Una situazione particolare quella del lockdown a causa della pandemia di coronavirus. Un tempo sospeso che fa riflettere e che fa abitare luoghi della memoria lontani, un'infanzia che riaffiora magicamente con vecchie fotografie
(Originariamente pubblicato sul portale dell’iniziativa Summer of Solidarity , il 24 luglio 2020)
Durante il lockdown dovuto al Covid 19 mi sono ritrovato a Bruxelles. Con il passare dei giorni, mi sentivo sempre più spinto a passare più tempo online parlando con gli amici rimasti bloccati in un paese lontano, nella mia città natale, Sarajevo. Avevo una gran voglia di comunicare nella mia lingua madre con quelli che si sentivano ugualmente spezzati e non avevano bisogno di troppe spiegazioni del perché quella esperienza ricordava il 1994.
Il 1994 è rimasto impresso nella memoria di tutti quelli le cui vite furono travolte dalla guerra in Bosnia Erzegovina, una guerra di cui non si vedeva la fine. Per me quello fu il periodo di massimo sconforto. Ricordo che mi sentivo avvolto da un grigia coltre di disperazione, costellata di neve, che sovrastava Sarajevo e il resto del paese. Mi sentivo spaesato e senza futuro.
Quindi, abbiamo parlato online, noi che sapevamo cosa voleva dire sentirsi intrappolati. A volte ci mandavamo le sdolcinate canzioni folk con esagerate e chiassose intro di fisarmonica che di solito accompagnavano le serate trascorse bevendo nelle decadenti kafane bosniache, solo semi-imbarazzati dal fatto di essere affezionati a quella sgargiante musica locale. Altre sere ci intrattenevamo in lunghe, profonde conversazioni, scandite da ridicole gif di Guerre Stellari.
Una di quelle sere, che di dissolvevano pigramente nell’oscurità, un amico mi ha chiesto: “Qual è la cosa più preziosa che possiedi? Se stasera la tua casa andasse a fuoco, cosa salveresti?”.
Sapevo subito cosa rispondere. Immediatamente mi è venuta in mente l’immagine del grande portafoglio di mio padre in pelle nera, con chiusura singola, di quelli in cui la maggior parte dei genitori jugoslavi teneva i libretti di assegni. Il portafoglio che giaceva sul fondo di una scatola di cartone nero riposta nel mio armadio, nascosto sotto un mucchio di documenti. Nel portafoglio c’erano una trentina di fotografie chi mi ritraevano bambino in compagnia dei miei familiari, tutte risalenti all’incirca al 1989.
Alcune di queste foto erano doppioni. Altre erano malriuscite, qualcuno aveva provato a fotografare quello che sembra essere stato un tramonto magnifico, non riuscendo però a tenere ferma la macchina fotografica. Ne era venuta fuori una foto troppo sfocata. La maggior parte di queste foto probabilmente sarebbe finita nel nostro album delle vacanze estive, ricordando uno dei rari momenti in cui mio padre non era troppo occupato col lavoro ed entrambi i genitori erano lì con il loro bambino di 5 anni.
La spiaggia di Makarska, una città balneare, è subito riconoscibile. Eccomi lì, completamente nudo, ad arrampicarmi sulle spalle di mio padre, mentre cercava di leggere il giornale.
Un’altra foto ritrae mia madre e me accanto al mio canotto gonfiabile; le braccia di mia madre strette fermamente intorno al minuscolo, fragile corpo di un bambino malaticcio che aveva trascorso troppo tempo agli ambulatori medici. Farà miracoli per i suoi polmoni, diceva il medico. Mia madre aveva preso le sue parole alla lettera, quindi ci recavamo regolarmente, come se facessimo un pellegrinaggio, nelle città balneari vicine, dove l’aria satura di sale marino si mescolava al profumo dei pini.
Quella trentina di immagini erano gli unici ricordi registrati della mia vita prima della guerra del 1992-95 che ha devastato il mio paese e le nostre vite. Seguendo il consiglio di un vicino, che gli aveva detto di salvare almeno un oggetto personale, mio padre aveva preso il suo portafoglio nero con le fotografie prima di lasciare freneticamente il nostro appartamento a Grbavica all’inizio della guerra. Sperava, come la maggior parte delle persone, che quella follia non sarebbe durata a lungo. L’ottimismo tipico della sua generazione vissuta a Sarajevo si mescolava con la disperazione della guerra, e mio padre pensava che le cose presto sarebbero tornate alla normalità. Che le presone che perpetravano violenze contro i loro vicini di casa avrebbero improvvisamente, come per magia, smesso di farlo. Ma ciò non è accaduto.
Quando siamo tornati nella nostra casa nel 1996, le altre foto – e ce n’erano centinaia, se non migliaia – non si trovavano da nessuna parte. Le persone che durante la guerra si erano impossessate del nostro appartamento avevano deciso di privarci di tutti i nostri beni materiali. Quando se n’erano andate avevano portato con loro i nostri mobili, i nostri libri, le nostre tende per finestre, e persino la nostra vasca da bagno e i nostri pavimenti in legno.
Ci consideravamo fortunati – i miei genitori e io eravamo sopravvissuti. Mia madre stava pensando di contattare le persone che avevano occupato il nostro appartamento per chiedere loro di restituirci le fotografie. Mio padre le aveva detto di non farlo. Mi ci sono voluti decenni per capire quello che lui aveva compreso istintivamente. Le foto non erano state rubate. Dopotutto, chi ruba le tracce dei ricordi altrui? Erano state gettate via apposta, sepolte, lasciate a disintegrarsi. Il messaggio: voi tre siete stati cancellati, buona fortuna nel dimostrare che esistete davvero.
Quella sera a Bruxelles ho scambiato ancora qualche messaggio, ho augurato la buonanotte ai miei amici e sono andato a prendere quel portafoglio. Ho passato circa un’ora a sfogliare freneticamente quelle foto, cercando di rivivere ogni gesto, analizzando le angolazioni di ripresa ed esaminando ogni capo di abbigliamento che si vedeva nelle foto. I nostri sorrisi erano i sorrisi delle persone che non conoscevano il dolore né esperienze traumatiche, e non erano in grado di prevedere gli orrori che avrebbero vissuto. Quei volti appartenevano a persone che sembravano sicure del fatto che la terra sotto i loro piedi non sarebbe crollata.
Il lockdown ha risvegliato in me i ricordi delle ferite del passato che non sono mai guarite del tutto. Quella notte ero in uno stato allucinatorio che solo una persona spaesata non solo nello spazio, ma anche nel tempo – una persona inesistente – può sperimentare. Poco dopo ho deciso di voler tornare a Sarajevo. Se solo fossi riuscito a tornare nel luogo dove mi sentivo radicato, forse ciò sarebbe significato che ero vivo.
La pandemia, che sembrava non finire mai, ci ha scossi tutti dalle fondamenta e ci ha fatti sentire soli e insicuri. L’improvvisa comparsa di un virus che ha provocato così tanti morti e sofferenze mi ha fatto sentire intrappolato; mi ha spinto pericolosamente vicino al punto di sentirmi esposto al rischio di essere cancellato ancora una volta.
Il ritorno a Sarajevo, nella mia mente, sarebbe stata una passeggiata casuale lungo una strada particolare del centro storico, con i suoi profumi familiari e il rumore dei passi sull’acciottolato. Quella sarebbe stata la risposta alla mia angoscia.
Così sono andato. Dopo 20 ore, tre voli e due viaggi in auto, percorrevo le strade vuote della mia città natale alle 4 del mattino, le ruote della mia valigia testimoniavano la mia presenza. Quella notte – o era già mattina – mi ha fatto ricordare cosa significa essere una persona che ha scelto di essere vera, una persona che è sopravvissuta nonostante non ci fosse nessun trucco magico per proteggersi dall’odio alimentato dal nazionalismo. Mi ha fatto ricordare quel periodo in cui pensavamo che non esistesse alcun rimedio – esattamente come oggi accade con il coronavirus – e che fossimo più vicini che mai alla scomparsa.
Il progetto "Summer of Solidarity" è un'iniziativa giornalistica collaborativa e creativa che raccoglie storie umane in tutta Europa nel corso dell'estate 2020. Miriamo a documentare questa stagione irripetibile, alimentare la nostra curiosità e creare uno spazio dove possiamo incontrarci, scoprire e discutere - in un momento in cui gli europei non possono viaggiare e interagire come al solito. Vai alla pagina del progetto
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