Un'attrazione fatale, che porta al viaggio e al ritorno. Le tante volte di Federica a Sarajevo, metafora di una vita che desidera essere vissuta. Riceviamo e volentieri pubblichiamo
La prima volta che ho visto Sarajevo ero con Paola, Francesco e Simone, dopo un viaggio in Albania. E' stata la volta dell'avvicinamento lento, della scoperta. La volta del confronto con la Sarajevo immaginaria dei libri, dei film, di Diego. La volta in cui chiedevo ansiosa all'autista del taxi “ma è questa la Miljacka”? La prima volta era: Simone seduto sul davanzale della finestra dell'alto palazzo accanto alla Vijećnica che canticchiava “....qui c'è ancora la città, qui c'è la gente in mezzo ai bar...”. La prima volta era quel ragazzo bosniaco che ci diceva di non venire a Sarajevo per la guerra, ma solo perché è bella. Era il tunnel. Era il museo di storia di fronte all'Holliday Inn. Era la volta del cartello ancora conservato: “Pazi Snajper”. Era Baščaršija, di notte, con i negozi chiusi. La volta in cui mi sono accorta del distacco netto tra il centro austro-ungarico e il quartiere turco al numero 48 di via Ferhadija. È stata la volta del colpo di fulmine. La prima volta in cui l'ho vista dall'alto, salendo per quella via dietro la Biblioteca, accanto al cimitero dov'è sepolto Izetbegović, di quando da li abbiamo aspettato il canto del muezzin al tramonto. E mi è rimasta nel cuore come una calamita che ogni tanto, inaspettatamente, esercita il suo potere di attrazione.
La seconda volta invece era quando eravamo in tanti. È stata Srebrenica. L'incontro con Elvedin. La prima volta in cui ho visto la Drina, che unisce e separa. La volta del “ci vediamo alle cannelle”, delle notti fumose di narghilè nei locali del quartiere turco. La volta dell'incontro con il poeta Senadin Musabegović al Tito bar. La volta in cui stringendo la mano a Mario Boccia, in quella mattina pungente a Baščaršija, gli ho detto “ è stato un onore conoscerti” e lui mi ha tirato un buffetto sorridendomi e mi ha detto “ma quale onore”. Era la volta della voce calma e concentrata di Luca che ci comunicava la sua rabbia parlandoci di Srebrenica. Della serata di poesia italo-bosniaca organizzata dall'ambasciata italiana al teatro vicino la fiamma eterna.
Di quell'indimenticabile corsa da sola attraverso il cimitero di notte perché era meglio che passare vicino a quei tipi loschi. Del freddo che sentivo la notte seduta sui gradini di Seblji con Lorenzo, Giacomo e quel suo amico turco. E la voglia di vedere la Miljacka.
Poi c'è stata la prima volta in cui ci sono andata in macchina, attraversando tutta l'Italia, la Slovenia e la Croazia. La volta del “dobardan” ogni volta che abbassavamo il finestrino alle innumerevoli frontiere per consegnare al funzionario la carta di identità. La volta dei bambini che tornavano da scuola sotto la pioggia; di quando Elvedin ha aperto lo sportello dell'autobus per aiutare i bambini più piccoli di lui a scendere; del freddo di dicembre, di quel lungo pomeriggio dentro l'orfanotrofio. Quella volta era quando, avvolta nel fumo delle sue sigarette, guardavo Irfanka con profonda ammirazione, e rispetto e voglia che mi insegnasse la vita, tutto.
Poi c'è stata la volta in cui era di nuovo primavera. Quando nel traghetto c'era il gruppo canterino in pellegrinaggio a Medjugorje ed ero con Francesco e Giacomo: ormai diventato alleato imprescindibile nell'amore per Sarajevo. Era la volta in cui la Neretva è stata in assoluto più verde, incastonata nelle montagne brulle e compagna di viaggio, calma, che introduce al cuore, che scorta svelando la bellezza a poco a poco. Ed era la volta di quando le giornate a Tuzla con Elvedin stridevano troppo con la vita mondana che si osservava a Dubrovnik e faceva male. Era anche quando ho visto Sarajevo dall'alta terrazza dell'Hotel Hecco. Ed era ancora quel cielo rosa al tramonto, che guardavo, ascoltando il canto delle moschee e immaginando il lontano monte Igman, con le piste da scii dell'84, con le mine. Ed ancora: la Sarajevesko pivo bevuta nel pub adiacente alla fabbrica di birra, a Bistrik; la partita dei mondiali Italia-Croazia quando io tifavo per la Bosnia.
L'ultima volta in cui sono stata a Sarajevo è stata sicuramente la più bizzarra. È stata la volta dei compagni di viaggio di Padova. Di Ivana, Anna, Giampaolo, Sabrina, Gianluca, Giorgio, Gabriele, Isabella, Romeo (di nuovo), Giacomo (di nuovo), (il di nuovo è inevitabile quando ti innamori). La volta di Marcello, compagno di viaggio appassionato, ed attento. Di Senja. Di quando abbiamo avuto il privilegio di dormire nella scuola multiculturale di Pedro Sudar. Di quando ho ascoltato le parole più belle che abbia mai udito nella mia vita, pronunciate da quegli italiani che andavano a Sarajevo durate la guerra per consegnare lettere di parenti scappati all'estero (una donna aveva ricevuto finalmente notizie, nel giorno del suo compleanno, dai suoi figli fuggiti dalla guerra due anni prima), oppure semplicemente per aiutare la popolazione sotto assedio, o per chiedere la pace, in occasione della famosa marcia dei 500. So che quelle parole saranno sempre una grande guida per me.
Ma quella volta è stata anche quando ho conosciuto l'eroe: Jovan Divjak. La prima volta che ho ammirato Sarajevo coperta di neve. È stata quella volta in cui quel sabato notte non volevamo tornare a dormire e abbiamo pellegrinato sotto i fiocchi di neve, dalla Cattedrale alla Biblioteca, dalla Miljacka al belvedere (il solito), dalla fiamma eterna, il cui calore era un caldo abbraccio, alla scuola dove dormivamo provocando (forse) il suono dell'allarme. Di quando il giorno dopo mi sono alzata alle 5, sgattaiolando da sola fuori dalla scuola, ancora con il cielo buio perché dovevo andare a Tuzla, per riabbracciare Elvedin. Sola, nel tram che mi portava alla stazione (dietro l'ambasciata americana), provavo invidia per quell'autista che se ne stava al caldo del riscaldamento, guidando lento, sotto la neve, e Sarajevo deserta poteva essere solo la sua.
I miei amici quel giorno non riuscirono ad andare a Srebrenica per via delle raffiche di neve che avevano bloccato la strada, e io mi sentivo sola e scoraggiata percorrendo la strada impervia e innevata che mi conduceva a Tuzla. Ma chi se li può dimenticare i sorrisi di Elvedin, Sejfo, Elmedin e Amin che giocano con metà gambe nella neve? E gli occhi azzurri del dolce Damir che mi traduceva paziente ogni parola dei bambini?
Non posso dimenticare neanche le indicazioni incomprensibili in bosniaco che mi aveva scritto Senja sull'agenda per farle vedere ai tassisti, incrociando le dita affinché fossero giuste, affinché capissero dove portarmi. E poi l'incontro con gli altri, il pianto liberatorio a tavola. E poi ancora Laura, la cameriera del pub vicino la cattedrale e la sua illuminante tesi di laurea sull'umorismo bosniaco che ha ispirato tante altre storie e ci ha condotto all'incontro con Filippo e alla serata bosniaca a Zei.
Non ci sono andata però solo queste volte qui a Sarajevo. Ci sono andata mille altre volte. Ci vado ogni volta che guardo lo spettacolo teatrale “La Scelta” di Marco e Mara. Ogni volta che incontro persone che mi dicono di frequentare Sarajevo da anni perché non ne possono fare a meno (e sono sempre di più). Ogni volta che leggo la poesia di Luca Leone nel libro Saluti da Sarajevo. Ogni volta che ascolto l'Adagio di Albinoni, miss Sarajevo, Bosnia dei Cranberries, I wanna marry you. Ogni volta che Sarajevo mi manca tanto, come stanotte, e il solo modo per tenerla vicino adesso è scrivere queste righe di delirio, di getto, senza consultare i diari, mentre la sogno e la amo.
Vorrei restituire a Sarajevo tutto quello che mi da. Vorrei poterle donare tutto quello di cui abbia bisogno. Oltre che a darle il mio amore, che c'è, è eterno e incondizionato.
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