La visita di Papa Francesco a Sarajevo potrebbe aiutare la Bosnia Erzegovina ad uscire dal limbo in cui è bloccata da 20 anni. Molto dipenderà dalle sue parole, e azioni
Papa Francesco ha annunciato che il giugno prossimo si recherà a Sarajevo per suscitare “fermenti di bene” e consolidare la “fraternità e la pace”. Una visita papale con intenti così nobili non può che essere benvenuta in un paese che soffre ancora le conseguenze del conflitto 1992-95 e nel quale più di 100.000 bosgnacchi, croato-bosniaci e serbo-bosniaci vennero uccisi.
La Bosnia ha bisogno di tutti gli aiuti che possono essere dati nel tortuoso e lento processo di ricostruzione della fiducia tra i vari gruppi etnici che la compongono. In questo sarebbe di massima importanza un'analisi sincera delle atrocità commesse durante la guerra. Questo implicherebbe un'assunzione di responsabilità e il riconoscimento dei crimini commessi dai membri del proprio gruppo contro persone di altre fedi o comunità.
Da bosniaco so che i traumi e i sentimenti di ingiustizia nati dalle atrocità commesse negli anni '90 influenzano ancora la nostra società, la nostra capacità di ricostruire umanità e fiducia e di garantire diritti e dignità a tutti. La maggior parte dei politici vivono di questi traumi, lavorano per tenerli vivi, utilizzandoli come cortine fumogene per nascondere il saccheggio, la corruzione e la cattiva gestione della cosa pubblica. Assieme ai loro mentori di Serbia e Croazia, fanno tutto il possibile per tenerci lontani dal consolidare la “fraternità e pace” di cui parla Papa Francesco.
La Bosnia rimane una società bloccata nel passato, anche a 20 anni dalla fine della guerra. E questo causa la disperazione dei suoi cittadini e la frustrazione dei nostri amici europei. E ciò non è causa della mancanza di sforzi nel punire i criminali di guerra: centinaia di loro sono stati portati di fronte ai giudici nei nostri tribunali e all'Aja in questi anni. Siamo paralizzati, bloccati in un limbo tra la guerra e la vera pace, perché non abbiamo trasformato la verità e giustizia che è emersa dalle aule di tribunale in riconoscimento, empatia e riconciliazione.
I leader religiosi, che hanno il potere di influenzare le attitudini e le percezioni dei loro fedeli, possono svolgere un ruolo di rilievo per porre termine a questa paralisi. Alcuni di loro, però, hanno utilizzato i loro pulpiti in senso contrario, per far emergere la sfiducia e incitare all'odio nei confronti degli altri.
Sfortunatamente, nelle nostre comunità, tali atteggiamenti non sono solo retaggio del passato. Recentemente vescovi e sacerdoti della Chiesa cattolica in Bosnia Erzegovina e Croazia sono stati in prima linea nella riabilitazione e celebrazione di Dario Kordić, condannato per crimini di guerra a 25 anni – di cui 17 scontati in carcere - dal Tribunale internazionale dell'Aja per l'ex Jugoslavia. Kordić è stato condannato, tra le altre cose, per aver comandato le forze croato-bosniache responsabili del massacro, nel villaggio di Ahmići, di 116 civili bosgnacchi, tra cui donne e bambini. Il crimine di Ahmići rimane uno degli eventi più traumatici dell'intera guerra, un grave squarcio nel tessuto sociale del paese che non è mai stato ricomposto.
Dopo il suo recente rilascio, Kordić è stato accolto da migliaia di persone come eroe nazionale, come uno che è stato ingiustamente condannato per aver difeso la propria gente. “Per 17 anni sei stato spiritualmente con noi. Ora lo sei anche fisicamente”, ha affermato un sacerdote locale mentre celebrava una messa in onore di Kordić nella sua città natale, Busovača.
La messa è iniziata con un minuto di silenzio in ricordo dei soldati di Kordić caduti in guerra. Nessuna menzione è stata fatta delle vittime. Nessuna espressione di rimorso.
Questo è esattamente il contrario di quanto servirebbe per costruire una pace genuina. Per fare in modo che [il male] non si ripeta è necessario riconoscere il male fatto e impegnarsi solennemente a cambiare il proprio comportamento. Servono dei cambiamenti nei cuori e nelle menti. Tutto questo è al centro del concetto cattolico di riconciliazione. Ciò di cui abbiamo bisogno è una metanoia, un cambiamento nell'anima.
Persone come Kordić potrebbero non capire concetti come questo, ma i sacerdoti che ne hanno celebrato l'uscita dal carcere dovrebbero. Ciò nonostante, scelgono di assolvere i colpevoli come se fossero innocenti, trasformandoli in martiri con grande influenza sociale e politica nelle loro comunità. Allo stesso tempo, gli altri gruppi etnici intendono tutto questo come una negazione delle loro sofferenze e come la celebrazione di crimini commessi nei loro confronti. E così le ferite non guariscono, si approfondiscono.
Questo è ben lungi dall'essere l'unico esempio di sostegno da parte del clero a criminali di guerra. È solo l'esempio più recente. Questo fenomeno non è nemmeno esclusivo della Chiesa cattolica, in Bosnia Erzegovina. La Chiesa ortodossa e la Comunità islamica hanno anch'esse espresso pubblicamente sostegno per persone incarcerate per crimini di guerra e crimini contro l'umanità.
Porre fine a questa pratica velenosa, contraria a quanto insegna Papa Francesco, potrebbe essere un passo importante per far rivivere la fraternità e pace di cui ha parlato annunciando la sua visita a Sarajevo. Il Papa può certo contribuire a questo.
Ogni sua parole risuonerà in Bosnia Erzegovina e nel mondo intero. Niente potrebbe essere più utile per suscitare “fermenti di bene” e consolidare la “fraternità e la pace” che un messaggio chiaro e univoco dato al clero e ai fedeli sul fatto che non vi è onore nei crimini di guerra. Niente può giustificare l'uccisione di bambini, e sono le vittime, non i colpevoli, che dovrebbero essere riconosciute e abbracciate. Il Papa può far capire che la pace non può avere radici se i criminali di guerra vengono celebrati come eroi.
La gente della Bosnia Erzegovina accoglierà con calore Papa Francesco. Siamo profondamente onorati abbia deciso di fare visita a Sarajevo. Accoglieremo le sue preghiere, ma sono le sue azioni che possono fare la differenza ed aiutarci a fare passi avanti.
*Refik Hodžić è direttore delle comunicazioni del Centro Internazionale per la Giustizia Transizionale (ICTJ). Da venti anni lavora nel campo della giustizia transizionale come giornalista, regista, produttore e esperto di campagne informative. Si è occupato di media e giustizia post conflitto in particolare in ex Jugoslavia, Libano e Timor Est
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