Sono sempre di più i migranti che nel loro viaggio verso l'Europa occidentale passano dalla Bosnia Erzegovina, ancora impreparata a gestire una possibile emergenza
(Pubblicato originariamente sul blog "Nellaterradeićevapi ")
Da dicembre dell’anno scorso, la Bosnia Erzegovina ha visto un crescente afflusso di persone in fuga da guerra e persecuzioni. I numeri, piccoli all’inizio, non hanno destato particolare allarme. Si trattava in particolare di giovani uomini che avevano trovato ricovero nei parchi e nelle strutture abbandonate intorno a Sarajevo. Prima decine, poi una cinquantina, ora si dice siano quasi duecento. Da un mese circa, i numeri si stanno però alzando. Agli uomini si uniscono le famiglie con bambini, i paesi di provenienza stanno mutando e da Sarajevo le persone si spostano verso i confini della Bosnia occidentale, in particolare Bihać e Velika Kladuša. Qui si dice che vi siano ormai quasi 400/500 persone.
Il relativamente facile passaggio lungo le ampie frontiere non controllate tra Bosnia e Croazia, ha dato il via a un movimento sempre più ampio di persone che da due anni si trovano bloccate alle porte d’Europa, lungo la Rotta Balcanica. La presenza di siriani tra le persone che cercano di uscire dalla Bosnia – per chi conosce la geografia e la demografia dei campi profughi allestiti nei Balcani – fa capire che c’è una rotta meridionale (Grecia, Albania, Montenegro, Bosnia) mentre la presenza di afghani e pakistani indica l’apertura di una rotta nord-orientale, con migranti provenienti in Bosnia dalla Serbia.
La polizia croata ha repentinamente messo in campo nuove misure di sicurezza lungo le nuove zone di passaggio, senza esularsi da respingimenti con uso eccessivo di violenza, come testimoniano le parole dei migranti che ho incontrato a Bihać, che non è diverso da quanto mi hanno raccontato i migranti che tentano da anni di attraversare tra le Serbia e la Croazia, al confine settentrionale di Šid.
Persone ferite, cellulari frantumati, passaporti requisiti, soldi rubati. I migranti vengono riportati al confine con le camionette e ributtati in Bosnia, dove, con il permesso temporaneo di richiesta di asilo (durata tre mesi), possono soggiornare regolarmente.
Chi ha i soldi, dorme negli ostelli e negli alberghi e per le categorie vulnerabili (donne con bambini) è l’UNHCR che paga le strutture di accoglienza (ma in particolare a Sarajevo e Bihać cominciano a lamentare il fatto che tra poco inizia la stagione turistica). Chi non ha i soldi dorme nel parco di fronte alla biblioteca di Sarajevo o nella zona termale di Ilidža (dove nel frattempo il mondo arabo costruisce resort e alberghi a 8 stelle) o nelle strutture abbandonate distrutte dalla guerra. Esiste un centro per richiedenti asilo a Delijaš, lontano da tutto, tra le montagne, poco lontano da Sarajevo. Può ospitare meno di duecento persone, non prende la rete cellulare, non ci sono negozi e tanto meno Internet. I migranti, piuttosto che andare lì, preferiscono dormire sotto le stelle.
A Bihać le persone hanno scelto come loro sede un ex dormitorio per studenti, vicino al campo da calcio e alla facoltà islamica e un ospizio devastato lungo il fiume Una. E’ qui che ogni giorno un team di operatori e volontari della Croce Rossa di Bihać distribuisce pasti caldi, vestiti, scarpe. Anche qui come a Sarajevo all’inizio i profughi stavano nel parco cittadino dove due piccole organizzazioni locali cercavano di aiutare come potevano. Con l’arrivo di numeri diversi e sempre più importanti e con l’attenzione dei media locali in crescita, il sindaco di Bihać ha dato incarico di coordinamento alla Croce Rossa che si sta veramente facendo in quattro per gestire questa nuova emergenza. Parlando con il coordinatore locale, dice che “si parla di almeno mille persone che arriveranno e resteranno qui prima dell’estate”. E che “attraversare le frontiere con la Croazia sarà sempre più difficile”.
Quello che molti migranti inoltre non sanno è che i confini che vogliono attraversare, lungo la dorsale che da Kladuša scende sotto Bihać, tra i boschi della Petrova Gora, la montagna della Plješevica e le piste abbandonate dell’aeroporto di Željava, sono tra i più minati della regione.
Parlavo di questo con una famiglia ospite al campo di Bogovadja, dove lavoro in Serbia, che si apprestava ad andare lungo la nuova rotta.
“Hanno aperto un confine, Zilbia!”
“No, i confini sono chiusi, forse alcune persone sono riuscite a passare da una nuova strada”.
“Il nostro trafficante ci ha detto che adesso passeremo dalla Bosnia, basta camion con la Croazia…”
“Se passate dalla Bosnia, vi faranno andare da Bihać, è la cosa più probabile. Ma dovete stare attenti, se vi mandano a piedi nei boschi o in montagna, guardate questo cartello”.
Mostro loro le foto che ho scattato alcuni anni fa in tutta quella zona. La donna si spaventa, conosce il segno col teschio su sfondo rosso. Mi chiede quante ce ne siano. Cerco di tranquillizzarla, ha una bambina piccola piccola, le dico che deve camminare sui sentieri e sdrammatizzo: “Se devi fare la pipì, falla sulla strada, non importa se ti vedono”. Ridono. Mi consegnano delle spezie, un quaderno con delle lezioni di inglese e spagnolo, un mini pimer e altre cose personali. Mi dicono: ce le dai quando siamo in Europa.
Loro, come molti altri dei migranti bloccati in Serbia, stanno cercando da anni di attraversare le maledette frontiere. Hanno sentito di qualcuno che ce la fa dalla Bosnia e come molti altri, si stanno rimettendo in cammino. Destinazione finale? Norvegia, Svizzera, forse Germania. Confusi sul sistema d’asilo, sulle leggi e i diritti, sulla geografia. Non hanno niente da perdere, se non la vita. Migrano, come le foglie che si staccano d’autunno e si fanno trasportare dal vento.
Mi arriva un loro messaggio, il 26 aprile: “Il trafficante ci ha imbrogliati. Non c'era nessuna macchina. Siamo stati due giorni nel bosco. La scorsa notte con una piccola barca abbiaom passato il fiume e poi abbiamo camminato l'intera notte. Non c'era nessuna persona a guidarci. E' stata solo fatta vedere la mappa ad uno di noi e siamo arrivati in gruppi di otto persone. La bambina è malata, ora siamoa a Tuzla e andiamo a Sarajevo".
Stanno aspettando il passaggio giusto, sono in contatto con un trafficante locale “parla inglese e arabo”. Ogni giorno il trafficante cambia piano. “Domani non andiamo, è festa in Slovenia e Croazia, l'autista dice che c'è troppa polizia e troppi controlli". Mi fa sorridere pensare che né il trafficante né i migranti sappiano cosa sia il primo maggio “questa vacanza” che fa aumentare i controlli della polizia…
Sono arrivata a Bihać da pochi giorni e faccio qualche giro alla stazione degli autobus, per vedere cosa succede. Vedo dei ragazzi che ho incontrato il giorno prima alla distribuzione dei pasti che salgono sui bus per Velika Kladuša. Io loro li riconosco a distanza, dal modo in cui camminano, dalle loro scarpe, dal taglio di capelli, e dagli zaini che si portano sulle spalle. Uno di loro invece non mi riconosce, e chiede dei soldi al collega di fianco a me, “Devo andare … vka..slladss..”. Migranti alle prese con questa dura lingua slava e l’impossibilità di pronunciare bene i nomi dei paesi.
Al tempo stesso mi rendo conto che sono arrivate delle persone scese dal bus di Sarajevo. Qua dicono che ogni giorno scendono 50/60 persone dalla capitale. Alcune di loro tenteranno di attraversare il confine a Željava o sulla Plješevica, altri più a nord, verso la Petrova Gora. In un piccolo gruppo seduto sul marciapiede vedo una donna col velo con 3 bambini, è la seconda dopo quella che ho visto il giorno prima all’ex studentato. Sono poche, rispetto al numero dei uomini soli che si vedono sinora, ma ieri pomeriggio un messaggio dalla Croce Rossa mi dice che adesso ci sono 160 persone e nuove famiglie sono arrivate, non sanno dove farle dormire.
I volontari sul campo sono affaticati e un po’ disorganizzati, fanno turni in magazzino, per la distribuzione di colazione, pranzo e cena, e non capiscono la mancanza di risposta e l’abbandono da parte del governo e delle grandi organizzazioni internazionali, che possono far solo deteriorare la situazione. Le persone nel Cantone di Una Sana cominciano a raccontare di furti e violenze. Più amici mi raccontano di aver sentito la storia da un amico che ha visto con i suoi occhi come dei migranti chiedessero informazioni e mentre la persona rispondeva venisse rapinata da altri migranti. Questa tecnica pare sia stata messa in atto: alla porta di una casa (e il migrante è entrato dalla finestra) – dal finestrino di un auto (il migrante rubava la borsa dal sedile del passeggero) – per strada (scippo di borsa).E in tre posti diversi (Kladuša, Bihać, Otoka). Non credo tutto questo sia vero, ma il segnale non mi piace per niente. Sono le stesse storie che sentivo quando andavo al confine a Šid. E’ certo vero che il minore controllo delle persone che vivono all’aperto e non nei campi, fa alzare la percezione di insicurezza da parte delle persone del posto. Ed è statisticamente vero che nella popolazione migrante ci siano individui propensi alla violenza o al crimine, così come in un qualunque campione demografico nel mondo. Peccato che la manipolazione di queste persone sia esercizio oramai comune, come tutti sappiamo. Le destre europee e i movimenti xenofobi cavalcano da anni la tigre dello straniero invasore e violento per accaparrare consensi tra la popolazione più ignorante, nascondendo i reali problemi.
Nel frattempo, il governo bosniaco tiene un profilo basso sulla questione, così come l’UNHCR che ha cominciato a indire riunioni settimanali di coordinamento. Al momento sembra che non si vogliano aprire nuove strutture, tant’è che un gruppo di volontari di Sarajevo ha portato e montato le tende davanti alla biblioteca. E’ evidente che non si vuole creare un nuovo imbuto e aumentare il pull-factor per chi dai campi di Grecia e Serbia si vuole spostare. Tra l’altro la Serbia, che da 7.000 profughi dello scorso anno è arrivata ad accoglierne ad oggi meno di 4.000, ha appena ricevuto dall’Unione Europea 10 milioni di euro per gestire i 18 campi governativi per migranti e richiedenti asilo.
Di fatto, per ora, ricade tutto sulle spalle di associazioni, cittadini, volontari piccole organizzazioni. L'estate sta arrivando...
“Mi vergogno a dirlo ma il trafficante non è stato di parola. Ogni giorno ci dice che il giorno seguente è quello buono ma poi cancella tutto. Questa sera ci ha giurato su Dio che domani ci manderà dall'altra parte del confine".
Gli rispondo: “I trafficanti sono cattive persone. Ma domani è un nuovo giorno, magari è quello buono. State attenti”.
“Grazie, speriamo in Dio sia quello buono".
*Silvia Maraone è project manager di Ipsia - Istituto Pace Sviluppo e Innovazione Acli. Da luglio 2017 lavora presso il Centro di transito per richiedenti asilo di Bogovadja nell'ambito di un progetto promosso da Ipsia (ong delle Acli), Caritas italiana, Caritas ambrosiana e Caritas Valjevo.
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