Kratovo (Foto CharlesFred, Flickr)

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La libertà, la politica e le colpe del passato. I Balcani di oggi e l'eredità degli anni '90: intervista a Miljenko Jergović

22/10/2010 -  Azra Nuhefendić

Pubblichiamo per gentile concessione dell'autrice la versione integrale dell'intervista a Miljenko Jergović originariamente apparsa sul quotidiano Il Piccolo  il 27 settembre scorso

Nella ex Jugoslavia la politica è stata un mestiere pericoloso e, nonostante i cambiamenti, lo è tuttora. Perché è così?

La nostra esperienza balcanica è la seguente: la politica è pericolosa per tutti, tranne che per i politici stessi. A dire il vero, negli ultimi venti anni, da quando a noi jugoslavi è rovinato sulle teste il muro di Berlino e i nazionalisti hanno sostituito i comunisti, abbiamo vissuto soltanto un attentato politico, serio e tragico, quello al presidente serbo riformista Zoran Djindjić. In quel periodo, oltre a lui, sistematicamente in circostanze non chiarite, sono stati uccisi altri politici croati e bosniaci meno importanti, ma comunque non più di cinque persone. Nello stesso tempo, durante la guerra, come forma più radicale di politica, in Slovenia, Croazia, Bosnia Erzegovina, Serbia, Kosovo e Macedonia, sono state uccise pressappoco duecentomila persone. Tutti, proprio tutti, hanno perso la vita a causa della politica. Per dirla tutta, in contrasto con alcune convinzioni radicatesi in Occidente, le guerre nei Balcani non sono state affatto dei caotici scontri di tipo tribale e religioso, ma si è trattato di una ben organizzata e precisa gestione politica. Naturalmente, quella politica è stata una politica nazionalistica. Pure fascista, nel senso più classico di questo termine, talvolta pure nazional-socialista, ma si trattava sempre e soltanto di politica.

In ex Jugoslavia non ci sono più prigionieri politici, ma ce li esportano le grandi democrazie le quali, nei Paesi banana, aprono carceri segrete. È sorpreso o deluso di ciò?

Quando lei parla dell’esportazione dei reclusi politici da parte delle “grandi democrazie”, si riferisce senza dubbio a quello che tuttora fanno gli Stati Uniti nella loro cosiddetta guerra contro il terrorismo. Io, invece, penso che tutti i loro istituti di pena, da quelli noti come lo è stato Abu Graib a Baghdad, oppure come lo è tuttora Guantanamo a Cuba (Obama mentiva dicendo che l’avrebbe chiuso), nonché molti altri dei quali ignoriamo il nome o addirittura l’esistenza, non vanno chiamati carceri. Vale a dire, in carcere può trovarsi un uomo condannato per un misfatto, oppure uno che deve ancora essere condannato, il carcere è sito sul territorio dello Stato che su questo condannato applica le proprie leggi, e queste leggi implicano anche determinati diritti dei reclusi. A Guantanamo non esiste nulla di tutto ciò, né ad Abu Graib c’era, e chi sa in quanti altri luoghi simili al mondo. Per questo motivo è corretto dire che Guantanamo è un campo di concentramento, amministrato dagli USA. Naturalmente, mi spaventa il fatto di sapere che gli americani avevano fondato campi simili sul territorio dell’Europa dell’Est, e sinceramente rimango sconcertato dal fatto che simili lager siano possibili anche sul territorio della ex Jugoslavia.

Non molto tempo fa abbiamo celebrato il giorno della libertà dei media. Dappertutto, nei Paesi della ex Jugoslavia, la libertà giornalistica è in pericolo, e la situazione è ancor peggiore che durante la guerra. Coloro che oggi la pensano diversamente dalle strutture politico-economiche-religiose degli uomini al potere, vengono ostacolati ed esclusi dalla vita pubblica. Per esempio, i giornalisti disubbidienti vengono licenziati, i giornali d’opposizione chiusi, i giornalisti uccisi, le loro famiglie minacciate. Perché è cosi nei Paesi di “giovane democrazia”?

Ci sono diversi motivi per il crearsi di una situazione del genere. Prima di tutto, in questi Paesi non esiste una tradizione basata sulla libertà di pensiero e di parola. I loro cittadini sono stati abituati, in tempi ormai lontani, a vivere in un regime illiberale, e di conseguenza non vivono la non-libertà d’oggi in modo eccessivamente drammatico. Inoltre, gli Stati dell’ex Jugoslavia non sono un unico esempio. Vale a dire che in quel Paese era in vigore una forma di socialismo cosiddetto morbido, quello di Tito, il quale, soprattutto nella sua ultima fase nei tardi anni Settanta del secolo scorso, aveva permesso la libertà di parola pubblica, la libertà di stampa e la libertà artistica, cosa che purtroppo, nei Paesi formatisi dopo la dissoluzione della Jugoslavia, non sarà mai più realizzata. Allora il problema non va ricercato nel precedente deficit di libertà, ma nel fatto che negli ultimi venti anni ci siamo abituati a vivere senza libertà. Una cosa deve sapere: il nazionalismo, come pure la destra populista (come tale l’unica destra esistente), escludono anche l’idea di libertà di stampa e di creazione artistica. Si tratta, dunque, di un nostro problema interno. Ma ne esiste pure uno esterno. Negli anni Novanta, quando in Croazia era al potere il regime nazionalista e pro-fascista di Franjo Tudjman, gli occhi dell’Europa e del Mondo erano tutti fissati su di noi. Alcune organizzazioni internazionali erano sempre presenti con un unico incarico: sorvegliare se il regime di Tudjman violava la libertà di stampa. E loro hanno portato a termine questo lavoro molto seriamente. Non appena Tudjman minacciava i giornalisti, lo State Department minacciava lui con delle sanzioni economiche. Oggi non c’è più nessuno a sorvegliare lo stato della libertà in Croazia, e il risultato è paradossale: la libertà di stampa si trova al livello più basso possibile, mentre i giornalisti sono costretti all’autocensura ancor più che ai tempi di Tudjman. Questo problema si è acuito in particolar modo dopo le dimissioni di Sanader e con l’arrivo di Jadranka Kosor, la quale, in soli sei mesi, ha rinnovato gli ideali della società corporativa, ha eseguito cambi e licenziamenti alla televisione di Stato, ha fatto un’insopportabile pressione sui media indipendenti e sui loro proprietari, e nel frattempo ha fatto una coalizione con dei partitelli neo-nazisti, restituendo loro il diritto di cittadinanza tolto da Sanader, nonché ha fatto tornare la società il più possibile vicino agli ideali di Tudjman. È incredibile, però, che in Europa nessuno s’interessi a ciò.

Lei si trova in una situazione privilegiata: non dipende da nessuno, né politicamente né materialmente, dunque può avere un’opinione davvero indipendente. Molto spesso la esprime pubblicamente e per ciò viene criticato. Perché?

Dubito che mi temano, visto che non possiedo quel genere di potere che qui, dalle nostre parti, viene considerato in modo serio. Dunque, non ho potere economico, né legami politici a Bruxelles, ma non ho neppure una mia organizzazione mafiosa che potrebbe vendere l’eroina ai ragazzini e potrebbe bastonare i miei avversari intellettuali. Non faccio altro che dire e scrivere quello che penso, e loro sono irritati proprio per questo. Quando dico loro, penso ai nazionalisti e ai fascisti di queste parti, ma penso pure a un gruppo oltre modo interessante, vale a dire un gruppo di ex giornalisti indipendenti che negli anni Novanta hanno approfittato moltissimo, dal punto di vista materiale, dei fondi Soros per la libertà dei media, e oggi sono furibondi perché nessuno vuole più finanziare il loro impegno sociale. Anche loro, come tutti gli altri compagni nazionalisti, sarebbero ben felici se io andassi via dalla Croazia. In tal senso s’impegnano e lo scrivono sui giornali. È una sensazione molto interessante quando auto-proclamati uomini di sinistra e anarchici cominciano ad avvisarmi che nel Paese in cui vivo sono un intruso.

Il presidente croato Josipović ha fatto un gesto poco consueto per i Balcani. Nella Bosnia Erzegovina si è inchinato dinanzi alle vittime e ha chiesto scusa ai sopravvissuti. È stato immediatamente attaccato. In Croazia sostengono che lui ha sbagliato perché la “Croazia non deve chiedere scusa, visto che non è stata un Paese aggressore”. Lei ha trascorso un periodo della guerra in Bosnia Erzegovina, si ricorda chi ha aggredito e chi si è difeso?

Il Presidente Josipović è stato attaccato dalla destra tudjmaniana con a capo Jadranka Kosor, sarebbe esagerato affermare che è stato attaccato dall’intera opinione pubblica croata. Addirittura si potrebbe affermare che la gran parte dei cittadini lo ha sostenuto nel suo gesto di scuse per i crimini commessi in nome della Croazia in Bosnia Erzegovina. Risulta pericoloso il fatto che la Kosor e i suoi, nella politica e nei media, hanno assunto posizioni molto aggressive, storicamente di stampo revisionista e apertamente fascista. Addirittura il presidente della sezione spalatina, Dujomir Marasović, si è chiesto in modo retorico “chi in Croazia pagherà tutto quel sangue che i musulmani hanno ricevuto con le trasfusioni nell’ospedale di Spalato”, mentre la guerra tra i croati e i musulmani, iniziata nel 1993 da Franjo Tudjman, allo scopo di dividere la Bosnia Erzegovina e cacciare i musulmani in una specie di angolo, un bantustan simile all’enclave di Srebrenica, questo stesso Marasović ebbe a definirla “lo scontro tra due villaggi”. Per rispondere apertamente alla sua domanda: nel 1993, sotto il comando di Franjo Tudjman e con lo scopo di dividere la Bosnia Erzegovina, la Croazia ha compiuto un’aggressione alla Bosnia stessa. Nel corso di quest’aggressione una parte dei croati bosniaci è stata strumentalizzata, ma in essa, comunque, ha partecipato pure l’esercito croato. Questa aggressione, grazie alle pressioni americane su Tudjman, è terminata nel mese di febbraio 1994, con l’accordo di Washington, firmato da Alija Izetbegović e da Franjo Tudjman. Naturalmente va detto che in quella guerra anche i musulmani (che oggi si chiamano Bošnjaci, i bosgnacchi), commisero molti crimini verso la popolazione civile croata, e che in alcune parti della Bosnia centrale compirono vaste operazioni di “pulizia etnica” nei loro confronti. Ma questi fatti non cambiano la natura dell’aggressione compiuta. È questo che aveva in mente Ivo Josipović nel momento in cui ha chiesto scusa, lo sapeva molto bene e lo teneva in considerazione anche l’ex presidente Stipe Mesić, lo sapeva anche il premier Ivo Sanader, ma non lo sa Jadranka Kosor, la quale è tornata sulle posizioni di partenza di Franjo Tudjman, da lei considerato il suo padre politico.

Poiché lei è sia bosniaco sia croato, è inevitabile una domanda sulla Bosnia Erzegovina. Qual è il suo futuro? La Bosnia sopravvivrà alla attuale “politica” della comunità internazionale e dei politici bosniaci? Esiste un futuro? C’è qualche possibilità che resti integra?

Oggi come oggi, mi pare che il futuro della Bosnia Erzegovina sia assai triste. Oggi essa, dal punto di vista politico, funziona secondo due nazionalismi, quello serbo e quello musulmano, nonché su un terzo, quello croato, che però è marginale visto il numero esiguo di croati rimasti in Bosnia Erzegovina. Questo Paese non sarà diviso, ma non sarà neppure integro. Sarebbe integro se esistesse una coesione sociale la quale la considerasse un’unità e la quale, nei suoi confronti, avesse un uguale sentimento e un uguale rapporto. Oggi una cosa simile non esiste più, benché esistesse addirittura durante la guerra. Per esempio, durante l’assedio, Sarajevo era una città modello dal punto di vista multiculturale, una città plurinazionale, nella quale le diversità erano rispettate. Oggi non più. Oggi Sarajevo è una città musulmana e dei bošnjaci, mentre tutti gli altri sono ridotti a minoranze con diritti piuttosto limitati. L’unica eccezione a questa regola è la città di Tuzla, l’unica città nella quale non sono al potere i nazionalisti, né serbi né croati né bošnjaci, città nella quale è stato conservato uno spirito di uguaglianza e di multiculturalità. Tuzla è la speranza della Bosnia. Una piccola speranza, ma a me tanto cara.

È in corso il processo a Radovan Karadžić, accusato per crimini di guerra e per la guerra in Bosnia Erzegovina. Spesso, qui in Italia, s’insiste sull’uguaglianza delle colpe, ovvero che tutti sono parimenti colpevoli, serbi, bosniaci, musulmani e, di conseguenza, i loro leader, Alija Izetbegović, Slobodan Milošević e Radovan Karadžić. Lei concorda con quest’opinione?

Naturalmente è un’opinione errata. Suppongo sia molto più facile ragionare riferendosi a categorie dove le colpe si suddividono equamente, ma se siamo veramente interessati a conoscere la verità, allora si tratta semplicemente di un errore. Si sa molto precisamente, ed è possibile in modo ancor più preciso, individuare le responsabilità individuali. Il primo posto lo occupa Slobodan Milošević. Lui è stato il vero boia dei Balcani e della Jugoslavia. Il secondo posto è occupato da Franjo Tudjaman. Lui era il fratellastro del boia. La sua colpa è terribile ma, pur tuttavia, diversa e minore di quella di Milošević. Tutti gli altri erano soltanto dei loro garzoni. Per quanto riguarda Alija Izetbegović, su di lui ho un’opinione differente. Lui non era né un criminale, né auspicava il crimine, né lo sosteneva. Tra l’altro, nella Sarajevo durante la guerra, dove la sua dimensione multiculturale veniva mantenuta, Izetbegović era il suo sovrano. Dopo di lui, a capo dei musulmani nel periodo postbellico, è venuto Haris Silajdžić, ministro degli Esteri di Izetbegović durante la guerra, ma con degli ideali che si avvicinano, per così dire, piuttosto a quelli di Tudjman, e durante il suo periodo Sarajevo si è trasformata in una città omogenea. Lo nomino apposta per paragonarlo con Izetbegović. Alija mi rimarrà caro per sempre, benché non condividessi le sue idee politiche oppure le visioni del mondo, ma, confesso, era uno dei rari politici dei Balcani degli anni Novanta verso il quale nutrivo rispetto.


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