Nell'anniversario del 110 anni della nascita dello scrittore Dinko Štambak, il miglior conoscitore jugoslavo della capitale francese dove ha vissuto buona parte della sua vita, Božidar Stanišić lo ricorda con questo scritto personale e letterario allo stesso tempo
Ne La fata carabina, il secondo romanzo della saga dei Malaussène dello scrittore francese Daniel Pennac, Stojil, compagno di scacchi di Benjamin, insegna alle vecchiette le tecniche di autodifesa, poi finisce in carcere dove si mette in testa di tradurre Virgilio in serbo-croato. Stojil (vero nome Stojilkovic, un ex militare jugoslavo) muore già nel successivo romanzo del ciclo, La prosivendola, pubblicato nel 1989. Nello stesso anno morì un amico parigino di Pennac, lo scrittore croato Dinko Štambak (1921-1989). Nel creare il personaggio di Stojil, Pennac si era ispirato principalmente alla figura di Štambak.
In quello stesso anno, all’inizio di marzo, mia moglie e io facemmo un viaggio a Parigi, un breve viaggio turistico. “Padrino, l’intero paese è impazzito? Non c’è più nemmeno una briciola di buon senso?”, mi chiese Štambak appena ci incontrammo all’Akademija, come aveva ribattezzato un bar in Place de la Contrescarpe, a due passi dalla Sorbona (non eravamo padrini – non ero l’unico a cui si rivolgeva così.) Io, per tutta risposta, allargai le braccia e per l’intera durata della conversazione non toccammo più argomenti “yu-politici”. Ci incontrammo ancora un paio di volte nello stesso bar, in un’occasione vi rimanemmo a lungo a chiacchierare. Preferivo trascorrere del tempo con Dinko, anziché a Versailles. Durante uno dei nostri incontri Dinko mi raccontò un aneddoto su Esenin. Un giorno il poeta russo finalmente decise di visitare Versailles e vi si diresse in carrozza. Durante il viaggio però si fermava davanti ad ogni locanda. Quando poi gli chiesero come gli era sembrata la residenza dei re di Francia, Esenin rispose: “Versailles non esiste!”.
Dinko mi parlò, con modestia, anche delle sue visite al Louvre dove si recava da anni, sempre di domenica, quando l’ingresso era gratuito. Gli erano rimasti impressi nella memoria i volti delle persone comuni e dei lavoratori, in particolare il volto di un muratore che incontrava spesso nelle sale del museo. Si recava volentieri anche a Chartres per ammirare le vetrate della cattedrale simbolo della città.
Un giorno Dinko mi chiese di comprargli le sigarette, quelle forti, le Gitanes, pacchetto blu, senza filtro. “Faccio fatica a muovermi. Ma tu, padrino, non devi dire nulla a Mira!”, mi disse aggiungendo, apparentemente en passant, che aveva “alcuni” problemi di salute. “Se le cose non stessero così come stanno, ora chiamerei Kiš…”, ad un certo punto disse Dinko, riferendosi alla malattia che attanagliava il suo amico. In un’occasione Dinko parlò a Kiš della tragica sorte che, durante il pogrom di Novi Sad del 1942, toccò a gran parte della famiglia di sua moglie Mira, di origini ebraiche, che nell’ultimo anno della guerra fu imprigionata nel campo di concentramento di Bergen-Belsen.
All’Akademija Dinko mi raccontò (una storia che poi ho letto in uno dei suoi taccuini) quando e perché aveva deciso di “rompere” con la concezione ideologica dell’arte. Nel maggio del 1946, rivolgendosi agli studenti, Milovan Đilas affermò: “Un contadino che ha combattuto nella guerra è più colto di un pittore parigino che [durante la guerra] ha dipinto”. Đilas si riferiva a Pablo Picasso che aveva trascorso i quattro anni di occupazione tedesca a Parigi.
L’ultima sera del nostro soggiorno a Parigi ci ritrovammo a cena a casa di Dinko e Mira, nel Quartiere latino. Nel corso della serata Dinko mi mostrò uno dei suoi minuscoli taccuini su cui, sin dal suo arrivo a Parigi, in quel lontano 1946, scriveva il suo Diario (un libro che non è mai uscito nella sua interezza; ad oggi sono stati pubblicati solo alcuni frammenti “per colpa” di un cugino di Dinko, Nikola Štambak, e del sottoscritto. Oggi i taccuini, in tutto ottanta, che compongono il Diario sono custoditi al museo di Imotski).
Quella sera a Parigi Dinko regalò a mia moglie e me una copia del suo romanzo Mulci [I muli], pubblicato a Spalato nel 1986 e una copia di un suo libro di ricordi d’infanzia trascorsa a Imotski intitolato Oko Modrog i Crvenog jezera [Intorno al Lago Blu e al Lago Rosso], uscito nel 1997. Ci mostrò anche un libriccino a cui teneva molto, una sua traduzione in francese di alcune canzoni popolari serbe e croate.
Uscendo dal palazzo in cui vivevano Dinko e Mira in una via intitolata ad André Thouin, botanico francese (Dinko conosceva perfettamente Parigi), appena chiuso il cancello udimmo scricchiolare una finestra. Alzando lo sguardo, vedemmo Dinko agitare la mano in segno di saluto, nonostante tutti i saluti che ci eravamo scambiati nell’appartamento.
Ad aprile ricevetti una sua cartolina da Spalato. Morì poco tempo dopo. Fu sepolto al cimitero di Imotski.
Il pomeriggio di quel giorno, me lo ricordo, era limpido, non si scorgeva una sola nuvola. Una giornata mediterranea, più mediterranea di così non poteva essere. Talvolta anche il cielo tra Gibilterra, Casablanca, Genova, Spalato, Cipro e Bosforo è capace di gratificare, abbondantemente e gratuitamente, gli ammiratori del Mediterraneo, vivi o morti che siano.
Fu “colpa” di Zlatko Crnković, direttore della casa editrice zagabrese Znanje, se Dinko Štambak e io ci conoscemmo. Sul finire dell’estate del 1987 Crnković mi inviò una copia di un libro di Štambak intitolato 25 godina Pariza [I venticinque anni di Parigi]. Ancora oggi provo un entusiasmo immediato di fronte a questo diario parigino di Dinko, trattandosi di un’opera insolita che, per la sua ampiezza e profondità, oltrepassa di gran lunga i limiti del genere letterario a cui l’autore stesso ha provato a ricondurla. Un’opera che è valsa a Štambak l’appellativo di miglior conoscitore croato e jugoslavo non solo dello spirito della capitale della cultura e dell’arte europea, ma anche delle differenze tra le due Francie (quella provinciale e quella emblematica della capitale Parigi), nonché dei legami che univano i letterati e gli artisti croati alla città di Parigi. In questo libro Štambak dimostra che il poeta Antun Gustav Matoš, durante il suo periodo parigino, non si era semplicemente limitato a vivere da bohémien: leggendo e socializzando con gli artisti, “il trombettista della Senna” assorbiva intensamente lo spirito del modernismo. Su I venticinque anni di Parigi si potrebbe dire davvero molto (ancora di più sul ritratto che Dinko ci offre del suo amico, il poeta Tin Ujević, che in quest’opera è onnipresente.) Mi soffermo però, forse ingiustamente, sui ritratti di Miroslav Kraljević e Josip Račić che Dinko ci ha lasciato nel suo diario parigino, dando un’immagine dinamica dell’influenza che la capitale francese aveva esercitato sui due giovani pittori croati seguaci del modernismo. (Quella volta a Parigi Dinko mi disse di essere dispiaciuto per il fatto di non poter mostrarmi l’albergo dove il povero Račić aveva trascorso la sua ultima notte nella capitale francese.)
Nell’autunno dello stesso anno scrissi una recensione piuttosto lunga del libro di Štambak per il terzo programma di Radio Sarajevo. Poco tempo dopo, una sera, tardi, suonò il telefono. “Dinko… Štambak”.
Sì, fu davvero una sorpresa. Dinko mi chiese gentilmente se potessi inviargli una copia della recensione, poi mi disse – a dire il vero, non ricordo se lo fece in quell’occasione o durante il nostro incontro a Parigi – che anche lui provava gioia di fronte alle opere altrui ben fatte, che si trattasse di letteratura, scultura, pittura, recitazione o musica. No, in Štambak non c’era traccia di invidia nei confronti di chi praticava il suo stesso mestiere, quello dell’artista. Un simile sentimento di gioia per i successi altrui lo avvertii in una breve lettera in cui Kiš informava Štambak degli apprezzamenti che una sua traduzione di Filottete aveva suscitato a Belgrado.
All’epoca non capivo fino in fondo la posizione di uno scrittore che, dopo essere emigrato all’estero, continuava a scrivere anche nella propria lingua madre (Štambak pubblicò il suo primo libro, dedicato alla bohème parigina, a Zagabria nel 1973, all’età di 61 anni.) Dal 1992, quando giunsi in Italia, la posizione di Štambak mi era diventata sempre più chiara.
Dinko e io per un anno e mezzo intrattenemmo uno scambio epistolare. Pian piano iniziai a conoscere meglio il suo profilo creativo e intellettuale, l’inclinazione del suo animo verso il Mediterraneo, ma anche la sua passione per la traduzione dal greco antico e dal latino. Fu uno di quegli scrittori per i quali la lingua era tutto. Chi può saperlo meglio di una persona, come me, che vive lontano dai territori in cui si parla la sua lingua?
“Il celebre scrittore di aforismi tedesco Lichtenberg (XVIII secolo), che a lungo aveva vissuto a Londra, un giorno disse: ‘Sono qui per imparare il tedesco’. Non posso dire lo stesso di me, ma vi è il rischio che, perdendo la propria lingua, si finisca per perdere se stessi, come accade a molti qui”, mi scrisse Dinko in una delle sue lettere.
All’inizio del 1990 rivelai a Mira il mio interesse per i taccuini di Dinko. Lei me li inviò ingrandendo il testo (Dinko aveva una scrittura molto piccola). Mi ci volle molto tempo per trascrivere (e decifrare) il manoscritto di Dinko. Ma lo feci con entusiasmo.
Jozo Mašić, all’epoca responsabile della rubrica culturale del quotidiano sarajevese Oslobođenje, accettò volentieri la mia proposta di pubblicare alcuni frammenti del Diario (tratti dai primi sette taccuini), che uscirono a puntate nella primavera del 1991. È un gran peccato che i diari di Štambak scritti prima e durante la guerra siano scomparsi. Questi testi – come anche quelli conservati, non di rado scritti anche in francese – con tutta probabilità contenevano i semi delle future opere di Štambak.
Chissà, forse questa manciata di testi di Dinko (che riporto qui di seguito) tornerà utile a chi vuole comprendere più a fondo il periodo immediatamente successivo alla Seconda guerra mondiale, e soprattutto il rapporto tra i sostenitori del conformismo nell’arte e i ribelli che, al posto di una simulazione ideologica della libertà nel proprio paese, scelsero la vera libertà altrove. Questa vicenda però ebbe anche un effetto positivo su Dinko, rendendolo consapevole del fatto che a Parigi, in quel “villaggio meraviglioso”, aveva sperimentato un’esperienza che definirei al contempo amara e dolce. Ad ogni modo, un’esperienza fino ad allora inconcepibile: la vita in una Parigi assetata di nuove idee dopo il vuoto creato dalla guerra.
“Sono un fantasma. I monaci mi hanno insegnato a odiare la vita, i comunisti mi hanno insegnato a odiare la morte, nessuno è più armato di me…”. Parole per nulla casuali, uscite dalla penna di un uomo che con la sua piccola scrittura ha annotato anche la seguente riflessione:
“Meglio i bohémien che i cretini che governano il mondo. Meglio la libertà che la meticolosa amministrazione europea.
Quando gli sciocchi esaltano un dio
Io mi inchino davanti ad un castagno e un biancospino”.
(Il testo è accompagnato da un disegno eseguito da Dinko, raffigurante un fiore)
Se doveste recarvi a Imotski, date almeno un’occhiata al Museo civico di cui fa parte anche una stanza memoriale di Dinko Štambak. In questo spazio è custodita una parte della produzione letteraria di Štambak, alcuni suoi oggetti personali, libri, lettere, opere d’arte (anche il materiale che non è esposto al pubblico può essere consultato, compresa la corrispondenza che Štambak aveva intrattenuto con molti intellettuali del suo tempo, come Dragutin Tadijanović, Ranko Marinković, Rudi Supek…). Con il consenso della sua famiglia, il lascito di Dinko Štambak è stato trasferito da Parigi al Museo civico di Imotski grazie all’impegno di Nikola Štambak in occasione della celebrazione del centenario della nascita dello scrittore. Come spiega Nikola Štambak nell’introduzione ad una edizione speciale della rivista zagabrese Gordogan interamente dedicata a Dinko Štambak (n. 29-30, autunno-inverno 2014), la stanza memoriale dello scrittore è stata ideata da Sanjin Mihelić, curatore presso il Museo archeologico di Zagabria, insieme all’architteto Maja Huljev Ton e al designer Alen Čabrić. La famiglia di Dinko ha donato una parte dei suoi libri e riviste alla biblioteca “Antun Gustav Matoš” presso l’Università di Parigi.
Il libro di Dinko dedicato a Parigi – uno dei libri più interessanti mai scritti sulla capitale della Francia – non è mai stato tradotto in francese. (Molto tempo fa, su una rivista è uscita una traduzione italiana di un racconto di viaggio di Štambak tratto dal suo libro Talijanski puti [Le strade italiane].)
Mi sembra di udire la voce di Dinko. Se fosse qui, sicuramente mi direbbe: “Padrino, basta! Hai già abbellito abbastanza la storia!”.
Allora mi fermo qui, proponendovi alcuni frammenti tratti dal Diario di Štambak.
3 aprile 1946 Come volano i giorni!
Il primo aprile: ho ascoltato Boccherini. 2 aprile: una passeggiata sulla [Île de la] Cité, intorno a Notre Dame, con Mira e Boba. 3 aprile. Sto seduto nella stanza e in piazza intorno a me baraonda e applausi da circo. Sto analizzando la mia bohème: che cosa ho detto? La bohème romantica dal 1830 al 1835-6-7. Quando c’è troppo sangue, bisogna lasciare che si riversi sulla carta in modo che possa imprimervi parole, stile, espressioni. Da quanto tempo ormai lo sto dicendo! Ma… diavolo, perché rivelare i propri pensieri, le proprie forme, la propria pittura, le proprie ironie. Vorrei meritare talmente tanta fama che, da qualche parte in Dalmazia, vicino al mare o dietro alle montagne, piantano un pioppo cipressino sulla mia tomba… Ma a cosa servirà anche un pioppo cipressino: non potrò mai sentire l’ondeggiare delle cime dei suoi rami ai sibili della Bora, ai colpi del Maestrale, mentre lui, snello, alto, farà splendere le sue foglie come se fossero ducati d’oro. Che Dio sia con te, mio pioppo cipressino!
14 giugno 1946 Vado avanti con i miei “Vagabundi”.
Perché scrivi? – La politica internazionale – il prologo ad una nuova guerra. Gli esseri umani sono animali. Serve una rivoluzione per spazzare via tutti i fantasmi, tutte le barriere, imponendo la Dittatura della Libertà. Rendere libera l’arte, perché è l’unica capace di scongiurare la totale animalizzazione del sangue e del coltello, le fucilazioni, le torture. L’arte ha una grande missione, l’arte per l’arte più pura è mossa da una vocazione meravigliosa: sii umano! – 8 o(re). In una parte di Parigi sta piovendo. Il Sacré-Cœur è avvolto dalla foschia. Verso Neuilly si scorgono dei puntini rossastri. Rosa di sera bel tempo si spera [in italiano nel testo originale]. Il crepuscolo piovoso cala lentamente.
15 gennaio 1947 Sono riuscito a tirarmi fuori dal letto: limpidezza
Fino alle o(re) 13 alla Bibl(iothèque) Nat(ionale). Il pomeriggio, uno di quei pomeriggi parigini limpidi e miti, lo trascorro a casa, brioso, esaltato. Una forza ricolma di sole, un sole ricolmo di speranza, di gioia. Cosa ci porta l’anno nuovo? Lavoro, corro inseguendo la bohème romantica, impugno freneticamente la penna e abbraccio lo spazio vuoto. Perché io gioisco dei successi altrui, perché di fronte al successo altrui mi sembra che anch’io sia riuscito a fare qualcosa e sono felice e non muovo nemmeno la penna, ma essa sì che si muove, fugge, diventa disobbediente. Ho lasciato nel letto anche i miei “Vagabundi”! Poveri miei! (È la vita a imprimere il suo libro dentro di me, non svelo il segreto: ritengo che il libro della vita sia più importante e più prezioso di un libro scritto. Mi sto illudendo…)
L’uomo è libero (o dovrebbe essere libero) di bere il suo bicchiere di assenzio a proprio piacimento. L’unica felicità.
11 febbraio 1947
Le nebbie, la biblioteca, il lavoro. Sono arrivato a casa alle 2. Sento la testa, l’anima e il corpo pesante, la stanza è fredda. Caro Postumo, gli anni della nebbia. Sì, le nebbie, e non torneranno più. Dove sei stato? Da nessuna parte. Cosa hai fatto? Niente. Cosa porta il domani? Porta la primavera, i colori, la felicità e la silhouette di un uomo che si tormentava fin dalla più tenera età, che nelle primavere presagiva l’autunno, l’ovest, l’avvilimento, le piogge, il nero e l’assenza di qualsiasi via d’uscita. Le primavere al mare, in montagna, sulla Senna sono la cosa più bella che la vita mi abbia regalato. Quando chiedo a me stesso: cosa vuoi?, rispondo con calma e indifferenza: niente. E morirei con la stessa tranquillità con cui fumo una sigaretta. Come Ecclesiaste, dico: Vanitas. Ho visto i paesaggi più belli che esistano, ho letto i libri più belli, osservato i quadri più belli e ascoltato i suoni più belli, ho conosciuto il misticismo, il materialismo, e sono rimasto fedele a me stesso. Cos’altro c’è da vedere?
L’orologio fa tic tac, tessendo i fili del passato. Il solo pensare al fatto che sono sempre stato un pessimista, ossia un onesto critico della vita, mi riempie di serenità.
6 luglio 1947
Oggi è domenica, uh! Stamattina, ad una conferenza con il professor Marić ci siamo scervellati sulla questione del rinnovo del permesso di soggiorno in Francia (permesso per tutti), per poi discutere di arte (egli ritiene che la pittura francese moderna non abbia alcun rappresentante importante. Io: ci dica com’è la scuola “di Noè” in Jugoslavia? Dov’è e chi la rappresenta? Alcuna risposta.)
- Quando Junek si è proposto per partecipare ad una mostra a Mosca, inviando tre dipinti, la sua candidatura è stata respinta con indignazione.
- E io mi sono indignato di fronte a questa indignazione, gli ho risposto, invocando Talan, il pittore che chiede che ai pittore venga restituita la libertà.
- Da noi, essere prima di tutto un pittore non ha alcun significato.
(Ho pensato: ciò che conta di più è essere prima di tutto un poliziotto.)
Ritiene che siamo responsabili al 100% del fatto di non essere andati alla ferrovia [il riferimento è alla linea ferroviaria Šamac-Sarajevo costruita nel 1947 dai giovani jugoslavi organizzati nelle cosiddette brigate di lavoro] (dove saremmo riusciti a rimettere a posto “la morale sviata”.)
Le chiacchiere, senza via d’uscita, inutili.
“La libertà di creazione artistica”.
Il pomeriggio fino alle 5 da Mira. Ora sono a casa. Mi piacciono i pomeriggi silenziosi della domenica.
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