La recente visita del ministro degli Esteri russo ha messo a nudo non solo il soft power di Mosca nei Balcani, ma anche una sorta di contesa locale finalizzata alle imminenti elezioni politiche
Per mesi è stato un evento tra i più discussi del paese, tra annunci, smentite, rinvii e un contorno di mistero su chi e perché avesse assunto l’iniziativa. Il viaggio del ministro degli Esteri russo Sergej Lavrov in Bosnia Erzegovina si è svolto lo scorso venerdì e lascia più interrogativi che risposte sugli attuali interessi di Mosca nel paese, uno dei temi più controversi in questa lunga campagna elettorale bosniaca.
Della visita di Lavrov in Bosnia si parlava almeno dallo scorso marzo, quando il presidente della Republika Srpska Milorad Dodik annunciò ufficialmente la costruzione di un complesso monumentale serbo-russo a Banja Luka dedicato allo zar Nikola II Romanov. L’imponente progetto include una chiesa ortodossa a cinque cupole e un centro culturale che lo renderebbe l’edificio più prominente della città, superando la cattedrale di Cristo Salvatore.
L’operazione rinsalderebbe definitivamente il soft power di Mosca sulla Republika Srpska, fondato sulla continua rievocazione della matrice slavo-ortodossa e delle affinità tra popoli. L’origine del progetto non è chiara e sulla stampa si trovano spiegazioni diverse su chi abbia fatto la prima proposta.
Alcune fonti parlano del governo di Mosca, altre di quello della RS e della chiesa ortodossa locale, altre ancora accennano con pathos storico a un’idea già concepita cento anni fa in onore dell’ultimo zar e del suo intervento a favore dei serbi nella Prima guerra mondiale. Poco chiara sarebbe anche la compatibilità dell’edificio con il piano regolatore di Banja Luka, secondo quanto ha riportato il magazine sarajevese Žurnal .
Chi ha invitato Lavrov?
Sergej Lavrov era dunque stato invitato da Dodik per la cerimonia di benedizione del cantiere, prevista inizialmente per luglio e poi rinviata a metà settembre. In agosto, il ministro degli Esteri del governo bosniaco Igor Crnadak informava invece che Lavrov sarebbe venuto in visita ufficiale a Sarajevo come “segno di amicizia e cooperazione personale” tra i due.
In altre parole, Crnadak stava rivendicando che l’iniziativa di invitare Lavrov era stata sua e non di Dodik, mentre quest’ultimo intendeva mostrare l’accesso alla cerchia governativa di Mosca come una specie di esclusiva propria. Compreso Vladimir Putin, che Dodik ha incontrato svariate volte negli ultimi anni e che, secondo le ultime notizie, dovrebbe incontrare entro fine mese in un vertice a Sochi.
Il tiro per la giacchetta è espressione della competizione interna al campo serbo-bosniaco in vista delle elezioni del 7 ottobre. Igor Crnadak è infatti membro del PDP, che è nella maggioranza di governo a livello statale ma è all’opposizione in Republika Srpska ed è quindi avversario dell’SNSD di Dodik. Il PDP è sì un partito nazionalista serbo, ma si trova su posizioni più moderate e pragmatiche rispetto all’avventurismo dell’SNSD sulla politica estera e sulla possibile secessione.
La competizione tra Crnadak e Dodik per affermare il proprio ruolo e scattare la propria photo opportunity si è risolta con un sostanziale pareggio. La visita di Lavrov è iniziata infatti a Sarajevo dove, a margine degli incontri con Crnadak e con i membri della presidenza statale collettiva, il ministro russo ha ripetuto il seguente messaggio: “La Russia rispetta l’integrità territoriale della Bosnia Erzegovina” secondo “le regole di Dayton”.
Molti analisti hanno interpretato queste parole come un segno di prudenza di Mosca verso la questione bosniaca, che implicitamente si distanzierebbe dalle continue forzature di Dodik e smorzerebbe le recenti frizioni tra l’amministrazione russa e il governo di Sarajevo.
A fine aprile si era sfiorato l’incidente diplomatico, durante la visita a Sarajevo di Valentina Matvijenko, presidente del Consiglio federale (la Camera alta russa), che fece alcune uscite un po’ indelicate sulla storia e sulla politica estera bosniaca, scatenando l’intransigenza di alcuni politici sarajevesi a loro volta troppo poco diplomatici.
La visita di Lavrov è poi proseguita a Banja Luka, tra imponenti misure di sicurezza e un aspetto urbano trasformato da bandiere e simbologia patriottica varia. Qui Dodik si è ripreso il palcoscenico, celebrando le crescenti relazioni RS-Russia e consegnando al ministro degli Esteri di Mosca la più alta onoreficenza della Republika Srpska.
Il riconoscimento a Lavrov è stato motivato, tra le altre cose, con il veto che la diplomazia russa ha apposto nel 2015 alla Risoluzione ONU sul genocidio di Srebrenica, evento che segnò un punto particolarmente basso nei rapporti regionali e internazionali.
Il ministro russo ha nuovamente espresso parole di cautela, ammonendo contro le “demonizzazioni contro la Republika Srpska” ma ribadendo anche la neutralità di Mosca rispetto al processo elettorale in corso. “Penso che Lavrov abbia semplicemente rispettato le regole fondanti della diplomazia e della decenza, senza comunque abbandonare Dodik a se stesso”, commenta a OBC Transeuropa l’analista Srđan Puhalo.
RS-Russia. Ingerenze e auto-colonialismo
Se la visita di Lavrov ha mostrato qualche sfumatura, la portata dell’influenza russa in Bosnia Erzegovina resta difficile da misurare. In quest’ultimo anno, e soprattutto dopo le polemiche attorno al Giorno della Republika Srpska, media locali e internazionali hanno riportato di una serie di azioni che sarebbero direttamente sostenute da ambienti di Mosca finalizzati ad appoggiare l’eventuale secessione della RS: tra queste, vi sarebbe il sostegno a gruppi paramilitari, l’acquisto massiccio di armi per il corpo di polizia e la costruzione di un nuovo centro di addestramento vicino a Banja Luka.
Alcuni analisti hanno dato pieno credito a queste inchieste, affermando che Mosca avrebbe individuato nella Bosnia Erzegovina la base d’azione favorevole per tenere in scacco i Balcani e ostacolare l’allargamento di UE e NATO. Secondo altri osservatori più prudenti , gli interessi della Russia nel paese sono invece più limitati di quel che appaiono, essendo volti più a inviare segnali alla controparte europea e americana che non a una strategia di ingerenza o di destabilizzazione permanente per la quale Mosca non avrebbe né le risorse né la porrebbe tra i propri obiettivi.
Vale la pena segnalare che gli investimenti diretti russi in Bosnia Erzegovina sono relativamente modesti. I più significativi, concentrati nelle vecchie raffinerie di Brod e Modrica che sono proprietà di un’azienda statale di Mosca, sono in profonda perdita.
In nuovi settori, come l’energia idroelettrica, gli investimenti russi si presentano invece senza trasparenza né garanzia di continuità. Non diversamente dal rapporto che corre tra Sarajevo e Ankara, anche tra Banja Luka e Mosca il legame poggia quindi molto poco sull’economia e molto sul soft power culturale e mediatico.
I grandi paesi approfittano del ruolo periferico dei Balcani, mentre le élite politico-culturali balcaniche si mettono a loro disposizione per mercanteggiare sostegno e protezione. È una continua auto-colonizzazione, che in campagne elettorali come questa raggiunge l’apice.
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