Sospese tra l'Adriatico e le Alpi dinariche, le terre al confine tra Bosnia Erzegovina e Montenegro nascondono un'enorme ricchezza storica, culturale e paesaggistica, ancora poco conosciuta. Un patrimonio che aspetta solo di essere scoperto
Il cielo dell'Erzegovina, in questa primavera avanzata che già odora d'estate, è di un blu senza fine, chiazzato qua e là di nuvole paffute che promettono pioggia. E' una primavera capricciosa come se ne ricordano poche, mi dicono pensierosi gli anziani con cui mi fermo a parlare nei villaggi a cavallo del confine col Montenegro, con precipitazioni frequenti, improvvise e abbondanti, che fanno ribollire il corso limpido del fiume Trebišnjica in fondo alla sua valle, incassata e profonda.
La strada che da Trebinje si arrampica verso l'interno, diretta a Foča e alla Bosnia centrale, è immersa nel silenzio, segnata per lunghi tratti dal giallo festoso delle ginestre in fiore. Dopo aver scollinato in direzione Bileća, il paesaggio si riempie di prati dal verde intenso, punteggiati qua e là dal rosso di qualche tetto isolato. Ancora qualche chilometro, poi all'improvviso, un cartello senza fronzoli indica il bivio per il monastero di Dobrićevo.
“La storia di Dobrićevo affonda le radici in un passato lontano, dove verità e leggenda si sovrappongono, fino a diventare una cosa sola. Si narra che, in tempi antichi, l'imperatore Costantino il Grande e sua madre Elena, in viaggio lungo la strada che costeggia il fiume, si siano fermati da queste parti per rifocillarsi. 'Questo luogo è buono (“dobro” in lingua locale), ideale per il ritiro e la preghiera' avrebbe affermato Elena. Quelle parole, si sono trasformate nelle solide fondamenta del nostro monastero”.
Le leggende che circondano Dobrićevo, in realtà, sono molte, legate per lo più alla dinastia medievale serba dei Nemanjić,o al periodo più turbolento della presenza ottomana: l'igumeno del monastero me ne racconta con pazienza alcune – le più note - nel cortile del convento, immerso nel profumo intenso delle aiuole costellate di rose multicolori. Poi, con la stessa gentilezza con cui mi ha accolto, mi saluta per tornare alla preghiera e al silenzio, lasciandomi solo di fronte alla porta socchiusa dell'edificio della chiesa.
Basta varcare l'uscio di pietra, passando d'improvviso dalla piena luce alla penombra, per rendersi subito conto che Dobrićevo è un piccolo tesoro nascosto, frutto dell'intrecciarsi di culture, sensibilità e tradizioni che hanno segnato per secoli questa parte dei Balcani, sospesa tra l'azzurro dell'Adriatico e le cime brulle e lunari delle Alpi Dinariche.
L'architettura dell'edificio presenta elementi gotici, con le caratteristiche volte a sesto acuto, che rimandano alla vicina repubblica di Dubrovnik e al gusto occidentale. Gli affreschi però, dominati da sfondi di un blu profondissimo e abitati da personaggi biblici dagli sguardi penetranti e senza tempo, sono figli del legame religioso che da secoli guarda ad est, fino a Bisanzio.
“Il monastero di Dobrićevo è solo uno dei molti esempi dell'incredibile e poco conosciuta ricchezza storica, artistica, culturale e naturalistica che segna l'area di confine tra Bosnia Erzegovina e Montenegro. Un patrimonio inestimabile, dal forte potenziale turistico, che può e deve essere riscoperto. Per farlo, però, è necessario superare i confini, collaborare sui due lati della frontiera, valorizzare la storia e le tradizioni comuni e presentare ai viaggiatori più curiosi e attenti dei percorsi intriganti e sostenibili”.
Così, sorseggiando un caffè all'ombra dei famosi platani di Trebinje, Miljan Vuković del Centro culturale della città erzegovese mi aveva raccontato la nascita e l'evoluzione dell'idea che ha portato alla realizzazione del progetto “Vita sul confine bosniaco-montenegrino – antichi sentieri di tradizioni e patrimonio senza tempo”, di cui lo stesso Vuković coordina le attività. Un progetto che coinvolge quattro municipalità: Trebinje e Bileća sul lato bosniaco-erzegovese, Nikšić e Plužine su quello montenegrino.
“La vicinanza di Dubrovnik, diventata in questi anni una vera calamita per i turisti da tutto il mondo, è sicuramente un vantaggio potenziale”, argomenta Vuković. “Quelli che si avventurano nell'interno, però, sono ancora relativamente pochi. Il primo passo per attirarli è mappare i luoghi di interesse, talvolta abbandonati e spesso poco conosciuti anche dalla popolazione locale. E ridare vita alle storie e alle leggende che li hanno popolati nel corso dei secoli”.
In effetti, le montagne e le valli carsiche di Erzegovina e Montenegro sembrano nascondere leggende sotto ogni sasso, dietro ogni siepe. La mia tappa a Bileća non fa che confermarlo. Cittadina appartata, abbarbicata a poca distanza dall'ampio lago artificiale cui ha dato il nome, a prima vista Bileća sembra un abitato come tanti, uno dei molti centri minori ed assonnati che costellano la provincia dei Balcani occidentali.
Il centro tradisce ancora la forte impronta lasciata dall'impero austroungarico, che tra fine '800 e inizio '900 la trasformò in un avamposto militarizzato sulla sua inquieta frontiera meridionale, realizzando poderose fortificazioni sulle alture circostanti. La linea difensiva Bileća-Avtovac-Trebinje era considerata all'epoca tanto imponente da guadagnarsi il soprannome di “Linea Maginot balcanica“.
I forti, oggi per lo più in rovina, non fanno più da sentinelle ai monti pietrosi che le circondano, ma continuano a conservare gelosamente mille e mille storie. Si narra che la più imponente delle fortezze, quella di Strač, non lontano da Trebinje, irta di cannoni e ricca di 365 locali - tanti quanti i giorni dell'anno - fosse di fatto imprendibile. Le sue bocche da fuoco erano così potenti che, durante la prima guerra mondiale, riuscirono addirittura a cannoneggiare la flotta italiana, allora attiva nelle acque dell'Adriatico.
È nelle piccole contrade intorno a Bileća, però, che si nascondono le narrazioni più avvincenti. Come a Grabovica, dove sorge, ormai ferita dal tempo e col tetto crollato, la moschea di Hasan-paša Predojević, innalzata nel lontano 1572. Nonostante le cattive condizioni, l'edificio affascina ancora per la sua architettura, semplice e ben proporzionata. A colpire è soprattutto il minareto dall'originale pianta quadrata, probabilmente innalzato dai famosi mastri scalpellini di Dubrovnik. La sua forma unica tradisce ancora una volta l'irripetibile commistione tra stili e tradizioni, questa volta islamici e cristiani, che arricchisce questa parte d'Europa.
Mentre poche nuvole lontane attraversano pigramente la linea dell'orizzonte, la moschea di Hasan-paša sembra riposare silenziosa sotto i raggi di un sole caldo e benigno. La leggenda, però, narra che la sua costruzione è frutto di una storia tormentata, fatta di tradimenti, vendette e redenzione. Hasan, si dice, sarebbe in realtà nato cristiano col nome di Nenad, nipote del potente duca Predojević. Il conte aveva ben sei figli, ma quando i turchi pretesero dal duca la “tassa di sangue”, chiedendo in pegno i giovani più promettenti per farli diventare giannizzeri o amministratori dell'impero, Predojević con l'inganno consegnò loro il nipote, figlio unico e allora già orfano di padre.
A Istanbul Nenad divenne Hasan: anni dopo, il giovane tornò a Bileća forte di un esercito e del titolo di paša. Riabbracciò la madre, che gli raccontò in lacrime del tradimento subito. L'ira di Hasan cadde allora implacabile sullo zio sleale, e il duca dovette subire una morte atroce, lapidato sulla pubblica piazza.
Per placare gli animi e forse anche la sua coscienza, il paša ordinò allora la costruzione della moschea, ma anche di una chiesa nel villaggio di Prijevor, in onore della madre. Anche questa oggi è andata perduta: ne resta però il pesante portale di pietra, dove insieme alla croce campeggiano i simboli del sole e della mezzaluna ottomana, testimonianza unica della storia ricca e complessa di questo territorio.
Altre leggende affondano in un passato ancora più lontano ed oscuro. Come quella degli stećci, enigmatici monumenti funerari - datati tra il XII e il XV secolo - caratteristici della Bosnia Erzegovina, ma anche in parte dei vicini Croazia, Serbia e Montenegro. A Bileća si trova la più grande necropoli artificiale di stećci, qui raccolti quando la costruzione della diga sulla Trebišnjica allagò la valle, creando un lago tanto ampio quanto profondo.
I punti interrogativi su questi monoliti di calcare, spesso abbelliti da decorazioni raffinate, e talvolta segnati da sentenze sibilline incise con maestria sulla pietra, restano molti. Di certo, però, queste steli senza voce raccontano di un passato culturale comune sui due lati del confine. Anche Nikšić, infatti, fa bella mostra della sua raccolta di stećci, raccolti dietro l'elegante silhouette color porpora del palazzo di Nikola del Montenegro, eretto a inizio '900 da maestranze italiane come residenza estiva per la sua corte.
“Per buona parte della sua storia moderna, Nikšić si è sviluppata come centro industriale, soprattutto grazie all'enorme ferriera voluta dal maresciallo Tito nel secondo dopoguerra, che negli anni '80 è arrivata ad avere 6500 dipendenti. Oggi il settore industriale è stato largamente dismesso, e ripensare la città anche come centro turistico è una sfida tutt'altro che facile. Non mancano però né le risorse, né la voglia di mettersi in gioco”.
Dragica Popović, dell'agenzia per il turismo di Nikšić, mi accompagna lungo le strade movimentate di quella che oggi è la seconda città del Montenegro, cresciuta all'ombra della fortezza di Bedem. Le sue mura, innalzate dai romani nel IV secolo, distrutte e ricostruite innumerevoli volte nel corso dei secoli – da un decennio fanno da palcoscenico ad uno dei più apprezzati festival di rock alternativo di tutti i Balcani.
“La musica rock è uno dei piatti forti della nostra offerta ai turisti: oltre al 'Bedem Fest', abbiamo il 'Lake Fest', che ogni agosto raccoglie migliaia di appassionati sulle rive del lago di Krupac. In tanti, poi, vengono a Nikšić per utilizzare le nostre strutture sportive, che sono all'avanguardia”, racconta la Popović mentre ci rinfreschiamo all'ombra dell'elegante cattedrale di San Basilio di Ostrog, che da una piccola altura domina la piana carsica di Nikšić. “Nella nuova strategia di sviluppo turistico della città, però, il recupero e la valorizzazione del nostro patrimonio storico e culturale giocano un ruolo centrale”.
Per i visitatori più curiosi, Nikšić ha molte perle nascoste da offrire: come l'imponente ponte “Carev most”, voluto anche questo dal re Nikola per superare, con venti imponenti arcate di pietra, le acque tumultuose del fiume Zeta. In ognuno dei piloni, narra l'immancabile leggenda, sarebbe stato murato anche uno zecchino d'oro, come pegno alla sorte per proteggere l'opera dalla furia delle acque. O come la moschea di Hadži-Ismailov, dall'elegante minareto arabescato, oggi unica testimonianza del passato ottomano e multireligioso della città.
Il tesoro più prezioso, però, si trova nelle larghe e ombrose sale del palazzo di re Nikola, oggi trasformato in museo cittadino. Qui, insieme a numerosi cimeli della storia antica e recente della città, nota nel medioevo col nome di Onogošt, c'è una ricca esposizione dei reperti preistorici scavati nel corso degli ultimi decenni nell'incredibile sito archeologico della grotta di Crvena Stijena (Parete rossa).
Scoperta nel 1954 sul lato montenegrino della Trebišnjica, sotto un'imponente parete di roccia rossastra da cui prende il nome, la spelonca di Crvena Stijena rappresenta un sito unico per tutto il continente europeo: abitata ininterrottamente per 150mila anni, la grotta ha restituito reperti che, a cominciare dal paleolitico, attraversano le ere per arrivare fino all'età del bronzo e del ferro.
I suoi depositi, profondi più di venti metri, rappresentano un'occasione unica per investigare la formazione dei primi gruppi organizzati di Neanderthal, la lenta transizione verso il neolitico e la nascita delle società agricole in questo lembo d'Europa. Le scoperte fatte sono già moltissime, nuove emozionanti sorprese, secondo gli archeologi montenegrini e internazionali impegnati da anni a Crvena Stijena, aspettano ancora di essere portate alla luce.
Se Nikšić è ancora alla ricerca di una strategia integrata per il suo sviluppo turistico, Plužine, l'altra municipalità montenegrina coinvolta nel progetto “Vita sul confine bosniaco-montenegrino” sa bene dove concentrare i suoi sforzi.
La strada per arrivarci sale decisa dalla piana di Nikšić in direzione nord-est, verso il confine con la Bosnia Erzegovina. A poco a poco, l'altopiano carsico, dominato dalla vegetazione mediterranea, lascia il passo ad un paesaggio montano. Lungo il corso del fiume Piva - anche questo ingabbiato in un ampio lago artificiale da un'imponente diga eretta a cavallo degli anni '70 – i rettilinei si trasformano in lunghi tornanti, che attirano decine di motociclisti dai più lontani cantoni d'Europa. Ai lati della strada svettano pini ombrosi e faggi secolari, che coprono i fianchi delle cime boscose che raggiungono i 2500 metri d'altezza.
“La nostra natura incontaminata è la nostra ricchezza, e in molti se ne sono già accorti. La punta di diamante, per così dire, è il rafting sul corso della Piva e – soprattutto – nello spettacolare canyon scavato dal fiume Tara, il più profondo e lungo di tutta Europa”. Un nuovo caffè fumante, elemento imprescindibile della socialità balcanica scandisce il ritmo lento e rilassato del mio incontro con Slobodan Delić, direttore del parco naturale della Piva, creato quattro anni fa per proteggere e valorizzare le bellezze di questa regione ancora largamente incontaminata.
“In una parola, il successo del rafting è stato semplicemente spettacolare. 'Scoperto' negli anni '90, questo sport è poi letteralmente esploso nella seconda metà degli anni 2000, fino a diventare un vero e proprio marchio non solo per Plužine, ma per tutto il Montenegro. Oggi ci sono almeno 15 club sportivi che organizzano le escursioni sulla Tara. Per chi cerca l'adrenalina pura il periodo migliore è la primavera, quando il fiume è gonfio d'acqua e ruggente per lo scioglimento delle nevi invernali. D'estate, invece, l'esperienza è più tranquilla, ideale anche per le famiglie”.
Il rafting sulla Tara, che può vantare almeno venti rapide nel tratto più frequentato - i 18 chilometri tra Brštanovica e Šćepan Polje - non è però l'unica attrattiva che Plužine può offrire a chi ha la curiosità di allontanarsi dagli itinerari più battuti. A questo si aggiungono l'escursionismo in montagna, sia a piedi che in mountain-bike, le gite a cavallo, le visite alla chiesa di San Giovanni Battista di Zagrađe o dello stupendo monastero di Piva, spostato pietra su pietra dalla sua posizione originale - sommersa dalle acque del lago nel 1969 - e pazientemente ricostruito nel silenzio della località di Sinjac, qualche chilometro più in alto.
“Molti turisti, tra i quali tanti stranieri, si sono già accorti che la municipalità di Plužine ha storia e cultura da offrire, oltre alle incredibili emozioni sull'acqua della Tara”, mi dice con malcelato orgoglio Delić. “Negli ultimi anni la crescita di visite al parco è stata importante: in pochi anni siamo passati dalle 27mila presenze del 2015 alle oltre 50mila del 2018”.
I minuti scorrono lenti: immersi nella tranquillità di questi monti si perde facilmente la cognizione del tempo. E invece è ora di partire: devo riattraversare il confine e tornare a Trebinje, là dove il mio viaggio era iniziato.
Rientrando in Erzegovina dal confine col Montenegro, lungo il basso corso della Trebišnjica, la città viene annunciata da lontano dalla sagoma imponente del ponte di Arslanagić, le cui arcate, altissime ed eleganti, uniscono le due rive del fiume dal 1574.
La costruzione dell'opera fu ordinata all'apice dell'impero ottomano dal gran visir di origine bosniaca Mehmed-paša Sokolović, immortalato dal premio nobel Ivo Andrić nel romanzo storico che canta un altro ponte, quello celeberrimo sul fiume Drina. Poi, per secoli, la famiglia nobile degli Arslanagić detenne il diritto di raccogliere il dazio dovuto dai viaggiatori che volevano attraversare il ponte, snodo centrale sulla strada che da Dubrovnik attraversava l'Erzegovina verso la Bosnia centrale.
Forte della sua struttura in pietra, sapientemente scolpita e incurante dei secoli, anche il ponte di Arslanagić venne però messo in pericolo dalla costruzione del complesso di dighe sulla Trebišnjica negli anni '60 del secolo scorso. Completamente sommerso nel 1965, l'anno dopo, durante lo svuotamento del lago artificiale più vicino a Trebinje, il ponte venne smontato e rimontato cinque chilometri più in basso, alla periferia orientale della città, senza però perdere né la sua eleganza, né il suo fascino imponente.
Scendendo lentamente sulle rive del fiume, le cui acque limpidissime brillano di un profondo verde smeraldo, si capisce subito quanto la Trebišnjica sia il cuore liquido di Trebinje, che pur essendo ad alcune decine di chilometri dalle rive dell'Adriatico, può essere definita senza alcun dubbio “una città sull'acqua”.
La città vecchia o “Kastel”, nota in passato col nome di “Banj Vir”, adagiata sulla riva destra del fiume, venne fortificata a inizio del XVIII secolo da Osman paša Resulbegović: alte mura, orlate da quattro torri massiccie, vennero erette a protezione della città. Tutto intorno, sui tre lati non toccati dalla Trebišnjica venne scavato un fossato lungo 460 metri, profondo cinque e largo fino a dieci.
Resulbegović non si limitò però a fortificare Trebinje, ma ordinò che venissero costruiti numerosi edifici pubblici, tra cui le due moschee che ancora ornano il centro storico, quella “del Sultano” (Careva džamija) e quella che porta ancora oggi il suo nome (Osman-pašina džamija), quest'ultima probabilmente la più spaziosa e più finemente decorata di tutta l'Erzegovina orientale.
“Trebinje si è specchiata per secoli nelle acque della Trebišnjica, che prima di essere cementata negli anni '60 per controllarne le frequenti esondazioni, era il più lungo fiume sotterraneo d'Europa. Le sue acque traboccavano di vita e di attività economiche, ed erano costeggiate da numerose ruote d'irrigazione, ispirate, a quanto si racconta, a quelle sul Nilo. Ecco perché, un elemento centrale del nostro progetto è recuperare il rapporto della città col fiume”, mi racconta Miljan Vuković del Centro culturale di Trebinje, mentre passeggiamo lungo i viottoli stretti e affollati del centro.
“Da una parte, il canale (“hendek” in turco) intorno alla città, interrato nel '900 per motivi sanitari, potrebbe essere di nuovo scavato. Dall'altra verrà rianimata la tradizione secolare delle 'lađe' le caratteristiche barche a remi che affollavano un tempo le acque del fiume”.
Per i turisti, godersi la città dalla prospettiva dell'acqua sarà sicuramente uno stimolo in più per visitare Trebinje, ma già oggi sono in molti ad aver scoperto questo piccolo gioiello nascosto. Negli ultimi anni il numero di visitatori è in sensibile aumento, e ai tradizionali arrivi provenienti dalla Serbia, si sono aggiunti turisti da Francia, Germania e Turchia, ma anche da paesi meno scontati come Stati Uniti, Corea del Sud, e addirittura Malesia.
Sicuramente la vicinanza di Dubrovnik è un fattore importante, ma sicuramente Trebinje ha molto da offrire a chi arriva. Fuori dal quadrilatero fortificato della città vecchia, l'abitato si è sviluppato in modo armonico, anche grazie all'impronta urbanistica imposta degli amministratori austriaci che a fine '800, poco dopo aver occupato Trebinje, ordinarono la messa in posa degli immensi platani che oggi rappresentano un vero e proprio simbolo della città.
All'ombra di queste piante maestose si trovano molti dei monumenti più belli di Trebinje: la cattedrale ortodossa dedicata alla Trasfigurazione di Cristo, quella cattolica dedicata alla Madonna, il monumento ai caduti della prima guerra mondiale realizzato sui disegni originali del poeta Jovan Dučić, l'elegante fontana dedicata al generale austriaco Đuro Baron Babić, intorno alla quale si raccoglie ogni giorno un mercato pieno di colori e di sapori unici, provenienti dai campi e dai pascoli ancora incontaminati dell'Erzegovina.
“La nostra terra ha saputo raccogliere e conservare, nel corso del tempo, un patrimonio variegato, fatto di varietà, tradizioni e culture diverse”, conclude Vuković al termine della nostra conversazione a passo d'uomo. “Nonostante le recenti guerre, le divisioni e le nuove frontiere, il legame profondo tra le due sponde della Trebišnjica, sia in Bosnia Erzegovina che in Montenegro, non si è mai spezzato. Oggi il turismo può diventare uno strumento privilegiato per superare i confini, costruire nuove relazioni transfrontaliere ed offrire, insieme, il meglio di questo patrimonio comune. Non solo a chi visita questi territori, ma anche e soprattutto a noi stessi”.
Questo reportage è stato realizzato col supporto finanziario dell’Unione europea. I contenuti sono responsabilità esclusiva di Osservatorio Balcani Caucaso - Transeuropa (OBCT) e del “Kulturni Centar” di Trebinje, e non riflettono necessariamente le opinioni dell’Unione europea. Foto - "Kulturni Centar" Trebinje
Il progetto
Il progetto "Life on BiH/MNE Border - Ancient Traces of Ageless Heritage and Tradition" viene realizzato nelle municipalità di Trebinje and Bileća in Bosnia-Erzagovina e di Nikšić e Plužine in Montenegro. L'obiettivo generale del progetto è sviluppare una cooperazione intersettoriale funzionale e collegare il patrimonio culturale, storico e naturale con il turismo nell'area transfrontaliera. L'obiettivo specifico è creare e promuovere prodotti turistici transfrontalieri comuni incoraggiando partenariati nella cultura e nel turismo e ripristinando il patrimonio culturale e storico trascurato nelle aree di progetto.
Il progetto è finanziato dall'Unione Europea nell'ambito del Programma di cooperazione transfrontaliera IPA Bosnia Erzegovina - Montenegro
Per saperne di più: https://www.heritage-bih-mne.com/about-project/
Hai pensato a un abbonamento a OBC Transeuropa? Sosterrai il nostro lavoro e riceverai articoli in anteprima e più contenuti. Abbonati a OBCT!