Alen Čustović

Colloquio con Alen Čustović, autore per Mondadori del romanzo “Eloì, Eloì”. Un viaggio nella guerra di ieri e nella Bosnia Erzegovina di oggi. Le riflessioni sulla propria identità di un giovane scrittore italiano. E bosniaco

24/02/2010 -  Mauro Cereghini

Alen Čustović (Mostar, 1981) ha vissuto da bambino gli eventi della guerra in Bosnia Erzegovina. Da ragazzo è giunto profugo in Italia ed è cresciuto tra la Sardegna, Matera, Roma (dove si è laureato) e Milano, città in cui vive e lavora come giornalista. Con Eloì Eloì, suo primo romanzo, ha vinto il premio letterario Alberto Falk 2007, l’Alziator 2008; l’esordienti Grinzane Cavour 2009 e il narrativa opera prima Corrado Alvaro 2009. Lo incontriamo a margine della presentazione del suo libro a Bolzano, promossa dalla Fondazione Alexander Langer nell'ambito di “Al di là della guerra. Percorso artistico-letterario alla scoperta della Bosnia Erzegovina”.

Alen Čustović: scrittore italiano di origini bosniache, o autore bosniaco che scrive in italiano?

So di essere un mélange, ma non ho difficoltà a riconoscere di essere italiano a tutti gli effetti, come mi sento anche bosniaco visto che quelle sono le mie origini. Riesco paradossalmente a sentirmi bene con entrambe le appartenenze. Sono arrivato come profugo di guerra quando non avevo neanche dodici anni, sono cresciuto in diverse regioni, prima in Sardegna poi a Matera, a Roma, a Milano dove mi sono sposato. Per me è stato naturale integrarmi, dove per integrare intendo in senso ampio accettare la realtà in cui si vive, riconoscerla come propria. E perché non dovrei accettarla? La propria terra è dove ciascuno si trova bene.
Io purtroppo, o per fortuna non saprei dire, mi considero un alberello che è stato sradicato e portato altrove. Ma per continuare a vivere un albero ha bisogno di rimettere in terra le radici, di legarsi ad un territorio altrimenti vivrebbe un'esistenza a metà. In fondo non è un male avere una doppia identità, permette di relativizzare. Certo rende tutto più frammentario e difficile, ma anche più stimolante rispetto a chi crede di avere un' identità ben salda e cristallizzata.
Altra cosa è la mia identità religiosa: sono figlio di un padre musulmano e una madre ortodossa, ma ho scelto a venticinque anni di diventare cristiano. Non è stata una scelta facile, perché sono andato incontro a diffidenze e accuse di tradimento. Ma questa è una dimensione personale, che non incide sull'integrarsi o meno nel luogo in cui si vive.

Il libro è scritto in italiano: una scelta?

Quando sono arrivato non sapevo nulla di italiano. Le prime parole che ho imparato erano “come si dice?”, perché ero circondato da oggetti che conoscevo ma non sapevo nominare.

Da lì in poco tempo ho cominciato a padroneggiare l'italiano, che oggi per me è la lingua madre tanto da sognare in italiano. E questo non per scelta, ma per un fatto naturale, è diventato il mio mondo simbolico. Lo padroneggio meglio del serbo-croato, o bosniaco, chiamatelo come volete.

Ci spieghi il titolo?

“Eloì, Eloì” è la parte iniziale dell'esclamazione in aramaico che si trova in due dei quattro vangeli canonici. Integralmente si traduce in “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”, e viene fatta risalire a Gesù stesso messo in croce. La domanda nasce dalle molte che hanno accerchiato me per primo, ed è un po' il simbolo di ogni uomo che soffre. Non è necessaria una guerra per stare male, ci sono le malattie, le persone care che se ne vanno. La sofferenza è intrinseca e inevitabile all'essere umano, ed è da lì che possiamo rintracciare la speranza. La solitudine dell'uomo lo rende uguale agli altri uomini perché, al di là delle diversità formali come nome o colore della pelle, abbiamo gli stessi sentimenti, siamo universali. I due personaggi principali del libro, Emir bosniaco musulmano e Armando italiano cattolico, sono entrambi per motivi diversi figure claudicanti, imperfetti come le esistenze di ciascuno di noi. Ma – ed è l'insegnamento che ho tratto dalla mia esperienza – nel momento in cui si affiancano e si sorreggono diventano insieme più forti. È ciò che si chiama amore, la vera forma di amore e di coraggio che viene dagli altri uomini. L'invocazione del titolo quindi racchiude in sé la grande potenza della speranza.

Vorresti che il libro fosse tradotto in Bosnia?

Non ho nulla in contrario a tradurre il libro, però probabilmente non piacerebbe a tutti perché il mio è un approccio critico alle vicende della guerra, disincantato e privo di retorica. Faccio un esempio: Emir, uno dei protagonisti, è chiaramente musulmano come dice il suo nome. È un'etichetta che si porta dalla nascita, e poco importa che sia cresciuto nel sistema titino dove le appartenenze non pesavano perché al di sopra era stata creata una patina di laicismo jugoslavo. La guerra scardina tutte le sue certezze sull'uguaglianza jugoslava, dopo che i serbi si portano via ciò che gli è più caro, la moglie e il figlio. Emir da mite insegnante si trasforma in criminale omicida, non si accontenta di uccidere ma vuole umiliare il nemico. E come Emir ciascuno di noi può diventare un demone, nel senso che in tutti c'è una componente emotiva che se toccata ci rende irriconoscibili. Ma un simile discorso è difficile nella Bosnia di oggi, perché non assolve né condanna nessuno. Io rappresento la realtà che ho vissuto, anche personalmente, gli odi interfamiliari che ho sentito. Ciò che scrivo nel libro perciò potrebbe dar fastidio.

Si parla molto di jugonostalgia. Cosa ne pensi?

La mia percezione del passato è relativa, perché sono nato in un momento in cui la jugoslavità stava già sfumando. Però l'ho potuta percepire attraverso le generazioni precedenti e i loro racconti. La Jugoslavia è stata sicuramente una realtà sentita da quanti l'hanno costruita. Insieme alla Grecia fu l'unico paese che si difese da solo dai nazifascisti. Tito inoltre aveva una grande capacità di creare consenso, un prestigio che lo portò anche a guidare il movimento dei non allineati cercando una terza via tra i due blocchi. Le due cose resero più facile unire le diverse appartenenze tramite un sincero sentimento jugoslavo. Tra la Seconda guerra mondiale e la morte di Tito la Jugoslavia visse il suo periodo d'oro, economicamente tutti stavano bene.
Poi però le seconde generazioni arrivate al potere si sono sedute su poltrone che non avevano guadagnato e in cui non credevano. Sono venuti alla ribalta personaggi oscuri che hanno cominciato a teorizzare la superiorità di una etnia, contrapponendo il noi e il loro proprio perché veniva a mancare il collante comune della fratellanza e unità. In più la fine della guerra fredda toglieva la posizione di privilegio al paese, aggravando la crisi economica e l'inflazione. Tutto ciò ha fatto perdere nel tempo il sentimento jugoslavo, che pure c'era all'inizio.
Anch'io posso dirmi “jugonostalgico” per una certa parte, nel senso di quella Jugoslavia dove si viveva in pace, dove l'identità non era una questione prioritaria. Ma oggi non so quanto questo sentimento sia presente. Già Ivo Andrić parlava del “cortile maledetto”, di una realtà dov'è difficile convivere perché le diversità storiche e culturali sono innegabili. Il mio disincanto verso la “jugonostalgia” non significa vederla negativamente, ma avere un approccio più realista.

Un altro richiamo comune è quello alla tradizionale tolleranza bosniaca...

È vero che la Bosnia Erzegovina è stata un grande laboratorio quotidiano di tolleranza e convivenza. Anche nel libro ne parlo, ad esempio dei diversi modi di prendere il caffè, o del condividere le feste religiose di tutti. Però è anche vero che questa terra tollerante si è mostrata protagonista di uno dei più grandi scempi dell'Europa contemporanea. Di cui sono responsabili gli stessi bosniaci. E allora mi chiedo se quella tolleranza non fosse un po' fragile, poco sentita. Il fatto che oggi sia fondamentale l'appartenenza religiosa lo denota. Finché le diversità erano nascoste da una comune appartenenza jugoslava tutto andava bene, ma quando sono emerse è successo l'inferno in terra. È vero allora che nessuno deve insegnare la tolleranza ai bosniaci, ma è anche vero che non bisogna essere troppo sicuri di ciò che si ha.

Il tuo sguardo sull'Italia?

Per chi come me arriva da piccolo o addirittura nasce in Italia, l'integrazione è un fatto normale. Il problema invece sono gli adulti, che arrivano con loro simboli e valori già sedimentati. In più in Italia si pongono ostacoli crescenti di natura burocratica e amministrativa, il governo attuale fa di tutto per ostacolare l'integrazione. Ma il problema principale per gli adulti è la lingua. I loro figli magari si integrano mentre loro non capiscono l'italiano, e questo squilibra il normale rapporto di guida, di filtro che i genitori hanno verso la realtà esterna. Tra gli immigrati spesso sono invece i figli che devono tradurre ai genitori.
In Italia inoltre il clima attuale non è dei migliori. Perché il diverso ci fa paura? Secondo me perché chi è diverso da noi nella lingua, nei costumi, ha un odore, uno sguardo diverso, a noi mondo occidentale, ben pensante e opulento, ricorda quello che non vogliamo più: la povertà. Ci spaventa la mancanza di certezze materiali. È vero poi che manca, almeno in Italia, una solida identità. Ci fanno paura gli altri, e non solo gli extracomunitari ma anche gli omosessuali, i diversi, chi la pensa politicamente in altro modo. Tutto ciò fa paura perché noi per primi non abbiamo più certezze di quello che siamo. Una persona sicura di sé, con propri riferimenti valoriali, ideali o anche religiosi, riesce a rapportarsi serenamente con l'altro. Invece la nostra epoca veloce, scardinata, instabile contribuisce ad indebolire le identità.

Per finire, un'anticipazione sul prossimo libro...

“Eloì, Eloì” l'ho scritto di getto, in pochi mesi. Ha avuto una funzione di sfogo, per un bisogno di guardarmi allo specchio, di spiegarmi il percorso contorto che ho vissuto. Il prossimo libro sarà diverso. Protagoniste saranno delle donne: racconterà le loro evoluzioni personali, le loro complessità. Non parlerò di guerra, né di Bosnia Erzegovina. Ma è vero, in fin dei conti parlerò ancora di identità...


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