Centri commerciali, gated communities, speculazione: Sarajevo rischia, dal punto di vista urbanistico, il saccheggio. Ma c'è chi, negli ultimi anni, ha iniziato ad opporsi. La prima di due puntate sull'attivismo a difesa degli spazi pubblici nella capitale bosniaca
Camminando per la città di Sarajevo, se si osserva la sua complessità urbana, si ha l'impressione di essere circondati da una realtà paradossale dove ai palazzi storici, agli antichi edifici religiosi e alle palazzine residenziali, sulle cui facciate sono ancora evidenti i segni dell'assedio, si alternano giganti edifici moderni di nuova generazione, per lo più centri commerciali che si sviluppano su vaste aree del centro. Schermi luminosi, insegne di pubblicità, negozi dai prezzi esorbitanti e dalle vetrine perfette, e bar, tanti bar, dove i sarajevesi si riversano per bere qualcosa in compagnia, sentendosi parte di questo contesto che trasmette un'idea di abbondanza e benessere.
Un'atmosfera di facciata, quella di questi centri commerciali, che assume a tratti un carattere alienante perché una volta entrati, ci si dimentica di quel che sta fuori e si viene assorbiti da una realtà altra, quella in cui l'atto stesso della socialità viene messo a profitto.
Una cosa colpisce in particolare: il contrasto stridente tra la situazione socio-economica bosniaca - con un tasso di disoccupazione che nel 2016 ha toccato il 25,8%, di cui il 67,6% di disoccupazione giovanile (Banca Mondiale), e dove il salario netto medio all'aprile 2017 è di 839 KM (429,98 euro) (Agenzia per la statistica della Bosnia Erzegovina) - e gli elevati prezzi dei prodotti venduti all'interno di questi centri commerciali, di certo accessibili solo ad una piccola parte della popolazione. Come è quindi possibile tanta offerta a fronte di una capacità d'acquisto dei bosniaci molto bassa?
Questo accade quando la città come spazio materiale ed immateriale viene messa in vendita, ignorando i bisogni e le necessità di chi la vive quotidianamente, le emergenze sociali che la segnano, e come accade spesso, allontanando la possibilità stessa di partecipazione dei cittadini ai processi decisionali.
La mano degli investimenti privati nel settore commerciale (nonché nell'edilizia) con il benestare delle istituzioni pubbliche, si appropria della città, togliendo alla collettività spazi liberamente attraversabili, fuori dalla logica del consumo. Spazi fisici già carenti in una città che essendosi sviluppata in una valle circondata da montagne, trova di per sé un limite alla sua espansione e una fragilità naturale di cui è necessario tenere conto nel suo sviluppo urbano.
Politiche di privatizzazione e falle di sistema
Nel 1995, a conclusione della guerra, in Bosnia Erzegovina si apre una fase politica travagliata, caratterizzata non solo da un processo di transizione da uno stato di guerra a uno di pace e la conseguente ricostruzione ma anche segnato da un più tradizionale processo di transizione, comune a tutti i paesi post-socialisti, verso un regime democratico e la creazione di un sistema economico di libero mercato. Il tutto sotto la guida della comunità internazionale e all'interno di un complesso e frammentato sistema politico-amministrativo definito dagli Accordi di pace di Dayton.
La convinzione da parte della comunità internazionale che l'implementazione di un pacchetto di politiche neoliberali avrebbe automaticamente dato impulso ad una crescita economica in grado di garantire prosperità da cui sarebbe inoltre derivato un pieno godimento dei diritti di cittadinanza in uno stato appacificato, si è rivelata totalmente fallimentare. Il sistema politico definito dagli Accordi di Dayton è un sistema sotto ostaggio di una classe politica che fa dell'etnopolitica l'unico terreno di confronto, o meglio scontro, e il mezzo attraverso il quale alimentare un ormai radicato sistema clientelare che pervade tutti i settori della società. In questo contesto, le politiche di privatizzazione si sono rivelate un mezzo attraverso cui spartirsi risorse e beni pubblici tra partiti etnopolitici e figure ad essi connesse.
Le politiche di sviluppo territoriale e urbano non si sottraggono a queste dinamiche e, a Sarajevo, stanno definendo la forma, gli spazi e la vivibilità della città. A favorire il fiorire di rapporti di interesse autoreferenziali tra istituzioni e investitori privati è certamente l'assenza di un solido sistema politico-giuridico di coordinamento tra i vari livelli governativi, attraverso cui definire i principi e le linee direttive per una gestione più armoniosa dello sviluppo territoriale e urbano.
La profonda divisione tra le due Entità che costituiscono il paese, impedisce che questo vuoto possa essere affrontato e risolto. Nel caso della Federazione della Bosnia Erzegovina - entità di riferimento per la città di Sarajevo – il sistema decentralizzato composto dai governi dei Cantoni, delle città e delle municipalità crea ad esempio un quadro giuridico in materia di sviluppo territoriale e urbano caotico e disomogeneo, in quanto ognuno di questi livelli si muove secondo le proprie tempistiche, interessi e priorità contingenti. In particolare, nonostante la Federazione sia tecnicamente il livello politico-amministrativo più alto a cui fare riferimento, la gestione del territorio è di fatto regolata dai Cantoni, le cui leggi può capitare si pongano in contrasto con le disposizioni federali provocando contrasti legislativi e periodi di stallo.
Tra centri commerciali e centri residenziali di lusso
Il simbolo per eccellenza dell'attuale fase neoliberale di sviluppo urbano a Sarajevo è il centro commerciale. L'area del centro città di maggiore concentrazione è il quartiere di Marijin Dvor, nato durante il dominio dell'Impero austro-ungarico e poi sviluppatosi con particolare impulso durante il periodo socialista. Un quartiere al confine con il cuore della città, oggi centro politico e amministrativo, nonché culturale, dove si possono trovare edifici come la sede nazionale del parlamento della Bosnia Erzegovina, il Museo nazionale e il Museo della storia della Bosnia Erzegovina. Marijin Dvor è oggi l'area in cui si stanno concentrando particolari interessi commerciali.
Negli ultimi 8 anni, 3 centri commerciali (Alta shopping centar, Importanne Centar, Sarajevo City Center-SCC) sono comparsi nel quartiere, nel raggio di soli 500 metri. A solo un chilometro di distanza da questi, si erge un altro imponente centro commerciale, il BBI Centar, nato dalle ceneri del primo centro commerciale della ex-Jugoslavia, soprannominato “Sarajka” dai cittadini di Sarajevo, fortemente danneggiato durante l'assedio. All'epoca dell'annuncio della costruzione del BBI Centar alcuni architetti si organizzarono per contrastare il progetto, facendo circolare un petizione online in cui si chiedeva che lo spazio venisse preservato come luogo pubblico, come piazza per i cittadini di Sarajevo. Purtroppo, si trattò di un tentativo vano.
Questi luoghi del consumo ospitano supermercati, negozi, uffici, e anche appartamenti, nonché vasti parcheggi sotterranei (carenti nel resto della città). In uno studio di Tijana Tufek-Memisevic, dottoranda presso la facoltà di Tecnologia di Cracovia, condotto nei centri commerciali di Alta Shopping Center, Sarajevo City Center e BBI Centar, si definisce il tipo di consumo registrato al loro interno come "edonistico", vale a dire legato al piacere e al divertimento, piuttosto che "di necessità". La ricercatrice ha voluto comprendere cosa spinge i sarajevesi a frequentare questi luoghi nonostante il loro basso standard di vita. Quello che è risultato dalla sua ricerca è un'inconscia attrazione verso questi “templi del consumo”, nonostante la maggior parte degli intervistati nella ricerca abbia espresso una preferenza di uso alternativo di questi spazi, come parchi e piazze. Luoghi quindi che rimpiazzano gli spazi pubblici ma che vengono vissuti come tali, con la differenza che tutto è mediato dal consumo.
Tuttavia, è interessante notare come alcuni di questi centri commerciali non raggiungano nemmeno a pieno le loro capacità commerciali. L'ultimo piano dell'Alta shopping center è completamente vuoto, fatta eccezione per un bar, e viene utilizzato dagli studenti come biblioteca, non avendone una pubblica aperta oltre le 16 del pomeriggio. Mentre per quanto riguarda il SCC, sin dalla sua inaugurazione avvenuta nel 2014, le due torri che costituiscono parte del complesso commerciale, tuttora risultano inutilizzate. Solo quest'anno è stata annunciata l'inaugurazione per il 2018, in questi spazi, dello Swissôtel, catena alberghiera svizzera, parte del gruppo alberghiero francese AccorHotels.
I centri commerciali non sono il solo aspetto a caratterizzare l'attuale fase urbana di Sarajevo. Di recente, è emerso un mercato immobiliare di lusso principalmente legato a investitori provenienti da paesi arabi, i quali si fanno promotori di progetti di costruzione di residence composti da ville per super ricchi. Si parla in questo caso di 'gated communities' o 'gated houses', un fenomeno che non è nuovo ai Balcani e che, a seconda dei paesi, ha preso forme e connotati differenti a partire dalla caduta dei regimi socialisti. In Bosnia Erzegovina ha suscitato particolare clamore il caso dei progetti immobiliari nella zona di Ilidža, una delle municipalità del Cantone di Sarajevo, dove si trova la fonte del fiume Bosna, oggi sempre più a rischio di inquinamento a causa di strutture alberghiere e ville per turisti che scaricano nelle sue falde o lo sfruttamento delle colline di Poljine, da cui prende il nome il residence Poljine Hills, dove turisti abbienti, principalmente provenienti da paesi arabi, è previsto trascorrano le proprie vacanze, godendo della natura bosniaca.
C'è chi dice no
A questo modello economico e politico di gestione della città alcuni cittadini e cittadine si stanno però opponendo dando vita ad un terreno di opposizione che seppur ancora agli albori, vede impegnati diversi gruppi di attivisti. Sono perlopiù giovani e si oppongono all'occupazione di vaste aree di suolo pubblico urbano, per le quali immaginano invece altri progetti più attenti ai bisogni e desideri dei cittadini di Sarajevo e più sensibili all'ambiente.
Un attivismo quanto mai necessario in una situazione dove i cittadini sono gli ultimi ad essere informati sui progetti in corso. Viene infatti fatto di tutto affinché la partecipazione sia ridotta al minimo o del tutto evitata, nonostante la legge federale preveda che vi sia un momento di discussione pubblica per ogni fase di sviluppo della pianificazione del territorio urbano. Le informazioni riguardo le date degli incontri pubblici vengono affisse spesso solo sulle bacheche delle municipalità di riferimento, i dibattiti sono spesso organizzati durante i giorni lavorativi e in luoghi difficilmente raggiungibili e in alcuni casi privati.
A fronte di questa situazione gruppi di attivisti hanno deciso di prendere parola ed entrare nei processi decisionali, nonché intervenire direttamente sul territorio urbano per mettere in pratica strategie di recupero e di ridefinizione dei rapporti tra cittadini e spazi urbani, secondo principi diversi da quelli del consumo.
(CONTINUA)
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