Le proposte di Croazia, Turchia e Grecia alla diciassettesima edizione del Film Festival di Sarajevo. La rassegna e il commento del nostro corrispondente
Nel 1995 la prima edizione del Film Festival di Sarajevo (SFF ) fu aperta da “Il palloncino bianco”, primo e bellissimo film di Jafar Panahi. Ora il regista iraniano, che nel frattempo ha vinto il Leone d’oro per “Il cerchio” e tanti altri premi, è in attesa della sentenza d’appello dopo essere stato incarcerato e condannato a non poter girare film per 20 anni (ma con il collega Mojtaba Mirtahmasb ha realizzato di nascosto “This is not a Film”, presentato a Cannes in maggio). Per perorare la causa della sua libertà, e ringraziarlo per i suoi film, più volte mostrati nell’arena all’aperto della capitale bosniaca, il festival ha inaugurato l’edizione 2011 assegnando a Panahi il premio onorario “Cuore di Sarajevo”. Poi il compito di fare accendere il proiettore è toccato a “Le Havre”, di Aki Kaurismaki, per un delizioso omaggio al cinema che fu (il realismo poetico francese degli anni ’30) e per la speranza in una società che potrà essere (l’accettazione degli stranieri). André Wilms, l’attore che interpreta un anziano che aiuta un ragazzino africano clandestino, ha accompagnato la fiaba del regista finlandese che, per una volta ha messo da parte la proverbiale cinica ironia per una fiaba miracolosa.
Fleke
Se il Sff ha un programma internazionale da applausi, in anteprima bosniaca o balcanica, (da “Habemus Papam” di Nanni Moretti, che ha fatto capolino tra martedì e ieri, a “Once upon a Time in Anatolia” del turco Nuri Bilge Ceylan, Gran Prix a Cannes), sono i film regionali al centro dell’attenzione. Il concorso lungometraggi si è aperto con l’albanese “Amnistia” di Bujar Alimani (di cui si è già scritto dalla Berlinale), il croato “Fleke – Macchie” di Aldo Tardozzi e il turco (in coproduzione con la Bosnia) “Kirik Midyeler - Broken Mussels” di Seyfettin Tokmak, tutti esordienti. “Fleke” è un “Thelma & Louise” zagrebese, un tutto in una notte per due diciassettenni che più diverse non potrebbero essere. La mora Lana proviene da una famiglia comune ed è al suo primo appuntamento con il musicista Igor, che la porta con il taxi di un amico e poi la forza oltre la sua volontà e la violenta. La bionda Irena proviene invece da una famiglia ricca e problematica, vuole vivere fuori dalle regole e vuole rapinare un tassista: alla reazione di lui gli spara con la pistola che porta con sé. Le ragazze in fuga si trovano dentro il bagno di un bar durante un controllo della polizia e decidono di proseguire insieme dopo essersi scambiate i vestiti. La scena è il punto di svolta che avvicina le ragazze, anche se le differenze tra loro restano marcate: se una è priva di scrupoli (ha solo paura di aver ucciso il tassista), l’altra resta rispettosa delle regole e, pur affermando di voler uccidere Igor, considera una parentesi la notte brava. Le due passeranno tutta la notte per strada, tra una consegna di droga, una ricetta falsa o un’irruzione in ospedale per procurarsi medicinali, una bevuta e una crisi. Tardozzi racconta una storia non nuova senza troppe pretese, con uno stile adatto ma senza vezzi. Il risultato è un film che si fa seguire, grazie anche alle due convincenti interpreti (Iskra Jirsak e Nika Mišković), senza entusiasmare.
Kirik Midyeler
Due ragazzini che arrivano a Istanbul da un paesino con la speranza di raggiungere la Germania dove vivono i loro cugini è “Kirik Midyeler”. Alloggiati insieme ad altri disgraziati in cerca di fortuna, cercano di vendere molluschi sulla spiaggia e per strada, disturbati da altri giovanissimi, e svolgono lavoretti (fare consegne, pedinare una ragazza) per un delinquente di quartiere. Piano piano fanno amicizia con una donna rifugiata bosniaca e sua figlia Elma, di 13 anni, che è malata di cuore. Hakim e Faysal cercano di procurarsi i soldi per raggiungere il paese dei sogni, uno rubando appena può, l’altro mantenendo sempre un comportamento onesto e cercando un lavoro vero finendo sempre fregato. Intanto Medina, la mamma di Elma, cerca di procacciarsi i soldi per far operare la figlia ma venendo tradita. Ai tre ragazzi non resta che stare insieme e cercare di andare avanti. Una storia di speranze, di amicizia, ma anche di dolore, di solitudine, di difficoltà durissime per dei ragazzi, però lo svolgimento è abbastanza prevedibile e scolastico anche se alcuni momenti sono molto intensi.
Wasted Youth
Difetti simili a quelli del greco “Wasted Youth”, di Argyris Papadimitropoulos e Jan Vogel, dove due storie corrono parallele per poi sfiorarsi nel finale. È estate. Da una parte c’è un poliziotto che fa i turni di notte, è stressato per mille cose, non riesce a fare sesso con la moglie, ha difficoltà di comunicazione con la figlia quattordicenne e sta per ritirarsi dall’affare di aprire una pizzeria con un amico. “Non è il momento, con la crisi che c’è”, spiega. Ma la vita è irrimediabilmente triste. Dall’altra c’è un adolescente skateboarder che, durante le vacanze, preferisce dormire nella villa di un’amica dei genitori dove può divertirsi nella piscina vuota. Sua madre è malata in ospedale, ma la sua preoccupazione principale è perdere la verginità. In una lunga notte in motorino (in tre e senza caschi) tra feste, musica e giochi, il ragazzo finirà con l’imbattersi in un incidente che l’atmosfera tesa e il montaggio in parallelo facevano prevedere. Se i destini sono intuibili (ma c’è una piccola sorpresa e qualcosa resta in sospeso), resta la sensazione di giovanissimi incolpevoli alle prese con qualcosa di molto più grande di loro e con una violenza preesistente. Un ritratto del Paese, ma con il difetto di buona parte del cinema greco recente, cioè quello di essere un po’ troppo programmatico: da “Kynodontas” allo stesso “Attenberg”, il migliore del gruppo, l’intenzione di denuncia è più forte di quanto riveli la storia stessa e il suo racconto.
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