È stato l’autore jugoslavo più letto nel dopoguerra. Criticato da Tito e da Đilas, era amato dal pubblico come scrittore dei partigiani e insieme di narrativa per l'infanzia. Il suo patrimonio di racconti proveniva dalla krajina bosniaca, la sua tomba fu un ponte di Belgrado
Sono passati 30 anni dalla tragica morte di Branko Ćopić (1915-1984). Autore di racconti, romanzi, poesie, di due commedie e di opere per bambini, Ćopić è stato tradotto in una trentina di lingue, incluse il tedesco, l'inglese, il francese, il russo, il polacco, il turco e il cinese. In italiano, per ora, sono disponibili solamente il poema per bambini “Ježeva kućica” ("La casetta del porcospino”, traduzione di Luci Žuvel e Manuela Orazi, associazione Lipa, Roma 2003) e tre racconti inseriti nella rassegna del racconto bosniaco erzegovese del ventesimo secolo, “Racconti dalla Bosnia - scelti e tradotti da Giacomo Scotti” (Diabasis, Reggio Emilia 2006).
Ćopić, il più popolare e più letto scrittore jugoslavo del ventesimo secolo, è dunque quasi sconosciuto in Italia. Neppure “Gluvi barut” (1990) [Sorda polvere da sparo], il film di Bato Čengić realizzato sulla base dell’omonimo romanzo di Ćopić, e diverse volte trasmesso alla tv italiana, ha aiutato la diffusione in Italia delle opere di questo grande scrittore.
Branko, la vita e le opere
Nonostante abbia trascorso la maggior parte della sua vita a Belgrado, Ćopić non si è mai separato dal microcosmo della sua terra nativa: le krajine di Bosnia. In questo seguì il destino dei personaggi dei suoi racconti, spinti da venti di guerra e da grandi cambiamenti sociali e politici a Belgrado e in Vojvodina (per lo più in aree che alla fine Seconda guerra furono abbandonati dai tedeschi del Banato) provenendo da remoti villaggi rurali .
Ćopić nacque infatti ad Hašani, villaggio situato su un versante del monte Grmeč. Crebbe in un ambiente rurale, dove erano ancora dominanti la tradizione della poesia e dei racconti popolari serbi, e il senso dell’humor. Trascorse la prima infanzia accanto al nonno Rade, per lui un guru dalla particolare umanità e dalla semplice ma profonda filosofia di vita. Nel 1958, per l’opera “Ne tuguj, bronzana stražo” [Non piangere, sentinella di bronzo], ottenne il premio NIN, il più prestigioso premio jugoslavo per la narrativa. Il nonno Rade fu invece l’eroe della prosa più poetica di Ćopić, “Bašta sljezove boje” (1971) [Il giardino color malva] per la quale, nel 1972, Ćopić riceverà per il premio Njegoš.
Ćopić è uno dei rari scrittori jugoslavi che per tutta la vita fu scrittore professionista. Ancora studente, a Belgrado pubblicò quattro libri di racconti. Nella seconda metà degli anni trenta, non era immaginabile un'edizione della rubrica letteraria del quotidiano Politika senza un contributo di questo “autore del racconto rurale”, visto come l’erede del grande narratore Petar Kočić. Durante la guerra a cui, da partigiano, partecipò sin dal primo giorno, a questa definizione verrà aggiunta anche quella di “scrittore dei partigiani”. Ovviamente con l’aggiunta “per grandi e piccini”.
Dopo la guerra, la sua popolarità aumentò in modo inarrestabile, e diventò lo scrittore più letto nel paese. Negli anni cinquanta, la sua influenza venne accresciuta in particolare dalla pubblicazione delle voluminose opere “Prolom” [Breccia] (1952) e “Gluvi barut” [Sorda polvere da sparo] (1957). In questi romanzi, Ćopić riesce a realizzare un ampio e suggestivo affresco delle rivolte popolari nella krajina bosniaca. Anche se sentiva la vicinanza con Gorki e Babel, poi con Cankar, Andrić, Crnjanski e Krleža, Ćopić, in “Prolom” e in “Gluvi barut”, si avvicina per lo più a Sholokhov.
A proposito di “Gluvi barut”, il giornale tedesco Rheinische Merkur pubblicò una recensione lodando il coraggio dell’autore nell’affrontare la tematica della guerra. Il recensore, Karl Rau, sottolineò in particolare la “critica del metodo comunista”. Ćopić, in questo romanzo, rappresenta infatti anche il fenomeno del “terrore rosso” personificato dal commissario Vlada, stalinista, e l’odio nei confronti dei contadini. Quel romanzo, ma anche le critiche letterarie delle altre opere di Ćopić, fu oggetto di discussioni e valutazioni da parte dei comitati della Lega dei comunisti nelle diverse città jugoslave. Ćopić però perseverò per tutta la vita nel suo atteggiamento originario, indipendentemente da pressioni di ogni genere, e nella sua ricerca di una verità lontana dal “bisogno di una corretta visione della guerra e della Rivoluzione” e dall’orientamento del Partito.
Il dossier Branko Ćopić
Il dossier sullo scrittore e sul comunista Branko Ćopić, redatto dal Comitato della Lega dei comunisti di Belgrado, crebbe però per ben diciassette anni. Anche l’UDBA, i servizi segreti jugoslavi, aveva un dossier su di lui. Le indagini iniziarono nel 1950 dopo la pubblicazione di “Una storia eretica” nella rivista satirica “Jež”, con le illustrazioni del caricaturista, e poi anche scrittore di viaggi, Zuke Džumhur. Se non fosse stato per la reazione negativa di Tito, questa satira di Ćopić (pubblicata dalla rivista on line Sagarana n°56) sarebbe rimasta soltanto una tra le molte di questo genere.
Ćopić, stanco delle satire sui piccoli borghesi, la religione, i pope, gli uomini di chiesa, gli hodža, non riusciva a chiudere gli occhi davanti a determinati fenomeni sociali e politici del dopoguerra. Come il lettore italiano può constatare, “Una storia eretica” è scritta in modo semplice, con brevi sequenze. Può essere vista anche come la sceneggiatura di un cortometraggio. Il protagonista non è quel nuotatore troppo curioso che ha messo il naso fuori dalla ringhiera di una villa sull’Adriatico. Il personaggio principale è un piccolo ma importante gruppo di una nuova classe privilegiata. Vi troviamo un ministro, sua cognata, un vice ministro con la moglie, un generale e un “pezzo grosso di una grossa istituzione che sta zitto in modo saggio”. Lascio ai lettori il giudizio sulla rappresentazione, e in particolare sulla reazione di questi personaggi alla vista di questo tipo curioso, che è anche un lavoratore modello.
In quel periodo, i giornali e le riviste jugoslave facevano a gara nell’infangare l’autore di questo racconto. Ćopić, in realtà, si era semplicemente permesso di fare satira sull’abisso che separava, dopo la guerra, gli ideali comunisti di uguaglianza e giustizia dalla loro applicazione nella vita reale. Contro lo scrittore intervennero severamente anche alcuni suoi amici e, oltre a Tito, Milovan Đilas, che fu spietato verso Ćopić. Ad un incontro di donne antifasciste, cui era presente anche la madre dello scrittore, Tito si scagliò personalmente contro Ćopić, pur assicurando che non sarebbe finito in prigione. Il giorno successivo, lo scrittore incollò sulla porta d’ingresso della sua abitazione il ritaglio di uno degli articoli che riportavano sottolineate le parole del capo dello stato sulla sua eresia: “Non lo metteremo in prigione”.
La vera risposta dell’autore a tutte le critiche, tuttavia, fu la continuazione del suo lavoro satirico. Nel racconto “Sudija s tuđom glavom” [Il giudice con una testa altrui], incontriamo un critico letterario che segue ciecamente la dottrina estetica di Stalin e Ždanov. E dire che il 1948, l’anno della rottura con i sovietici, avrebbe dovuto portare con sé nuovi e più liberi punti di vista anche sulla letteratura. L’autore termina questo racconto notando che la letteratura socialista non esiste, proprio come non esiste il pranzo socialista. “Chi scrive i racconti col diavolo” è invece una satira nella quale l’autore ritorna su questo tema su ordine dello stesso Satana. Quando in questi racconti inizieranno a riconoscersi gli amici dell’autore ci sarà soltanto una soluzione: la censura.
Alcuni anni più tardi furono resi pubblici i veri motivi degli attacchi contro Ćopić: criticava i fenomeni negativi prima che lo facesse il Partito. In questo, Ćopić è accomunabile a Danilo Kiš, oggetto negli anni settanta di particolare accanimento per il romanzo “Grobnica za Borisa Davidoviča” [Una tomba per Boris Davidovič]. Ćopić ebbe tuttavia anche illustri sostenitori, e ancora oggi viene ricordato un episodio secondo cui il premio Nobel Ivo Andrić avrebbe per la prima e unica volta in vita sua insultato qualcuno, per difendere Branko.
Un ponte a Belgrado
Ormai da tempo si chiama “Brankov”, il ponte di Branko. È il ponte sotto il quale Ćopić trascorse la sua prima notte a Belgrado, e dal quale si gettò, il 26 marzo 1984. Il suo suicidio, ancora oggi, si leva come un’ombra oscura sulla sua ricca opera. Lo scrittore portò via con sé molte domande. Sia le sue, che le nostre. E anche quel melanconico e irripetibile lieve sorriso benevolo. Indicava forse che il mondo è così com’è, un mondo in cui l’essere umano è “quello che è” ma potrebbe essere migliore, e che tuttavia c’è del bene al mondo.
Nei lontani anni settanta, nella prefazione del “Bašta sljezove boje”, Ćopić, parlando dei “cavalieri neri”, ha lasciato un avvertimento profetico. Il titolo della prefazione è semplice: “Pismo Ziji” [Lettera a Zijo]. Zija Dizdarević (1916-1942), suo amico, era finito nel campo di concentramento di Jasenovac, sotto il maglio ustascia. Quella lettera è meravigliosa nel suo profondo messaggio umano sulla vita e la letteratura.
Concludo questa breve memoria su Ćopić con un suo scritto: “Mio nonno Rade era un uomo insolito. Il suo mondo fatato, tutto intrecciato di favole e fantasie, di chiaro di luna e di seta trasparente dell’estate di Miholj, era il mondo di ottobre di inizio autunno, il giorno di Miholjdan, quando a casa ricevevamo ospiti cari, quando tutto era colmo di racconti e abbondanza, quando anche il gatto era sazio e pacifico, e il topo grasso e spensierato… Quei giorni di ottobre del nonno rappresentano lo scrigno di tutti i miei veri motivi letterari. Sono partito da là e ho iniziato a creare un mondo secondo l’immagine che ne aveva questo uomo onesto, spirituale e a suo modo giusto”. Che sosteneva che il lupo è verde e che una persona non può scomparire, né morire, finché un amico ne conserva in tasca l’orologio. Che batte come il suo cuore.
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