Il genocidio di Srebrenica, la condanna di Mladić e la più giovane vittima di quei giorni. Un commento dai toni forti - che fa riflettere e lascia l’amaro in bocca- costato al suo autore numerose minacce di morte
Quello che segue è il commento scritto da Miloš Ćirić, attivista per i diritti umani, e pubblicato dal quotidiano belgradese Danas nel giorno della sentenza di condanna all’ergastolo di Ratko Mladić, l’ex capo militare dei serbo-bosniaci e responsabile del genocidio di Srebrenica. Dopo la pubblicazione di questo testo l'autore ha ricevuto una serie di minacce di morte .
Chiudete gli occhi e immaginate una giovane di Srebrenica di nome Fatima Muhić. Ha 22 anni; capelli lunghi neri, attentamente pettinati sotto l’hijab di seta; un viso stretto e fiero. Studia filosofia a Sarajevo, è l’orgoglio dell’intera famiglia.
È semplice e spiritosa, ha molti amici. Questa mattina dorata è seduta da sola nella Baščaršija, sta sfogliando gli appunti delle lezioni, ama l’aria fresca. Respira profondamente, beve il suo caffè, accompagnandolo con un lokum alla rosa. Prende un sorso di acqua fredda, osserva le colline sarajevesi avvolte dalla nebbia e inizia a fantasticare su un viaggio a New York. Adesso guarda l’orologio, è tempo di andare. Solleva le mani sulla fronte, incornicia il viso con le dita e raccoglie i capelli sotto il velo. Manda un messaggio alla mamma, a Srebrenica, le augura il buongiorno e dice che li ama tutti. Si alza, mette la borsa sulla spalla, sorridendo si fa strada tra un gruppo di turisti e si confonde nella folla. La vedete? Adesso aprite gli occhi.
Fatima è nata a Potočari, il giorno dopo l’entrata dell’Esercito della Republika Srpska a Srebrenica. Con un caldo insopportabile, migliaia di persone in preda al panico fuggivano dall’esercito serbo – nei boschi, sui monti, il più lontano possibile, verso Tuzla. Quel giorno i serbi avevano capito bene le parole del loro comandante, pronunciate non appena il suo fetido stivale entrò a Srebrenica.
Festeggiarono e cantarono fino a notte inoltrata, mentre i loro capi preparavano la strage e ammassavano i mezzi pesanti, provenienti dalla Serbia, per la loro festa sanguinosa protrattasi per settimane. Per la caccia agli uomini nei boschi, per gli ordini “In ginocchio!”, per le menzogne “Non vi succederà nulla, uscite tranquilli”. Per le risate diaboliche sopra le teste dei ragazzi che, bagnati di sudore e urina, stavano inginocchiati, inermi, davanti agli eroi serbi; per le riprese video delle uccisioni; per quel suono cupo che un corpo privo di vita produce cadendo nell’erba ingiallita della pesante terra bosniaca.
Quell’11 luglio molte donne, bambini, anziani e ragazzi fuggirono verso la base dell’ONU [di Potočari]. Non sapevano, come potevano sapere, di essersi precipitati nella sala d’attesa della morte, verso la propria fine in una fossa comune. In quella fiumana di anime spaventate c’era anche la coraggiosa Hava con il suo pancione. Aveva paura di cadere, di essere travolta dalla folla sul suolo bruciante. Hava partorì la prima notte trascorsa a Potočari, in condizioni inimmaginabili. La notte era peggio del giorno, il caldo infernale soffocava migliaia di persone che condividevano l’orribile aria del rifugio. Diede alla luce una bambina.
Nel frattempo, a 120 chilometri di distanza, nella fetida Belgrado, i signori guardavano il telegiornale sdraiati sulle loro poltrone, ascoltando la dichiarazione del generale: “Eccoci nella Srebrenica serba. È finalmente arrivato il momento di vendicarsi contro i turchi di queste zone”. Le signore stavano portando a termine gli ultimi preparativi per la festa religiosa che si celebrava il giorno successivo, il Petrovdan [festa dei santi apostoli Pietro e Paolo]. Una settimana più tardi, il telegiornale della Radio televisione serba trasmise un discorso del deputato Vučić che, con la sua giovane voce, minacciava dalla tribuna parlamentare: “Per ogni serbo che uccidete, noi uccideremo cento musulmani”.
Migliaia di musulmani erano già stati gettati nelle fosse comuni. Una volta riempite, i corpi venivano smembrati e dispersi nelle fosse secondarie, per poi essere di nuovo dissotterrati e gettati in quelle terziarie. I serbi erano indaffarati fino alla fine dell’estate. Chi guidava le ruspe? Chi guidava gli autobus che da Valjevo, Šabac e Užice arrivavano a Potočari, da dove trasportavano le persone nelle località in cui venivano fucilate? Chi sollevava i cadaveri da terra e li gettava nelle fosse a Tomašica, Kozluk, Budak, Sangovo, Kamenica?
Il comandante di questi assassini per i sedici anni successivi al genocidio è stato sotto protezione del nostro stato, “in fuga“. Lo si vedeva spesso a Belgrado, in occasione delle partite di calcio, tra gli ospiti delle feste. Poi è sparito. Oggi sappiamo che per un certo tempo si è nascosto nella caserma di Topčider [a Belgrado]. Chi sono Dražen e Dragan? Due membri della Guardia nazionale dell’esercito trovati morti il 5 ottobre 2004 in quella stessa caserma. Il nostro stato e i media sostengono che si è trattato di un omicidio-suicidio, ma le guardie sono state uccise perché quella mattina, per caso, hanno visto il diavolo in persona. All’epoca dei fatti il ministro della Difesa era Boris Tadić.
Il generale è stato “trovato“ nel 2011 nel villaggio di Lazarevo, nei pressi di Zrenjanin. Alla polizia ha detto subito, con orgoglio, il suo vero, maledetto, nome. L’allora presidente serbo Boris Tadić ha mestamente comunicato all’opinione pubblica che l’eroe era stato arrestato. Il comandante ha subito chiesto di poter visitare la tomba di sua figlia Ana, sepolta proprio a Topčider. Ana si è suicidata nel 1994, sparandosi un colpo in testa con la pistola del papà. Girano voci che sia stato il generale a truccare il cadavere della figlia, ostruendo in tal modo le indagini sulla sua morte. Dicono che la morte della figlia lo abbia talmente scosso da indurlo a cambiare la sua “strategia di guerra“.
Vi ricordate di Fatima? Hava Muhić ha dato il nome alla sua bambina solo nel 2012, quando sono state identificate le sue ossa. Erano minuscole e mescolate con tante altre; non è stato facile trovarle né stabilire a chi appartenessero. Fatima è la più giovane vittima del genocidio di Srebrenica. Ce ne sono almeno altre 8.371, ma Fatima ebbe la vita più breve, che le fu tolta in quella infernale notte di luglio. Fatima, che oggi immaginiamo camminare sorridente per le vie della Baščaršija, morì nella stessa ora in cui nacque. Non potrà mai vedere le colline sarajevesi né bere un sorso di acqua fredda.
Hava Muhić oggi ascolta la lettura della sentenza a carico dell’assassino di sua figlia, mentre gli altri suoi assassini vivono liberi tra di noi: alcuni sono al governo, altri all’opposizione; alcuni insegnano nelle scuole frequentate dai nostri figli, altri scrivono notizie che leggiamo; alcuni sono alla guida del nostro paese.
Perdonaci, Fatima
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