Srebrenica - Rudi Della Bartola

La Bosnia come l'Afghanistan e la Terrasanta. Si rischia di passare da un'emergenza all'altra senza la capacità di stare sulle cose, scavare nei conflitti. Un editoriale

25/07/2006 -  Michele Nardelli

Spero di sbagliarmi, ma fra qualche tempo - così come accade per il conflitto in Terrasanta o per l'Afghanistan - l'attenzione dei media e dell'opinione pubblica ritornerà sulla Bosnia Erzegovina. E non sarà per raccontare di un paese che rinasce dopo la guerra che lo ha devastato negli anni '90 del secolo scorso.

Di un paese che cerca fra mille difficoltà di trovare una propria strada, delle contraddizioni e dei nervi scoperti che un conflitto non elaborato porta inevitabilmente con sé, dell'ordinaria deregolazione che segue la guerra e che segna la vita pubblica nell'amministrazione come nell'economia, della miseria dei tanti anziani che hanno perduto tutto, privati anche della pensione che avrebbe dovuto garantire un paese (la Jugoslavia) che non esiste più, dei boschi violentati dalle mine o delle miniere trasformate in discariche di rifiuti tossici, non ci si interessa più di tanto.

Qualcuno si ricorda che undici anni fa c'è stato un eccidio, quello di Srebrenica, luogo di cui spesso non si sa nemmeno pronunciare il nome, ma anche in questo caso più per l'effetto che può fare l'immagine di centinaia di bare allineate che per l'interrogarsi sulla vergogna dei pogrom o dei campi di concentramento riapparsi nel cuore dell'Europa o di una guerra moderna sull'uscio di casa nostra di cui non abbiamo capito proprio un fico secco.

Perché dei Balcani non vogliamo sapere nulla, se non gli stereotipi. E così passiamo da un'emergenza all'altra, senza mai aver la capacità di stare sulle cose, di scavare dentro i conflitti, di cogliere il messaggio che ne viene. Quasi una forma di autismo che ci impedisce di vedere e di comprendere la complessità e l'interazione di ciò che accade con le nostre stesse esistenze.

Lo dico per l'informazione, per la politica, per lo stesso pacifismo che sa manifestarsi nel clamore e poco invece scavare in profondità, in quel lavoro oscuro che pure qualcuno ha preferito alla propaganda, che al clamore - appunto - non concede nulla, che si pone sul terreno non solo della ricostruzione delle materialità andate distrutte ma delle vite nella loro dimensione più profonda, della riconciliazione, quella pratica difficile e dolorosa che chiamiamo "elaborazione del conflitto". Che ti porta ad andare oltre la logica degli aiuti, che si fonda sulla costruzione di fiducia, di relazioni vere e durevoli, che richiede tempo e parole prima ancora che fatti concreti, perché senza la parola - che vuol dire racconto del proprio vissuto, ricerca di punti d'incontro delle diverse narrazioni, comprensione di ciò che è accaduto - non c'è futuro. Le ferite non curate vanno in cancrena. Così una storia non elaborata, che ti porti dentro come una ferita per averla vissuta o per il racconto che i tuoi cari ne hanno fatto, può diventare - sapientemente manipolata o maldestramente affrontata - motivo di altro dolore, di odio, di rancore. E non serve andare tanto lontano, basta ricordare la storia di una piazza che doveva diventare "della pace". Quel lavoro che, tranne qualche rara eccezione, non c'è stato.

Così la Bosnia Erzegovina, ad undici anni dalla fine della guerra, è un paese sospeso, lacerato dalle proprie contraddizioni e dai propri fantasmi. Non solo quelli di Ratko Mladic, di Radovan Karadzic o di altri criminali liberi e spesso riveriti.

Un paese straordinariamente ricco di risorse naturali - l'acqua dei fiumi verde smeraldo che scorre ovunque, i boschi come non trovi in nessuna altra parte d'Europa - ma prima ancora di storia e di cultura, di tradizioni e di saperi, di città straordinarie come Sarajevo o Mostar che questa storia continuano a raccontare, nonostante tutto.

Eppure nel dopoguerra sono cresciute le condizioni di povertà. La criminalità economica dagli affari della guerra è passata a gestire quelli della ricostruzione, aiuti compresi. Così come si parla ormai apertamente di fallimento del castello istituzionale che gli accordi di Dayton hanno costruito. Ogni problema è motivo di propaganda dei partiti nazionalisti per dare la colpa all'altro e così rinascono le lacerazioni, tanto che nella campagna elettorale in corso il tema che tiene banco è quello della secessione della Republika Srpska, effetto del referendum con il quale il Montenegro si è staccato dalla Serbia (e di quel che si profila in Kossovo, in assenza di una soluzione condivisa sullo status di quella regione), ma anche dell'incapacità di interrogarsi sulla guerra e sulla sua natura. Non voglio nemmeno pensare a che cosa accadrebbe in una prospettiva di questo tipo, soprattutto laddove c'è stato il ritorno.

E noi, cittadini evoluti di un'Europa che cammina a ritroso, continuiamo a non voler vedere quel che accade nel cuore di questa nostra vecchia e cara Europa. Che nei Balcani - se non sapremo costruire rapidamente una nuova prospettiva politica di integrazione - continuerà a rispecchiare il proprio fallimento.


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