Ad un mese e mezzo dal ventennale dei tragici ed efferati fatti di Srebrenica, un commento sul senso di responsabilità e sulla necessità di ricordare quanto accaduto
(Originariamente pubblicato dal portale Peščanik il 20 maggio 2015, titolo originale Muhamed, Kadrija, i njihovo ljudsko dostojanstvo )
Su iniziativa dell’Istituto di tradizione islamica dei bosgnacchi, si è tenuta a Sarajevo in questi giorni (12-13 maggio) una conferenza sul genocidio di Srebrenica, alla quale indubbiamente ne seguiranno altre dedicate allo stesso tema dato che il prossimo luglio ricorrerà il ventennale di quel tragico evento. Ed è bene che ce ne siano, a dispetto di tutte le voci polemiche che hanno sempre qualcosa da rimproverare in merito a quello che viene definito "turismo” o “profanazione”. Vorrei però che questa volta i cinici non si facessero sentire perché di parole, gesti, preghiere, immagini, pellegrinaggi che ricordano la morte di persone innocenti abbiamo bisogno ogni giorno, in continuazione, affinché si ponga un argine all’oblio e alle menzogne.
Le 6873 lapidi bianche del cimitero memoriale di Potočari simboleggiano altrettante singole vite umane, vite di persone che non hanno fatto nulla per meritarsi quello che è loro successo. Queste persone, tuttavia, non ci sono più, ne sono rimasti solo gli scheletri immortalati nelle fotografie di fosse comuni aperte.
La recente conferenza sarajevese si è aperta con l’inaugurazione della mostra fotografica di Muhamed Mujkić intitolata “Made in Portugal”. I visitatori si muovono lentamente da un pannello all’altro, chiedendosi che cosa sia esattamente prodotto in Portogallo e che legame vi sia tra quel paese e l’orrore della morte che dirompe dalle immagini. La mostra non è grande, per cui la risposta diventa subito evidente. In Portogallo fu fabbricato quel paio di jeans Levi’s 501 che Hasan Nuhanović aveva comprato a Belgrado nel marzo 1995, per poi mandarli al fratello minore Muhamed tramite uno straniero che passava per la capitale serba tornando alla base dell’Onu di Potočari. Quella primavera la madre, il padre e il fratello di Hasan erano ancora vivi. Oggi c’è solo lui.
Quell’autunno mi contattarono riguardo a mia madre. Dissero che erano riusciti a trovarla, o almeno quello che era rimasto di lei, in un ruscello nel villaggio di Jarovlje, a due chilometri da Vlasenica, dove i serbi che vi vivono hanno buttato l’immondizia per 14 anni. Non era sola. Altre sei persone furono uccise in quel luogo, arse. Spero non mentre erano ancora vive, dissi.
Stavo per seppellirla quest’anno accanto a mio padre, i cui resti furono identificati quattro anni fa, quindi undici anni dopo l’esecuzione. Dissero di aver trovato poco più della metà delle sue ossa. Frantumata la parte posteriore del cranio. Neanche questa volta però il dottore era in grado di dirmi se questo avvenne post mortem.
Poi mi dissero di mia madre. Mentre mi preparavo a seppellirla accanto a mio padre l’11 luglio 2010, ricevetti un’altra telefonata: “Il Dna è compatibile, ma non siamo completamente sicuri”, mi comunicarono, chiedendomi di venire a Tuzla. E io ci andai.
Lì, il dottore portò davanti a me un sacco contenente tutto quello che fu trovato sui resti di mio fratello e lo svuotò su un cartone... Cominciai a cercare quell’inconfondibile etichetta Levi’s che avrebbe potuto aiutarci a confermare la sua identità. Presi nelle mani i jeans di mio fratello, quello che ne era rimasto dopo quindici anni: i bottoni metallici, le parti interne delle tasche. Le parti fatte di cotone erano distrutte, non c’erano più. Aveva resistito solo la sintetica. Tra tutti quei fili e resti vidi intricata un’etichetta diversa, rimasta intera, solo leggermente sporca, e cercando il logo della Levi’s riuscii a leggere “Made in Portugal”.
In una delle fotografie di Mujkić si vede lo scheletro di Muhamed, appena esumato, in quel che era rimasto dei jeans portoghesi. Muhamed ci guarda dai buchi neri dove un tempo erano i suoi occhi. Il cranio umano. La presenza persistente di un uomo che non c’è più, ma che ci guarda. A Potočari ho incontrato il fratello Hasan, oggi responsabile del Centro Memoriale. Gli porgo le mie scuse, dicendo che sono serbo. Non so quanto sia opportuno dire una cosa del genere né se rivolgendomi a quest’uomo l’abbia offeso. Lui mi ringrazia, guardandomi con uno sguardo ancora più vuoto di quello che emana dalla fotografia dello scheletro di suo fratello.
Lo scheletro di Muhamed oggi risulta completo, a differenza di quello di Kadrija Musić: nato nel 1973 e ucciso lo stesso luglio 1995. Amor Mašović, presidente dell’Istituto per le persone scomparse in Bosnia Erzegovina, ha parlato alla conferenza sarajevese di fosse comuni primarie e secondarie. La definizione forense è chiara. Una fossa primaria è il luogo dove vengono sepolti i cadaveri subito dopo l’esecuzione, mentre in quella secondaria vengono spostati e inumati i resti di corpi umani dissotterrati dalle fosse primarie. In questo modo gli assassini credevano di poter cancellare ogni traccia dei loro crimini.
Nella cosiddetta “Valle delle fosse” nella regione di Podrinje, le vittime del genocidio di Srebrenica sono state ritrovate in circa 150 fosse comuni, di cui più di 70 “secondarie”. Grazie alle analisi del Dna, finora si è riusciti ad identificare solo la metà dei resti di Kadrija. La metà delle ossa di un ragazzo 22enne di nome Kadrija è stata recuperata da cinque diverse fosse comuni secondarie sparse su un territorio di 32 chilometri. Questo il ragionamento dei serbi: disseppellire un cadavere da una fossa comune, smembrarlo e gettare le ossa in più luoghi diversi.
Guardo le fotografie esposte in compagnia di Aleksandra, dottoranda a Londra, che mi dice una cosa importante: il diritto internazionale dovrebbe definire un nuovo diritto umano – il diritto della vittima al rispetto della dignità. Mi viene in mente Hannah Arendt e la sua diagnosi delle radici del male incarnato nell’Olocausto: l’atto dell’uccisione di un grande numero di persone, che viene chiamato crimine di massa, si colloca solo al termine del processo dell’annientamento della personalità morale di ogni vittima.
Non possiamo permettere che la morte violenta di un essere umano innocente porti con sé la scomparsa del suo intero mondo. Sono proprio il diniego e l’oblio ad uccidere quel valore della singolarità che ogni essere umano possiede per il semplice fatto di esistere. Quando diciamo che “non siamo noi i responsabili”, o che “non siamo gli unici ad essere responsabili”, o ancora che “in fin dei conti dobbiamo volgere lo sguardo al futuro perché la vita non può aspettare”, il messaggio che mandiamo è che la morte di persone innocenti può essere dimenticata oggi perché le loro vite non avevano alcuna importanza ieri. Un messaggio che non è altro che l’affermazione del crimine commesso.
Non riusciremo mai a resuscitare i morti né a far sì che le ferite guariscano e il dolore umano diventi più sopportabile. Ma dobbiamo comprendere – tutti noi che siamo serbi e ciascuno di noi per sé – che le nostre vite sono moralmente danneggiate, e rimarranno tali. La menzogna ideologica ha portato alla morte violenta di tanti, uccisi in nostro nome. Le persone innocenti sono state sterminate, e gli assassini hanno fatto il possibile per annientare la loro dignità, offendendole persino da morte. Tutto ciò “per il nostro bene”. Per cui assumersi le proprie responsabilità, riconoscere il crimine commesso come un atto ingiustificabile, e impegnarsi perché non venga mai dimenticato che ogni singola vittima era un essere umano è un elementare dovere morale di ognuno di noi. “Le persone sono morte, non mortali”, scrisse una volta un poeta. Mortali siamo noi ancora presenti su questo mondo, e il nostro essere nella finitezza dell’esistenza umana resterà determinato dall’assenza di coloro che sono stati brutalmente uccisi nel nome e per il bene del popolo serbo.
Hai pensato a un abbonamento a OBC Transeuropa? Sosterrai il nostro lavoro e riceverai articoli in anteprima e più contenuti. Abbonati a OBCT!