Un viaggio a Sarajevo di una nostra lettrice, in occasione della visita del Papa, lo scorso 8 giugno. Per non dimenticare, per perdonare
C’è un uomo vestito di bianco, che attraversa la città. Una terra emozionata e incuriosita, ferita e ricostruita. Le mani si alzano, i cellulari fotografano. E’ un minuscolo puntino bianco che si muove tra la folla, tra gli applausi scroscianti, in un contorno di emozioni uniche e indescrivibili.
Siamo a Sarajevo, ed è la quinta volta che veniamo a respirare questa città, che ci guarda, e ci chiama, e ci parla perché ha sempre qualcosa da raccontare. Partecipiamo deliberatamente ad una dichiarazione di pace in un clima di guerra, ascoltiamo un invito al perdono, dopo vent’anni di pretesti e moralismi.
E’ il papa che abbraccia una città, un popolo intero, una terra che si è rimessa in piedi da sola, dove risuona un eco labile, un richiamo all’Europa che, ancora una volta, è troppo lontana per sentire.
Una città che convive con molti amici e molti nemici, dove la pace traballa un po’ di qua e un po’ di là, ma, nonostante tutto, resta in equilibrio, perché la tolleranza e la convivenza di culture che a volte si amano e volte mal si sopportano, ma che non potrebbero esistere una senza l’altra, vanno avanti per la loro strada, ignorando i richiami di chi vorrebbe una terra a senso unico, di chi sparla di pace e giustizia fomentando odio.
Questa città che canta e ci guarda, che ci invita ad attraversarla in lungo e in largo, tra le moschee, e i cimiteri, mentre le campane suonano. Mentre le strade si svuotano e lo stadio si riempie, mentre i poliziotti attendono, e le mani pregano.
Sarajevo che ha memoria e non dimentica la propria storia, che ama, che tollera, che piange, e che oggi si fa bella davanti tutti. Un filo di rossetto, e una goccia di profumo, perché qui c’è un sacco di bella gente che non si è mai arresa. Questa città dei fiori di primavera, la prima generazione post-guerra che con fatica semina la pace, dove si costruiscono ponti che uniscono, e non muri che isolano. I muri, oggi, sono là accanto.
Tra queste montagne che custodiscono come un tesoro la valle, scavata da un fiume dolce come il latte, eccole migliaia di persone in trepida attesa, vestite del sorriso dei giorni migliori, in cerca di una parola che, forse, almeno per un momento, possa lenire il loro dolore. Il papa ha deciso, quella parola oggi è pace.
“Mir Vama” risuona dappertutto, nel Palazzo Presidenziale, nei settantamila dello stadio Koševo, che ha visto morte e disperazione e oggi vede mani che si salutano, occhi che piangono, ma cuori che battono. Nel Centro Francescano, e chissà che gioia con i giovani al Centro diocesano “San Giovanni Paolo II”. Ne arriva l’eco anche a Maršala Tita, nella Fiamma Eterna, nella Piazza degli Scacchi, in una Baščaršija, per una mattina semi deserta.
Oggi, davvero, abbiamo respirato solo pace, e amore, e dolore che piano piano si attenua, ma rimane sempre vigile a preservare la memoria. Perché un popolo senza memoria è un popolo senza futuro. Ma non qui, in mezzo ai fiori di Sarajevo. Qui la storia è dappertutto. Tra la gente. Che prega, che ascolta, che sorride. Tra i giovani, più spensierati di vent’anni fa. Negli occhi del cameriere che ha combattuto nell’Armija per difendere la sua amata città, e che oggi ci sorride, e ci dice che si, si può vivere tutti insieme, musulmani, cattolici e ortodossi. E non basta la crisi, le difficoltà, la corruzione che i media ci raccontano, perché niente rovinerà questa giornata bellissima. Perché sentiamo la voglia di andare avanti. Perché al posto dei cecchini ci sono i fiori, ci sono le bandiere che sventolano ovunque e ci ricordano quanto sia difficile mantenere la pace, noi che troppo spesso dimentichiamo quanta guerra ci sia dietro ad un pizzico di pace.
Custodiamo gelosamente l’emozione di aver visto una città orgogliosa di se stessa e dei suoi cittadini, dei fedeli e dei curiosi venuti a salutare il papa, di un’organizzazione impeccabile. L’immagine di tutte quelle mani che non nascondono le ferite, ma le cuciono, giorno dopo giorno, senza aver paura di mostrarne i segni, senza nascondere le difficoltà incontrate. Quelle mani, sporche di umiltà, di dignità.
Le lacrime silenziose per le parole di Papa Franjo in Cattedrale, non dimenticare, non dimenticare mai, non per vendicarsi ma per perdonare.
Abbiamo colto anche noi i fiori di Sarajevo, conserveremo il loro profumo e ne faremo tesoro. Cascate di fiori che inonderanno le case e ripuliranno le coscienze. Noi ci crediamo. A presto Sarajevo, è primavera.
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