Pubblichiamo il primo di una serie di tre articoli relativi all'anniversario della strage di Srebrenica
Venerdì 11 luglio 2003, ottavo anniversario. L'11 luglio del 1995, al termine di un lungo assedio, le truppe del generale Mladic irrompevano nella piccola enclave della Bosnia Orientale, dichiarata "area protetta" dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite e, sotto gli occhi dei caschi blu olandesi presenti (il "Dutchbat"), deportavano le donne e avviavano il massacro degli uomini. Migliaia di vittime - ancora oggi manca un numero preciso - seppellite in fosse comuni in varie località della Bosnia orientale, sono state identificate e riesumate negli anni successivi per essere sepolte nel memoriale edificato in località Potocari, Srebrenica, luogo delle stragi di quei giorni di luglio del 1995.
Srebrenica è il più grande massacro avvenuto in Europa dalla fine della seconda guerra mondiale, rappresenta simbolicamente la vittoria dei nazionalisti e la sconfitta delle Nazioni Unite. Per anni i/le sopravvissuti/e hanno denunciato quanto avvenuto. Recentemente (maggio 2003) due alti ufficiali serbo bosniaci accusati di genocidio per quei fatti, Momir Nikolic e Dragan Obrenovic, hanno deciso di collaborare con il Tribunale Internazionale dell'Aja raccontando nel dettaglio quanto è successo.
Le donne, deportate otto anni fa, oggi vivono ancora in gran parte in centri collettivi, rifugi di fortuna o case abbandonate nella Entità croato musulmana della Bosnia. Oggi sono poste di fronte ad una secca alternativa: rientrare nelle proprie case a Srebrenica e nei villaggi circostanti o restare nei luoghi dove in questi anni hanno cercato di ricostruire la propria vita. Per quelle che sceglieranno di restare, non ci saranno aiuti. Questa è la legge della comunità internazionale: secondo gli accordi di Dayton infatti, tutti devono rientrare nelle case che abitavano prima della guerra.
Abbiamo deciso di ricordare questo anniversario in forma insolita, pubblicando due contributi scritti da volontari italiani che vivono in Bosnia, Valentina Pellizzer e Michele Trainati, impegnati a fianco di una delle comunità di donne di Srebrenica. Raccontano come hanno vissuto queste giornate e perché hanno deciso - rispettivamente - di non partecipare e di partecipare al funerale collettivo organizzato nel memoriale di Potocari la settimana scorsa nel giorno dell'anniversario. Chiude questa serie di tre articoli la traduzione - a cura di Notizie Est - di un editoriale pubblicato nei giorni scorsi dal settimanale bosniaco Dani che descrive la situazione di Srebrenica oggi.
Ieri non sono andata a Srebrenica. Ci ho pensato ed ho scelto di non esserci. Un mio amico e' andato, mi aveva proposto di andare insieme. Ma io non potevo.
Sempre ieri nel pomeriggio, mentre sedevo a pranzo in un piccolo locale che riproduce una spazio intimo bosniaco, l'avilija, hanno chiamato da Radio Popolare. Era l'11 luglio e volevano sapere se ero la' o se sapevo di qualcun@ che fosse la'. Ho dato il numero di cellulare di Michele, il mio amico ed ho pensato, bene, essere andato servira' almeno a raccontare a chi e' in Italia come era ieri, Srebrenica.
Io ho continuato il mio pranzo, o meglio ho smesso di mangiare. Siamo uscite/i e tornando a casa in macchina, Srebrenica e' esplosa. Ero vicina al palazzetto del-bene-e-del-male dell'OHR (l'Ufficio dell'Alto Rappresentante, ndr), i veri signori di questo paese, non so se e' stato questo, la loro vicinanza, in un sole meraviglioso ammorbidito dall'aria fresca che soffia dalle montagne. Ci ho pensato adesso, ricordando. In quel momento era solo Srebrenica ad esplodere e le lacrime. E si, perche' era per questo che non ero andata, per le lacrime, le tombe, la perdita di tanta vita. Il sapere che verra' tumulata.
In questi ultimi mesi ho creata una relazione con alcune donne che vengono da Srebrenica, o meglio che sono andate via da la'. Cacciate. Queste donne, non sono LE DONNE di Srebrenica, ma sono Beherema, Muska, Munira, Zehra ed il suo cancro all'utero, la chemioterapia e la casettina nel villaggio olandese vicino a Gracanica dove e' stata trasferita, lei e altre 18 famiglie, da poco.
Una casettina bianca avvolta nel sole e in un piccolo, piccolissimo orto di sostentamento con, ad abitarla, altre ammalate e ammalati: diabete, nervi... paure e cancro, concreta e fisica malattia che si nutre della stanchezza, della apatia per una vita che sembra scorrere secondo sentieri immodificabili dalla resistenza di chi lo ospita.
E allora Srebrenica, il dolore e' una cosa privata. Per questo non sono andata, volevo che almeno il mio dolore per le loro perdite restasse privato. Non andasse a fare sfoggio con il loro, non andasse a guardarle mentre sepolgono i morti, mentre ritornano per un giorno a rivivere la perdita.
Andro' a Srebrenica ma domani, piu' avanti, in un giorno qualunque.
Ieri pero', quando Srebrenica e' esplosa; e' esplosa l'incoerenza di questa ricostruzione che vuole valutare e giudicare la serieta' della voglia di rientrare di ognuna di loro. Questa cosa immane che si chiama cooperazione, fondi per lo sviluppo, la ricostruzione ed il rientro. Da' a noi, bianche e bianchi a contratto di organizzazioni straniere, il potere di selezionare. Noi che siamo venute/i qui ad aiutare, a promuovere lo sviluppo scegliamo fra loro, chi ha veramente voglia di tornare. Chi avra' diritto al dono della ricostruzione: un dono che fara' loro rimboccare le maniche o trovare chi le rimbocchi per loro.
Fra chi ha perso qualcosa come la vita di compagni, figli, fratelli, padri, amici. Noi, per dare 9.000 Euro di media (tanto e' stimata la somma necessaria alla ricostruzione di una casa), noi che non abbiamo perso nessuno, che eravamo altrove, che a volte ma quasi mai abbiamo con le donne di Srebrenica qualcosa che somigli ad una relazione con delle persone in carne ed ossa reali e non con le beneficiarie del progetto n./codice, noi facciamo liste, testiamo serieta' e tutto per dare 9.000 euro in materiali o in casette costruite in serie, standard dell'aiuto che deve amministrare risorse limitate.
Gia' perche' laddove si cercano ancora 8.000 corpi noi selezioniamo fra le vive chi ha diritto all'aiuto del mondo civile, l'aiuto per lo sviluppo, la riconciliazione, il diritto al rientro. Ecco cosa e' esploso di Srebrenica ieri. Per questo non ero li' perche' ho lavorato alcuni anni a scegliere. Io italiana a valutare i/le meritevoli dell'aiuto disposto dalle nazioni civili e non c'era questa immane tragedia a farmi sentire la fragilita', il ridicolo. Ma ieri pensando alle mie quasi amiche, alle donne che ho imparato finalmente ad ascoltare, dirsi con la loro voce e le loro parole, sono implosa per l'assurdo di questo nostro decidere, scegliere, dirigere.
Entrare nella vita delle altre con "la dichiarazione d'intenti di volerle aiutare/sostenere fare rientrare riconciliare" e non sapere il piu' delle volte parlare la loro lingua. Entriamo noi e nell'arco della durata di un progetto chiediamo a Behrema di decidere ma ancora di piu' e soprattutto di dimostrarci che, veramente, vuole tornare. E se non ci convince, se nell'arco di vita del nostro progetto finanziato dalle nostre nazioni civili, non convince se stessa che vuole tornare e noi che vuole tornare, i fondi, queste auree riserve andranno ad altre, quelle che sono riuscite, nell'arco di vita del nostro progetto, a decidere della loro vita, ma ancora e soprattutto, a convincere noi che sono convinte loro.
Questo dover-convincere mi sembra un abuso ulteriore che la pace non avrebbe dovuto perpetrare. Questo aiuto alle nostre condizioni dopo non avere saputo dare quell'aiuto che avrebbe prevenuto (l'Unprofor, o meglio tutti i soldati, tutte quelle persone che oggi vivono le loro vite ordinarie e non sono chiamati a convincere nessuno per ottenere il diritto alla loro casa, loro che hanno scelto di comportarsi in quel modo) ecco, dopo quello, la pace di oggi costellata da questo lungo e continuamente ricordato aiuto che le nostre nazioni civili offrono alla Bosnia Erzegovina mi appaiono veramente poca cosa.
Avremmo dovuto, almeno a Srebrenica, noi ed i nostri governi semplicemente ricostruire quanto distrutto, tutte le case una per una e lasciare che il rientro avvenisse secondo i tempi di ognuna, garantendo quella pace delle condizioni esterne per la quale diciamo di essere qui.
Avremmo dovuto concedere ad ogni cittadina, la fiducia che solo lei e la sua famiglia potessero decidere se e quando rientrare, non adescarle, dilaniarle con un'offerta in scadenza.
Ma certo era troppo... la guerra non l'abbiamo fatta noi... devono imparare ad assumersi la loro responsabilita'. Gia', loro l'amministrazione della responsabilita'; noi l'amministrazione dei diritti. Come se chi controlla l'apertura e la chiusura dei rubinetti dell'acqua chiedesse, a chi beve, di avere tanta sete quanta l'acqua distribuita ma l'acqua, gia' si sa, che non basta per tutte/i e non si sa se verra' riaperta.
Nota: questo non vuol dire che non so delle responsabilita' o delle altre complessita' nazionali, regionali e internazionali. Voglio solo dire che non mi interessa la gestione di questo primo piano che fa scomparire il fatto che persone e corpi reali devono vivere scelte fondamentali della loro propria vita seguendo la procedura razionalizzante della griglia del quadro logico che mette in primo piano lo strumento tecnico del progetto con tempi di rendicontazione ordinati secondo gli anni finanziari anziche' la finalita' di un ritorno, una restituzione simbolica e reale del/nel luogo da cui queste donne, esseri umane ogni giorno vive e reali, sono state scacciate ed hanno perso, loro tutte insieme, 8.000 altri esseri con i quali felicemente o infelicemente condividevano, lo riscrivo ancora, la loro propria ed intima vita.
Valentina Pellizzer
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