I bosniaci combatterono fedelmente nelle fila dell'esercito austro-ungarico, nei diversi fronti della Prima guerra mondiale. Al loro ritorno, però, i soldati furono tormentati dagli incubi. La storia di nonno Alija
Lunghi, spaziosi corridoi, spessi tappeti che attenuano il rumore dei passi, i mobili antichi, l’aria profumata, e in sottofondo la musica di un valzer. I colori che prevalgono sono il blu reale e il giallo dorato. Sui muri fanno bella mostra di sé i quadri, nelle massicce cornici dorate, con i ritratti di uomini baffuti ottocenteschi, o di donne dalle acconciature complicate. C’è un’atmosfera di magnificenza.
Nello sfarzoso albergo del centro, l’atmosfera della Vienna imperiale è molto più palpabile che nei palazzi, diventati musei, Hofburg o Schönbrunn.
Il personale è servizievole, ancor prima che io pronunci una parola, i vari addetti mi sorridono, sui visi hanno un’espressione come a dirmi che mi capiscono in anticipo e che sono a mia completa disposizione. Si rivolgono a me con “sì signora”, “prego signora”, “certamente signora”. Tento di alzare la valigia ma “uno con il sorriso” è più veloce, allo stesso modo mi aprono l’ascensore, la porta.
Sola, in camera, mi affaccio alla finestra a guardare “sotto i piedi”, come direbbe qualsiasi conquistatore, la città. Tranquilla, ordinata, pulita, Vienna sembra una vedova, una pensionata, docile, benestante.
Chissà cosa direbbe mio nonno se potesse vedermi qui. Il nonno Alija, un piccolo bottegaio provinciale, un bosniaco qualunque, rimarrebbe stupito nel vedere sua nipote nella città dell’imperatore.
Il mio nonno materno era nato, vissuto e morto in Bosnia. Dalla propria casa si era spostato soltanto due volte nella sua vita: la prima a diciotto anni, per l’obbligo del servizio militare, e la seconda volta per partecipare alla Grande Guerra, come soldato dell’imperatore.
Ma credo che ancora più stupito, per il trattamento che mi riservano, sarebbe Franz Ferdinand che considerava i popoli slavi di “razza inferiore rispetto ai germanici, culturalmente superiori”.
Cento anni fa, cos’era più distante? La Bosnia guardandola da Vienna, o viceversa?
Sarajevo, l'Oriente
Da Vienna, all’epoca capitale dell’Impero Austro-Ungarico, la Bosnia Erzegovina pareva una terra remota, tenebrosa, un mondo da scoprire, conquistare e civilizzare, l’Oriente, tanto esotico quanto selvaggio.
Questa immagine della Bosnia e dei bosniaci si rafforzò dopo una rivolta studentesca. La polizia imperiale aveva impegnato i militari bosniaci per reprimere le proteste. Da allora l’abbreviazione BiH, a Vienna assunse un nuovo significato: B’schissene Hos’n (imbroglioni merdosi) e Blode Hund (stupidi cani).
E dal centro dei Balcani, cento anni fa, Vienna era ancora più lontana per i bosniaci. La sola idea di un mondo di una tale potenza, cultura e civiltà era per loro incomprensibile. Non è che ne dubitassero l’esistenza, il potere asburgico si fece sentire forte fin dall’inizio, ma era un mondo talmente diverso, avanzato, superiore, da sembrare irreale.
Nel 1878 l’Impero Austro-Ungarico occupò la Bosnia Erzegovina grazie al generoso permesso che i grandi dell’epoca avevano approvato al congresso di Berlino.
I bosniaci si opposero fortemente alla nuova occupazione, non volevano cambiare il loro padrone, dopo quasi cinque secoli di sottomissione agli Ottomani. Ma l’esercito austro-ungarico, guidato dal generale Von Philippovich, conquistò la BiH in meno di tre settimane. Sarajevo fu conquistata il 19 agosto, dopo una battaglia di 8 ore, e diversi edifici della città furono dati alle fiamme.
Non passò tanto tempo dalla feroce e sanguinosa opposizione al nuovo padrone, che i bosniaci si adattarono alle nuove circostanze. Scoprirono in fretta che l’occupazione austro-ungarica aveva anche i suoi lati positivi. In breve, i bosniaci diverranno il sostegno fedelissimo e indomabile dell’amministrazione e della sovranità austro-ungarica.
Per i cattolici bosniaci, la Monarchia fu garanzia per la loro esistenza ed emancipazione. Per i musulmani bosniaci, l’Impero Austro-Ungarico fu un'arma efficace contro gli eventuali soprusi della rinata Serbia e del rafforzato Montenegro. Gli ortodossi bosniaci, infine, erano contenti perché i loro interessi, sotto la Monarchia, erano meglio tutelati dalla garanzia di uguaglianza davanti alla legge, assicurata in uno stato di diritto ben amministrato.
La gente comune bosniaca si era adattata all’organizzato imperialismo austriaco. Di come stavano sotto Franz Joseph testimonia un detto che si è conservato in BiH decenni dopo la scomparsa della Monarchia: “Ode Švabo, ode Babo”, (Se ne va il tedesco, se ne va il babbo) cioè quando gli austro-ungarici hanno lasciato la Bosnia, è come se i bosniaci fossero rimasti orfani di padre.
Molti, come il nonno Alija, erano soddisfatti della vita da sudditi asburgici, e speravano di viverla, in pace, fino alla fine dei loro giorni.
Ma quelli che decidevano della vita e della morte della gente comune, “i grandi”, avevano sogni e progetti ben diversi dal “morire nel letto”, cioè in pace. L’Europa, cento anni fa, era tutto fuorché tranquilla o felice.
Voglia di guerra
Gli stati europei dell’epoca erano scontenti, ciascuno per le proprie ragioni. Nelle varie cancellerie europee la guerra era vista come necessaria per risolvere i problemi crescenti.
Il Capo di Stato Maggiore tedesco, nel 1912, disse che “se ci deve essere la guerra, prima arriva meglio è!"
L’Inghilterra, allora potenza mondiale, temeva la sua principale sfidante, la Germania, che cresceva in fretta. L’imperatore della Germania, Kaiser e re di Prussia, Friedrich Wilhelm, nei suoi discorsi bellicosi pretendeva una nuova distribuzione delle colonie in Africa e Asia.
I tedeschi e la Russia avevano interessi da ultimare nell’Europa centrale e sud-orientale: l’Austria-Ungheria era turbata dal nazionalismo slavo entro i suoi confini; la rivalità tra gli austriaci e i serbi nei Balcani destabilizzava la zona; la Francia soffriva per la sconfitta nella guerra con la Prussia (1870). In una tale atmosfera sembrava che l’unico modo per curare la frustrazione nazionalistica fosse la rivincita (è da allora che si adopera il termine revanscismo, etimologicamente legato alla parola francese “revanche”). La Germania temeva il crescente potere della Russia; la Russia cercava un modo per riparare all’umiliazione della sconfitta nella guerra contro il Giappone (1905).
Nel 1914, per molti, la guerra non era solo inevitabile, ma qualcosa di positivo.
Uno scrittore tedesco scrisse: “Finalmente la vita riguadagna il suo peso ideale. Grandi virtù dell’umanità... lealtà, patriottismo, la volontà di morire per gli ideali... La guerra serve per purificare l’umanità da tutta la sporcizia”.
Similmente erano eccitati gli scrittori britannici: “Morire da giovane, pulito… rapidamente, in perfetta salute; morire per salvare gli altri dalla morte, o peggio - dalla perdita dell’onore... morire nel pieno della vita…. Non è un buon motivo per essere felice, e non triste, per la guerra?”
Interi strati della società inglese erano entusiasti per un’eventuale guerra. L’atmosfera che si era creata viene così descritta dall’ammiraglio Jackie Fisher: “Ci stavamo preparando alla guerra, la pensavamo, ne parlavamo nelle ore di lavoro, speravamo che scoppiasse presto.”
Le grandi potenze del 1914 si organizzavano per la guerra, e ognuna sperava di espandersi e arricchirsi, di risolvere qualche problema. Nei loro calcoli c’era la convinzione di poter ottenere di più con il conflitto che con la pace. Erano interessate alle colonie, alla nuova suddivisione delle terre e ai popoli occupati. La teoria del “razzismo scientifico”, rivitalizzata e popolare, giustificava la colonizzazione, “se il popolo occupato è inadatto a governare se stesso”.
Mlada Bosna
Nell’Europa dell’epoca c’erano anche numerosi gruppi e organizzazioni sovversive, anarchici, o nazionalisti che lottavano per l’emancipazione dal dominio straniero. Fiorivano idee per l’unità nazionale, si propagava e rafforzava il desiderio per la libertà. Questi credevano che sarebbe bastato compiere una grande opera, come uccidere un personaggio importante, dopo di che tutto si sarebbe sistemato e il mondo avrebbe cominciato a funzionare bene.
L’esistenza di un gruppo simile in Bosnia non era né un anacronismo né una caratteristica esclusiva dei Balcani. L’idea della libertà e unità nazionale incantava un gruppo di giovani bosniaci, serbi, croati, musulmani, uniti in un’organizzazione chiamata “Mlada Bosna” (Giovane Bosnia).
A cavallo del diciannovesimo e ventesimo secolo gli attacchi contro i rappresentanti dei governi, aristocratici e “teste coronate”, erano abbastanza frequenti. In questo periodo fu ucciso il re serbo Alessandro I Obrenović, Umberto I in Italia, il re Carlo I del Portogallo e il principe ereditario Luigi Filippo, fu assassinato lo zar russo Alessandro II, l’imperatore Francesco Giuseppe uscì illeso da tre attentati, la regina Victoria sopravvisse a sette attacchi, il re di Francia Luigi Filippo rischiò di essere assassinato diciotto volte. Lo stesso Franz Ferdinand, prima di essere ucciso a Sarajevo, era scampato a un paio di attentati.
“Un militarismo pazzesco”. Così, nel maggio del 1914, un consigliere del presidente americano Woodrow Wilson, il colonnello House, riassumeva lo stato d’animo prevalente in Europa.
La gente comune, come il nonno Aljia, si capisce, era ignara dei progetti bellici e non conosceva né condivideva le idee nazionaliste che riscaldavano le teste e il cuore dei giovani bosniaci. Il nonno Alija, come anche il padre di Nedeljko Čabrinović, uno degli attentatori, appartenevano alla maggioranza, alla gente comune che non conta nulla nei grandi progetti statali. Čabrinović padre aveva esposto la bandiera austro-ungarica sulla propria casa, in onore di Franz Ferdinand. Per questo aveva litigato con il figlio Nedeljko che si recava a Sarajevo per uccidere l’arciduca.
Gli incubi di nonno Alija
Il nonno Alija si sposò giovane, a vent’anni. Per nascondere la bella moglie dagli sguardi altrui, aveva messo sulle finestre una grata di legno, come si usava una volta. Così la moglie poteva sbirciare, senza che nessuno da fuori la vedesse.
Tutte precauzioni inutili. Il nonno presto dovette lasciare la moglie libera di “arrangiarsi da sola nella vita”, la casa, la città natale e la Bosnia. Come soldato imperiale fu mandato sul fronte orientale. Fu ferito in battaglia vicino alla città ungherese di Pecuh. Tornò a casa con un buco nella gamba, una medaglia sul petto, e un sacco di incubi che lo tormentarono fino alla fine della vita.
Solo trentasei anni dopo l’annessione della Bosnia Erzegovina alla Monarchia, duecentomila bosniaci (serbi, croati, musulmani e altri), in una popolazione che all’epoca contava due milioni di persone, combattevano su tutti i fronti della Prima guerra mondiale, dal Tirolo alla Siria, distribuiti in quattro reggimenti dell’esercito austro-ungarico. Partivano in guerra non spinti dal patriottismo, ma dal senso del dovere. Si distinsero per la loro caratteristica durezza e sobrietà, fornivano prestazioni sovraumane. “Ridicoli nella loro orgogliosa fedeltà a chi non era loro amico”, così descrive i bosniaci lo scrittore Meša Selimović nel suo libro Il derviscio e la morte.
Nel 1914 solo pochi avevano un’idea del cataclisma che si preparava. La convinzione generale era che il conflitto sarebbe stato limitato e di breve durata. Gli ammiragli pensavano che la guerra in mare sarebbe stata una replica delle grandi battaglie navali del passato, i generali credevano che i combattimenti sulla terraferma sarebbero stati come gli scontri ottocenteschi, con un inizio, la rapida penetrazione delle truppe trasportate con la ferrovia, l’attacco decisivo, la totale sconfitta degli avversari in tempi brevi, poi la conclusione e, dopo un paio di settimane o mesi al massimo, la pace conclusiva.
Non tenevano conto di quello che avevano inventato, costruito e preparato: i carri armati e il gas velenoso; i primi bombardamenti dall’alto, da un aereo tedesco, “la guerra bianca” sulle Alpi, il più spietato di tutti i fronti, dopo l’entrata in guerra dell’Italia, i massacri dei turchi sugli armeni e le rivolte arabe, la battaglia della Somme e Verdun, i sommergibili tedeschi che causeranno le prime vittime americane, i fronti africani e asiatici, le rivoluzioni e l’umiliazione di tante fazioni in guerra.
La grande guerra, così chiamata perché si credeva che avrebbe risolto tutti i problemi e che dopo, in Europa, non ci sarebbero stati altri conflitti armati, mobilitò sessantacinque milioni di soldati, otto milioni e mezzo caddero in battaglia, oltre ventun milioni furono feriti, 7,8 milioni furono fatti prigionieri e dispersi, più di cinque milioni furono le vittime civili in Europa.
Per i soldati in trincea la guerra fu, come uno di loro scrisse in una lettera mandata a casa: “Mesi di noia intervallati da momenti di estremo terrore”.
La prima guerra mondiale fu una lotta tra gli imperi. Da essa derivò la nuova divisione del mondo: i vincitori si spartirono le colonie tedesche. Sparirono quattro imperi e furono creati nuovi stati basati sul principio della determinazione nazionale (su proposta del presidente americano Woodrow Wilson).
Quell’idea degli stati nazionali etnicamente omogenei risultò fatale. Dopo la prima guerra mondiale fu adoperata per giustificare l’odio nazionalista, l’oppressione, lo sterminio e le uccisioni delle minoranze in tutta Europa, con indicibili sofferenze e milioni di morti, fino alla pulizia etnica dei giorni nostri.
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