Dopo l'arresto di Jovan Divjak, avvenuto in Austria giovedì 3 marzo, si sono moltiplicate le reazioni e le manifestazioni di sostegno all'ex generale bosniaco. Due le petizioni per la sua liberazione, in Italia e in Bosnia Erzegovina. Riprendiamo il commento di Paolo Rumiz scritto per il Piccolo di Trieste
Questo articolo è stato pubblicato da Il Piccolo il 6 marzo 2011
Lo conobbi, pensate, a testa in giù. Jovan Divjak era in posizione yoga, dritto come un palo sulla scrivania. Lontano si sentivano colpi di mortaio. Era il settembre 1992, a Sarajevo, nel quartier generale delle truppe di difesa, le milizie che lui stava mettendo assieme dal nulla. Mi disse “Si accomodi” in francese, spiegò che non dormiva da un mese e quello era il solo modo di ricuperare. Cominciammo guardandoci al contrario, come i fanti della stessa carta di tressette. Poi mi spiegò la situazione sul fronte.
Quella posizione in bilico lo rappresentava bene. Perché lui era davvero in bilico. Serbo, aveva scelto di difendere la sua città adottiva contro i serbi che l’attaccavano con forze soverchianti. Così gli assedianti – quelli agli ordini del criminale Ratko Mladić, della sua stessa etnia - lo chiamavano “bagra”, che significa peggio che traditore. Ma di lui diffidavano pure alcuni bosgnacchi, quelli che non gradivano un serbo al comando.
Erano i giorni in cui Belgrado sparava la bugia dell’integralismo musulmano e delle “milizie islamiche” in Bosnia, e proprio contro questo Divjak lavorava. Contro uno stereotipo che l’Europa rischiava di bere, prima ancora che contro i cannoni. Per questo, nei 1350 giorni di assedio schierò a difesa di Sarajevo anche serbi e croati, uniti a musulmani ed ebrei nell’amore per la città. Oggi ci sono migliaia di tombe a testimoniare che le cose andarono così.
Cadde, da allora, mezzo milione di bombe, e Divjak tenne duro. Lo rividi nel 2004, in un altro ufficio. Si occupava di orfani di guerra, perché la Bosnia ne era piena. Stavolta stava seduto in modo normale. Mi raccontò storie terribili, senza mai perdere l’ironia. Era quella la sua arma. Quando nel 1993 partecipò a una trattativa col nemico, i serbi dissero che non avrebbero parlato con una scimmia. Lui replicò “siamo scesi dagli alberi da un pezzo”.
Per chiamare fondi alla sua fondazione girava l’Europa, accolto ovunque con onore. Non si nascondeva come Karadžić o Mladić, non c’era nessun bisogno di un arresto. Nel 2007, per la sua missione di beneficenza, fu la visita in Italia, organizzata dalla Camera di Commercio di Trieste. Ma l’ente proprio a Trieste lo scaricò, conigliescamente, con l’alibi di una gazzarra di protesta messa su da qualche fascista italiano e da alcuni estremisti della comunità serba in combutta fra loro. Tra quel voltafaccia e l’arresto di oggi c’è la stessa volontà di non capire.
Nel 2009 lo vidi ricevere Riccardo Muti in Bosnia. Pranzammo nel bazar di Baščaršija a base di ćevapčići e Muti si deliziò ascoltando le sue storie. Era un “tombeur” nonostante l’età: nel viaggio da Bologna la moglie del Maestro, Cristina, mi aveva raccontato che quell’inverno era stata a Sarajevo a preparare la missione musicale del marito e il generale-gentiluomo, alla fine di una cena, l’aveva invitata a ballare un valzer sotto la neve, in una piazza semideserta, imitando con la voce i violini di Richard Strauss.
“Hanno arrestato Jovan” le ho detto ieri. E Cristina: “Sono pazzi. Andiamo a farci arrestare tutti”.
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