Domani pomeriggio i giudici del Tribunale Penale Internazionale dell'Aja per l'ex Jugoslavia leggeranno la sentenza di primo grado a carico di Radovan Karadžić
I tempi di questa giustizia sono stati troppo lunghi. Sia per le vittime, che per le narrazioni che ormai si sono affermate sulle guerre dei Balcani. Dopo la lettura della sentenza, domani, ognuno si sentirà rafforzato nella propria opinione. Su chi ha causato la guerra, sul Tribunale dell'Aja, su Radovan Karadžić. È passato troppo tempo, e in questo tempo i diversi racconti non si sono avvicinati. Sono proseguiti su linee parallele. Non cambierà neppure il paese, la Bosnia Erzegovina, ormai stabilmente instabile e divisa su tutti i livelli della vita sociale e amministrativa, secondo un modello che lo stesso Karadžić avrebbe apprezzato. Non cambierà nulla. C'è però un punto sui cui tutti concentreranno l'attenzione: l'accusa di genocidio nelle sette municipalità, Ključ, Sanski Most, Prijedor, Vlasenica, Foča, Zvornik e Bratunac. Dei quattro capi d'accusa rivolti a Karadžić, è quello più imprevedibile.
Sappiamo già, cioè il diritto internazionale sa, che a Srebrenica, nel 1995, è stato commesso un genocidio. Anche per l'altro capo di accusa, cioè la campagna di terrore condotta con cecchini e bombardamenti contro la popolazione civile di Sarajevo, ci sono già sentenze chiare, quella Galić o quella Milošević (Dragomir), ad esempio.
Se però il procuratore Alan Tieger sarà riuscito a provare che il piano genocidario della leadership serbo bosniaca non era limitato a Srebrenica (1995) ma esisteva fin dal 1992, cioè dall'inizio del conflitto, anche in altre zone del paese, la sentenza Karadžić potrebbe scrivere una pagina nuova sulle vicende degli anni '90.
Il processo è durato 5 anni, nel corso dei quali sono stati ascoltati quasi 600 testimoni. Karadžić si è difeso da solo, assistito da un consigliere legale. Secondo gli esperti, non è stato efficace come Šešelj nel gestire la complicata materia processuale. Il lavoro del procuratore Alan Tieger è stato semplificato, almeno in parte, anche dalla giurisprudenza precedente. Oltre ai processi citati, anche quelli Krajišnik, Plavšić, Stakić, più tutti quelli su Srebrenica. Certo, Tieger deve convincere i giudici del collegamento tra Karadžić e i crimini. Difficile però credere il contrario, cioè che il leader serbo bosniaco, che era anche “comandante supremo” dell'esercito, non sapesse nulla di quello che stava succedendo sotto i suoi occhi, a Sarajevo, o nelle altre parti del paese. Questa però è stata la sua linea di difesa, il motivo per il quale ha chiesto l'assoluzione. Non avrebbe mai ordinato di commettere crimini, né sapeva che venivano commessi.
L'aspetto più inconsueto, nella lunga requisitoria finale di Tieger, verteva proprio su questa discrasìa. Il procuratore l'ha definito “un bugiardo”. Non una, ma 40 volte, ricorrendo anche agli appunti di quanti, durante la guerra, lo incontravano per concordare le tregue che venivano inevitabilmente violate. Al termine delle 5 ore di requisitoria, Tieger ha chiesto l'ergastolo per l'ex psichiatra.
Karadžić è nato nel 1945 in un piccolo villaggio del Montenegro, Petnjica . Il suo percorso ideologico è enigmatico. Emigrato a Sarajevo e divenuto medico, nel periodo jugoslavo non si era fatto notare per un particolare sentimento nazionalista, almeno fino alla fine degli anni '80. Gli unici problemi con la giustizia erano legati a piccole truffe. Con la caduta del muro di Berlino e la creazione dei partiti nazionalisti, però, tutto cambia. Durante i 12 anni di latitanza tutto cambia di nuovo, e secondo alcuni la maschera da guaritore new age, così perfettamente indossata, alludeva non solo a una nuova identità, ma a una personalità sdoppiata.
Quel che è certo è che il ragazzo di campagna divenuto ultranazionalista, che minacciava il popolo bosniaco musulmano di “estinzione”, è riuscito a distruggere non solo un paese, ma anche una società. Non era il solo, certo, in quegli anni convulsi in cui gli ex comunisti indossavano rapidamente le casacche dei nazionalisti. Lui però aveva un esercito, messo a disposizione da Slobodan Milošević, e nei primi mesi della guerra riuscì a conquistare il 70% del territorio, tenendo gran parte del resto sotto assedio.
Oggi la Bosnia Erzegovina aspetta il verdetto a suo carico, ma è tardi per contrastare le sue politiche. La società bosniaca è stata distrutta. Quella identità forse unica in Europa, intollerabile per i nazionalisti, fondata su famiglie che nello stesso focolare domestico festeggiavano il Natale e il Bajram, in gran parte non c'è più.
Anzi, nella parte serba del paese, dove la figlia Sonja è vice presidente del parlamento, la carta del nazionalismo può ancora servire per raccogliere voti. Domenica scorsa, il presidente Dodik ha inaugurato una Casa dello Studente intitolata proprio a Radovan Karadžić, garantendosi le prime pagine dei quotidiani locali, a pochi giorni dalla sentenza, in un importante anno elettorale.
Che sfortuna per i giovani che andranno a dormire lì. Come ha notato sul portale Buka un giornalista locale, Dragan Bursać, Karadžić gli studenti li mandava in guerra a morire.
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