzione molti personaggi pubblici.
È necessario organizzare una piattaforma di azioni concrete e mirate, e non urlare slogan generici come quelli che abbiamo ascoltato spesso in questi giorni a Banja Luka, Sarajevo e Tuzla che semplicemente dicevano: “Ladri!”.
Le elezioni non sono una buona opzione
Infine, è importante sottolineare che alcune delle soluzioni che sono state offerte, come le elezioni anticipate, non sono una buona opzione perché si basano su un sistema che è fermamente ancorato allo status quo.
L'idea che le elezioni in questo sistema post-Dayton siano il solo mezzo legittimo per il cambiamento è una menzogna che è stata diffusa al pubblico dalla fine della guerra ad ora. Alle elezioni, dove in ogni caso la metà degli elettori bosniaci non partecipa, si è chiamati a scegliere tra le opzioni politiche esistenti, decise dai partiti stessi, e che sono diverse, le une dalle altre, solo perché una è “pessima”, l'altra “peggio ancora”, e l'altra ancora “la peggiore”.
I partiti politici impiegano un completo arsenale di metodi a lungo testati, incluse minacce, intimidazioni o promesse di contratti o lavoro, manipolazione ideologica e il "buon" vecchio etnonazionalismo per persuadere gli elettori che non c'è altra scelta che non siano loro.
Ad aumentare l'assurdità di questo sistema, c'è il meccanismo per cui, dopo le elezioni persino i partiti che perdono hanno l'opportunità di occupare influenti posizioni se entrano a far parte della coalizione giusta. Questo sistema si attaglia perfettamente ai partiti nelle cui mani è relegato il destino, e le risorse di un intero paese. Partiti che, nonostante una competizione soltanto apparente, funzionano ed operano in una simbiosi perfetta.
Il diritto di sognare
Quello che deve cambiare è la relazione fondamentale tra chi detiene il potere e i cittadini che pagano i loro stipendi assurdamente alti per un lavoro davvero deludente, che sono la fonte delle entrate fiscali di cui lo stato vive e che con il loro lavoro hanno creato le aziende dalla cui vendita politici parassiti hanno comprato ville e Audi. Sono gli stessi parassiti che hanno portato i cittadini ad esaurire la pazienza.
I figli di questi oligarchi arroganti e soddisfatti, hanno “molto da perdere”, ma non hanno più diritto alla vita, al futuro, alla sicurezza, alle ambizioni e ai sogni di quanto ne abbiano i figli degli operai di Tuzla, o i giovani “delinquenti” che hanno incendiato gli edifici del governo cantonale venerdì 7 febbraio. Nel nome di questi ragazzi sacrificati, (per i quali i cittadini di questo paese hanno protestato nel 2008, 2013, 2014), e traditi da questo stato-piovra che ha distrutto le aziende in cui lavoravano i loro genitori, il sistema di sicurezza sociale, di istruzione e sanità pubblica, pateticamente incapace persino di rilasciare documenti di identità validi, i cittadini devono continuare ad uscire per strada e con metodi ragionevoli chiedere un futuro diverso. Un futuro che sia migliore rispetto a quello che gli sta cinicamente sorridendo dagli abissi in cui sono stati prigionieri negli ultimi 22 anni.
Le porte del futuro sono aperte. Avanti!
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