La favola di Sarajevo, sorta di Europa in miniatura, dura solo sette giorni, quelli del Film Festival. Secondo Dino Mustafić è un peccato, perché potrebbe - e dovrebbe - durare l'anno intero
(Pubblicato originariamente da Tacno.net il 26 agosto 2019)
Secondo una leggenda urbana, tramandata di generazione in generazione, la raja di Sarajevo [gente del posto, i veri sarajevesi] non apprezza i falsi valori e non si inchina davanti ai personaggi famosi. Purtroppo, molti cittadini sarajevesi davvero meritevoli e importanti non sono più con noi, e la loro morte ha lasciato aperto un interrogativo amaro: come la città di Sarajevo li ha ringraziati per tutto quello che ci hanno regalato? Dall’altra parte, quelli viventi – ed è bene che siano ancora in tanti – hanno sufficiente intelligenza, moderazione, buongusto ed educazione per non considerare se stessi grandi né famosi.
Lo scrittore e poeta Valerijan Žujo, cronista della vita sarajevese, sostiene che sia un vero paradosso che i sarajevesi non siano mai stati all’altezza della loro città. Un paradosso che si spiega con il fatto che ogni generazione degli abitanti di questa città unica viveva, come scrive Žujo, “imprigionata nella propria capsula del tempo, osservando il mondo da una piccola finestra o attraverso una fessura stretta. Eppure, Sarajevo è l’insieme di tutti gli eventi, odori e sapori; è la somma di ciò che è e ciò che era”. Secondo Valerijan Žujo, Sarajevo non ha difetti, ma i sarajevesi non sono senza vizi.
Sia come sia, tutti i problemi che affliggono Sarajevo spariscono durante i grandi eventi ospitati dalla città, come il Sarajevo Film Festival, quando tutto sembra magico e festoso, ben ideato e degno delle grandi metropoli del mondo. Sarajevo è nota per il suo carattere accogliente e aperto che impressiona tutti i visitatori, che si innamorano di questa città a prima vista, riconoscendo in essa, in un certo senso, un’Europa in miniatura, dove si sono concentrati i valori dell’identità cosmopolita europea. La favola sarajevese dura sette giorni, il che è un vero peccato, perché se fossimo più intelligenti, potrebbe durare tutto l’anno.
Quest’anno il Sarajevo Film Festival è stato arricchito da un evento collaterale, uno spettacolare concerto di Goran Bregović, dal titolo “Tri pisma iz Sarajeva ” [Tre lettere da Sarajevo], organizzato con il sostegno del comune e del cantone di Sarajevo. Il concerto si sarebbe dovuto tenere nella maestosa cornice della Bijela Tabija [fortezza che sovrasta Sarajevo, ndt], ma a causa delle avverse condizioni meteorologiche è stato spostato al centro sportivo-culturale “Skenderija”.
Qui vorrei riprendere l’osservazione esposta all’inizio del testo, sui sarajevesi meritevoli che in vita sono poco apprezzati dai loro concittadini, tra i quali è sicuramente da annoverare l’architetto Zlatko Ugljen, un vero poeta della “musica pietrificata”, che ha realizzato un magnifico plastico di Bijela Tabija , come parte integrante di un progetto di ristrutturazione di questa fortezza di enorme valore culturale, da cui si gode una vista sull’”intera Sarajevo”, come ha giustamente notato anche Goran Bregović durante un’intervista rilasciata in occasione del concerto sarajevese. Questo progetto architettonico giace ormai da anni nei cassetti della burocrazia, come anche uno splendido progetto di ristrutturazione del Bosanski kulturni centar [storico auditorium situato nel centro di Sarajevo, ndt], ideato dall’accademico e architetto Ivan Štraus, recentemente scomparso.
Cos’altro potremmo scoprire osservando “l’intera Sarajevo” da Bijela Tabija?
Che la città viene devastata ormai da anni; che le nostre strade e piazze stanno subendo cambiamenti permanenti – dal punto di vista materiale ma anche spirituale – con la costruzione di nuovi edifici mostruosi e mal progettati e di centri commerciali, senza alcun ordine urbanistico né senso compositivo, senza alcuna visione né concetto. Gli uomini politici potenti se ne fregano del parere degli esperti; a loro importa solo che vengano realizzati nuovi progetti, come quello voluto dal presidente della municipalità di Centar [una delle quattro municipalità che compongono la città di Sarajevo, ndt], che prevede la costruzione di un edificio in cemento armato nel parco di Hastahana. Questo è l’ennesimo esempio dell’arroganza dei politici al potere, che non fanno altro che cercare di trarre profitti personali e assicurare un futuro benestante ai propri figli. Dall’altra parte, l’amministrazione comunale ormai da anni non ha investito nemmeno un mattone per la costruzione di un nuovo teatro o una nuova galleria, e molte strutture originariamente destinate alle attività culturali sono state trasformate in birrerie.
Forse il sindaco di Sarajevo Abdulah Skaka non si rende conto di quanto la sua proposta per la realizzazione di un film sull’assedio di Sarajevo, che sarebbe confinanziato dall’amministrazione comunale con svariati milioni di marchi, rispecchi la sua ignoranza, ma le iniziative di questo tipo, bizzarre e triviali, dimostrano che oggi la cultura e l’arte vengono vissute solo come qualcosa da consumare, come una porzione di ćevapi “deset u pola” [classica porzione che comprende dieci ćevapi serviti all’interno di un somun, piccolo pane tradizionale, tagliato a metà].
Il processo di deculturalizzazione della città dura ormai da anni, e persino la Vijećnica, tutta bella sistemata, viene affittata, perlopiù per matrimoni, e trasformata in un edifico sterile che ospita eventi aziendali. Tutte queste azioni sono accompagnate da una retorica imperniata sul concetto di cultura come industria creativa, un’espressione presa in prestito dall’ideologia neoliberista, che i nostri politici usano per dare l’impressione di essere cool e intelligenti. Questo modello, basato sulla monetizzazione della produzione culturale – che rende i contenuti culturali disponibili solo alle fasce benestanti della popolazione, a quelli che possono permettersi di indossare abiti di lusso per sfilare sul red carpet del Sarajevo Film Festival, che quest’anno è stato ispirato al ćilim bosniaco [tappeto tradizionale] – è stato fortemente sostenuto anche dai vertici dell’amministrazione del cantone di Sarajevo nel corso di una conferenza stampa organizzata nell’ambito del festival. Molto meno interesse ha suscitato l’affermazione, deprimente ma vera, della regista Ines Tanović – il cui film “Sin” [Il figlio] ha inaugurato il festival – secondo cui la Bosnia è “il paese con i migliori film, ma con il budget più basso per il cinema”.
A risvegliarci dall’illusione, che si crea durante il festival, che Sarajevo sia una città cosmopolita e tollerante, è stato il neo-istituito partito Popolo e Giustizia (NP) che ha invitato gli organizzatori del primo Gay Pride di Sarajevo , promosso con lo slogan “Ima izać” [Devi uscire], a rinunciare alla marcia in difesa dei diritti delle persone LGBT. Invece di fornire un appoggio incondizionato al Gay Pride di Sarajevo – che sarebbe l’unico atteggiamento moralmente e politicamente corretto da aspettarsi da un partito che fa parte del governo cantonale ed è dichiaratamente favorevole alle riforme, - il NP ha emesso un comunicato stampa che rappresenta un vergognoso atto di discriminazione contro le persone LGBT e l’espressione di una politica insofferente verso i diritti delle minoranze e i diritti fondamentali dell’uomo garantiti dalla costituzione.
La promozione degli interessi di partito, come se si trattasse di interessi nazionali, facendo ricorso a una retorica populista e invocando divieti che inciderebbero sulla vita privata delle persone; l’imposizione della morale “giusta”; la negazione del multiculturalismo e il ritorno ai valori tradizionali, tutto questo rispecchia lo spirito del neoconservatorismo che regna ormai sovrano a Sarajevo e che nessun make-up da festival può nascondere. Si tratta di un neoconservatorismo che prende in prestito da diverse ideologie determinati concetti, per poi modificarli e impiegarli in modo da soddisfare interessi politici ben precisi. Talvolta fa leva sul sentimento religioso, altre volte sul local-patriottismo, altre ancora sulla sensibilità sociale, e così all’infinito. Un miscuglio ideologico che, proprio perché molto confuso, si presa bene per manipolare le masse. Il conservatorismo cerca sempre di screditare un’epoca storica, quella ad esso più vicina; usa le tecnologie moderne e i nuovi media, si nasconde dietro ad un abito nuovo cercando, al contempo, di riportare indietro di un secolo l’intera società.
Non stupisce, quindi, che anche Goran Bregović, nel suo ultimo progetto musicale pensato in chiave ecumenica, intitolato “Tre lettere da Sarajevo”, si sia ispirato a una storia “mitica”, che gli è stata raccontata da una giornalista della CNN, di un vecchio ebreo che ogni giorno si recava al Muro del Pianto a Gerusalemme per pregare. Quando la giornalista gli ha chiesto che cosa diceva a Dio, il vecchio le ha risposto che diceva che le guerre tra ebrei, cristiani e musulmani dovevano finire e che i bambini dovevano vivere in pace. Alla domanda della giornalista: “E poi?”, il vecchio ha risposto che aveva la sensazione di parlare a un muro.
Bregović, per fortuna, non si è mai trovato davanti a un muro esistenziale, come invece è capitato a molti dei suoi concittadini durante gli anni Novanta, quando le bombe cadevano sulle loro teste. A Sarajevo un tempo era del tutto naturale che un mistico musulmano e un professore di cristologia fossero amici. È una cosa normale anche oggi, come lo era in passato, perché i sarajevesi che sono profondamente legati alla loro città accettano le specificità e i valori di tutti i loro concittadini, e li considerano come “propri”. A Sarajevo, così come nell’intera Bosnia, accanto ai tre gruppi etnici maggioritari vivevano, da sempre, anche altri popoli. Pensare la Bosnia solo nell’ottica dei tre popoli costituenti non ha mai portato bene a nessuno.
La quarta lettera da Sarajevo sarebbe firmata da tutta la raja sarajevese, costituita non solo da bosgnacchi, serbi e croati, ma anche da ebrei, sloveni, albanesi, ungheresi, cechi, polacchi, rom e tanti altri che vivono in questa città. Perché Sarajevo è una casa in cui nessuno deve sentirsi di troppo. Una casa in cui c’è posto per l’intero “mondo sarajevese”, ingegnosamente descritto da Aleksandar Hemon: “Gli intelligenti e i papci [termine usato nel gergo sarajevese per indicare vigliacchi o cafoni], gli avidi e i belli, gli stanchi e i giovani, i birichini e i folli, i ricchi e i miseri, i sani e i malati, gli alti e i deboli, gli arrabbiati e i grandi lavoratori, gli šaneri [venditori ambulanti che vendono merce contraffatta] e i geniali, la diaspora e i jalijaši [piccoli delinquenti di strada], gli željovci e i pitari [tifosi delle due squadre di calcio sarajevesi, FK Željeznicar e FK Sarajevo], i bambini e gli adulti, i credenti e gli atei, i potenti e i fedeli – insomma, quasi quattrocentomila atomi della città”.
Alcuni di questi atomi non sono più tra noi perché hanno scelto di stare dalla parte giusta quando hanno difeso la città, e con essa il diritto alla diversità. Ed è per questo che Sarajevo o la si ama o la si odia. Di questo non si parla davanti al Muro, bensì di fronte alle persone guardandole negli occhi!
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