Lisičići, a metà strada tra Mostar e Sarajevo, fu sommerso da un lago artificiale negli anni Cinquanta. Dopo quasi settant'anni, gli abitanti attendono ancora giustizia. Intanto il villaggio è rinato, e il lago è diventato il suo migliore alleato
"Là c'era la stazione, là i campi. Il fiume scorreva sull'altro lato della valle. E lì - il professor Zahid Borić indica un punto identico agli altri sulla superficie del lago - c'era il cimitero. In verità c'è ancora, sommerso". Sporgendoci sotto gli ombrelli cerchiamo di immaginare, ma le uniche cose che distinguiamo sono i cerchi della pioggia sulla superficie grigio metallo. Sull'altra sponda sbuffano grandi nuvole scure, nascondendo le montagne verdissime di fine maggio.
Per molti un lago è una componente immutabile del paesaggio, come i fiumi e le montagne. Non per chi è cresciuto a Lisičići, in Bosnia Erzegovina, il villaggio sommerso del lago di Jablanica.
Nella casupola-memoriale uno scroscio costante fa da sottofondo alle lente parole del professore. Seduti accanto a lui, il figlio Asmir e Mensur Duraković, come Zahid un pezzo della memoria storica del villaggio, silenzioso e sorridente. Intervengono di tanto in tanto per ampliare il racconto. Fotografie di antenati sbiadite dal tempo, vecchie mappe catastali, un telefono d'epoca parlano di una quotidianità che è stata interrotta di colpo. Il professore indica dei trofei spigolosi che ricordano, in piccolo, l'architettura brutalista del socialismo jugoslavo. La vita continua sempre, ed è stato così anche dopo il 1953, l'anno del diluvio. Su una coppa di alluminio è stampigliato "najboljoj ekipi u Ferpleju - Mostar, 1978". Un premio per il fairplay. Ma in questa storia non tutti hanno giocato pulito.
Lisičići è a metà strada tra Mostar e Sarajevo, nella Valle della Neretva. Il fiume verde acqua e turchese si fa strada tra rupi selvagge e spettacolari, ma in questo tratto rallenta in una piana fertile, punto di passaggio fin dal Neolitico tra l'Adriatico e l'interno. Gli austro-ungarici ci misero la ferrovia e una stazione, e da allora le prugne, le mele e le albicocche prodotte qui poterono viaggiare fino alla costa, e anche fino all'altra parte del mare. L'idea di una diga sulla Neretva risaliva a quei tempi. Ma per gli austriaci il lago doveva solo lambire il villaggio, non annientarlo. "Lisičići sul mare", ironizzavano a quei tempi viaggiatori informati dei progetti delle lontane capitali dell'impero.
Nel 1943, a una manciata di chilometri da qui, si combatté la leggendaria battaglia della Neretva. I partigiani riuscirono a salvare migliaia di feriti dalla furia dei nazifascisti facendo saltare un ponte. Le rovine di quel ponte - o meglio di quello ricostruito e fatto esplodere nuovamente per girare il più celebre film jugoslavo - sono ancora lì a ricordare l'eroismo dei partigiani.
Ma pochi anni dopo, sulle sponde della Neretva, la repubblica fondata dai partigiani non fu altrettanto eroica. La giovane Jugoslavia aveva bisogno di energia, e il luogo prescelto era quello. Le discussioni non erano ammesse. Il professore ci mostra un documento dell'epoca. Sulla carta ingiallita si leggono ancora i dettagli dell'ordine di evacuazione: la data entro cui abbandonare la casa, dove dirigersi con le poche cose, la minaccia di pene severe in caso di disubbidienza. Accanto alla firma del funzionario, il motto dei partigiani suona crudele: Smrt fašizmu! Sloboda narodu - morte al fascismo, libertà al popolo.
In una fotografia in bianco e nero, tratta da un vecchio documentario, il tetto di un minareto emerge dall'acqua mentre un uomo di spalle, in canoa, pagaia lentamente all'altezza del tetto. Il professore ci mostra un'altra fotografia: è Avdo Sarajlić, suo nonno materno, il vecchio muezzin. Mentre il villaggio veniva abbattuto a colpi di piccone, si era appollaiato sulla torre dove era solito chiamare i fedeli alla preghiera. A farlo scendere non bastarono le parole né le sassate, e così il minareto fu salvo.
Esiste una piccola costellazione di ruderi sacri - dal campanile di Curon sulle Alpi ai minareti di Sivas e Agri nelle steppe dell'Anatolia, passando per il Sudamerica, la Russia, la Penisola Iberica - che in tutto il mondo si ergono dalle acque dei laghi artificiali, unici testimoni dei villaggi sacrificati alla modernità.
Il minareto di Lisičići non ne fece parte a lungo, stritolato dalle acque in pochi anni. Ma il ricordo è rimasto, e oggi la sua sagoma è il simbolo dell'Associazione dei cittadini dell'area allagata di Lisičići, che a distanza di quasi settant'anni chiede giustizia per gli sfollati e i loro eredi. Anche una fontana ha la forma del minareto. L'ha disegnata Muamer Sarajlić, un altro nipote del muezzin. "Costruire fontane di acqua potabile nella tradizione islamica è considerata una buona azione, ed è così che la mia famiglia ha voluto onorarlo", mi scrive la figlia del professor Borić, un avvocato che si occupa di diritti umani e che da lontano segue passo passo la nostra visita. La tomba del muezzin, proprio lì accanto, è lucida nella pioggia.
Suggestionati e zuppi proseguiamo, mentre il professore racconta. "I risarcimenti erano irrisori. Un ettaro di terreno era pagato l'equivalente di cento uova". Improvvisamente poveri, e sfollati in mezzo alla Bosnia orientale, dove non avevano alcun legame, gli abitanti erano disperati. Finché qualcuno non decise di tornare. Sulla riva ripida e sassosa, che un tempo era un terreno incolto a monte del villaggio, spuntarono le prime case. Per Lisičići iniziava un capitolo che nessuno aveva previsto.
Un insediamento abusivo non aveva diritto all'allacciamento alla rete elettrica né all'acquedotto, e nemmeno a una strada. Tanto meno a un ponte, anche se tutto si trovava sull'altra sponda.
"Per andare a scuola attraversavamo il lago con zattere e barche malmesse, tutti i giorni, sotto la pioggia o la neve", ricorda il professore. Serviva una grande motivazione, e non è un caso che molti di quei ragazzi abbiano fatto brillanti carriere in Jugoslavia e in giro per il mondo. Zahid è rimasto a insegnare filosofia e sociologia nella vicina Konjic, contribuendo a tenere viva la memoria delle terre sommerse.
Servendosi di una draga gli abitanti realizzarono da soli, negli anni '70, una strada che seguiva la riva fino a Konjic. Con gli anni l'avamposto abusivo divenne un villaggio rispettabile, con un ambulatorio e persino un piccolo stadio per la squadra di calcio locale, che riscosse un certo successo in tutta l'Erzegovina.
Lisičići tornava alla vita, ma i servizi continuavano a mancare. L'allacciamento alla rete elettrica - un paradosso crudele per una popolazione sfollata in nome dell'energia - arrivò solo negli anni '70, dopo anni di pressioni. In quegli anni l'Azienda elettrica nazionale riconobbe finalmente agli ex sfollati il diritto a congrui risarcimenti. A oggi, però, Lisičići ha visto solo una piccola frazione di quei soldi e qualche volta, come nel 1991, le proteste eternamente disattese vennero represse con la forza dalla polizia.
Il lago divenne il fulcro della vita della nuova Lisičići. "Sono nato e cresciuto insieme al lago", commenta il professor Borić con un certo orgoglio. Sotto la pioggia battente, la fila di panche, l'impalcatura di un gazebo e una piattaforma galleggiante emanano un tenue bagliore d'argento. Nella bella stagione, però, le acque limpide sono incorniciate tra montagne boscose, e il riflesso che le accende è quello del sole. I coetanei del professore crebbero remando, pescando, e soprattutto nuotando. I nuotatori di Lisičići sarebbero stati, negli anni '90, tra i fondatori della Federazione Nazionale di nuoto della Bosnia Erzegovina. La competizione sulle acque del lago, chiamata Suljo e Mujo come i popolari personaggi delle barzellette bosniache, si svolge ormai da venticinque anni.
"Il nostro club ha realizzato l'unico litorale pubblico e attrezzato della zona", dice Asmir, il figlio del professore, che nell'estate organizzerà un nuovo evento sportivo, una grande gara di triathlon.
I ricordi dolorosi affiorano in inverno, quando non c'è quasi nessuno. Nelle operazioni di manutenzione della diga il livello viene abbassato di parecchi metri e il fondale diventa un deserto di fango che presto si screpola. Nelle foto che Asmir mi invia, qualche tempo dopo, un gruppo di persone si aggira tra pietre consunte, in alcune delle quali si indovinano ancora le sagome di fez e turbanti. Con le braccia allargate, il signor Duraković recita una preghiera prima che il lago si richiuda sul cimitero sommerso.
Per Lisičići le cose iniziarono a smuoversi dopo la guerra degli anni '90. Nuovi regolamenti obbligavano Elektroprivreda a risarcire i comuni coinvolti, che a loro volta si impegnavano a investirli, per il 50 per cento, in infrastrutture. Nel 2010 finalmente venne inaugurato un ponte: dopo cinquantacinque anni, l'isolamento finiva. In quegli anni il villaggio sommerso poté contare su un alleato d'eccezione, l'Alto Rappresentante per la Bosnia Erzegovina, Paddy Ashdown, che frequentava la zona aveva fatto amicizia con i suoi abitanti.
"Lord Ashdown - riposi in pace - riceverà la cittadinanza onoraria", ci informa Zahid mentre finalmente ci scaldiamo nella sua casa piena di libri, davanti a un bricco fumante di caffè.
Al momento di salutarci, la pioggia ha finalmente smesso di cadere, e il signor Duraković insiste per regalarci una bottiglia di vino di blatina, il vitigno autoctono dell'Erzegovina. Il destino di Lisičići, riflettiamo insieme, si svolge tutto nel segno dell'acqua. In questo paese è sempre stato così. Oggi, però, i laghi e i fiumi della regione sono fragili come mai in passato. A metterli a rischio sono il cambiamento climatico, che qui si traduce in piogge sempre più irregolari, e una gestione sconsiderata della risorsa idrica. Complice la siccità, nell'inverno del 2017 il livello del lago Jablanica scese vertiginosamente. Agli abitanti del villaggio si offrì un panorama simile a quello precedente alla diga, ma in una sua versione desolata, con distese di fango e rovine al posto dei frutteti. In tutti i Balcani, ricchissimi d'acqua, migliaia di nuovi impianti idroelettrici sono in costruzione. Oggi è impossibile realizzare le grandi dighe di una volta, ma sono i i torrenti a essere presi di mira. Oggi come allora, anche a un passo da qui, sul torrente Doljanka, gli abitanti privati dell'acqua del loro fiume sono ignorati se non esplicitamente minacciati.
Asja, la figlia del professore, ha condiviso la storia del villaggio sommerso con gli attivisti che, in tutti i Balcani, hanno costruito un vasto movimento in difesa delle acque dolci. È lei che, indirettamente, ci ha portato qui.
Un anno dopo, via e-mail, lei e suo fratello Asmir ci aggiornano su quello che è successo dai tempi della nostra visita che, con tutto il mondo in lockdown, non si è potuta ripetere. La gara di triathlon è stata un successo oltre le aspettative, dicono, forse la più riuscita di tutti i Balcani. Il virus impedirà la seconda edizione, ma a Lisičići pensano già alla terza. Le compensazioni per le famiglie degli ex sfollati restano, in gran parte, soltanto promesse. L'Associazione dei cittadini di Lisičići, racconta Asja, ha capito da tempo che bisogna andare per gradi: reinvestire in obiettivi concreti i pochi fondi pubblici o provenienti da progetti ad hoc. Quest'anno sono in programma la ristrutturazione del piccolo stadio e una barriera antirumore sul lungolago. Nel lungo termine, il memoriale potrebbe diventare un museo vero e proprio. Anche il cimitero potrebbe finalmente essere spostato. "Conservare la vitalità di Lisičići" è l'obiettivo dell'Associazione, e passa in gran parte per il lago. Si punta sul turismo locale e sostenibile, sugli sport acquatici e la pesca, sugli eventi culturali. Un ruolo importante lo riveste il volontariato e, come spesso in Bosnia Erzegovina, la cooperazione internazionale.
Qualche mese fa, intanto, è stato inaugurato un nuovo monumento. Nel memoriale ci avevano mostrato la bozza del testo da incidere sulla pietra. La forma richiama una barca di fortuna. Come quelle con cui il professor Borić e Mensur Duraković affrontavano il lago che ha prima distrutto e poi ridato la vita al villaggio sommerso della Neretva.
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