Meša Selimović

In occasione della presentazione a Rovereto, sabato 11 giugno, dell’edizione italiana del romanzo L’isola di Meša Selimović, una riflessione sull’autore e sui suoi romanzi

10/06/2016 -  Giuliano Geri

La letteratura dei Balcani, con alcuni grandi classici ma anche con una fitta serie di opere minori, costituisce in buona parte uno dei più prolifici e armonici incontri tra Occidente e Oriente, una fusione tra mondi culturali assai distanti tra loro. Al di là delle suggestioni esotiche riservate da quell’inesauribile patrimonio che è la narrazione orale di stampo orientale, tramandato di generazione in generazione e trasferito alla prosa scritta, a esercitare fascino e seduzione nel lettore europeo è un vero e proprio connubio spirituale che trova nell’arte del racconto la sua massima espressione estetica. Per comprendere l’arcana e feconda commistione di elementi presente nella migliore letteratura degli slavi del Sud, valgono, più di qualsiasi saggio critico o contributo accademico, le parole della grande scrittrice serba Isidora Sekulić (1877-1958): «In Occidente il racconto è soprattutto un’idea, un piano, è narrazione, spirito, stile; in Oriente è soprattutto magia. In Occidente i racconti più belli vengono narrati dagli artisti; in Oriente da eremiti, stregoni, saggi, santi [...] La novella occidentale è innanzitutto un frammento di vita, è studio, verità, documento. Quella orientale, anche quand’è contemporanea, è soprattutto un “tessere silente”, un incantesimo, fantasia e quadro ricco e colorato, [...]sussurro di segreti profondi».

Uno degli esempi più prodigiosi di questa “tessitura silente” che si fa poetica, modello compositivo e viaggio nella psicologia umana è offerto, nella letteratura contemporanea, da quella Spoon River balcanica che è il florilegio Hauzmaistor Šulc. Il custode della memoria (a cura di Ljiljana Avirović, Scheiwiller, 2004) di Miljenko Jergović, un poema corale da cui prende forma la storia di un’intera comunità. Nella sua ricca produzione in prosa Jergović si conferma del resto un “classico moderno”, l’epigono di una lunga tradizione narrativa che trova nella letteratura serba e bosniaca del Novecento le sue testimonianze più riuscite.

Meša Selimović

È in questo orizzonte tematico e semantico che si colloca uno dei più grandi scrittori europei del secolo scorso, Meša Selimović (1910-1982). La sua complessa figura di intellettuale va ricondotta non solo in un tormentato percorso spirituale e creativo, ma in una serie di vicende personali che influirono in maniera decisiva sulla sua attività letteraria e sullo stesso tessuto narrativo dei suoi romanzi. Nato a Tuzla, partecipò alla Resistenza contro i nazifascisti maturando successivamente un atteggiamento critico, e talvolta apertamente polemico, nei confronti delle istituzioni culturali della Jugoslavia socialista e del conformismo ideologico delle élite, che gli procurò per molti anni una sostanziale emarginazione dalla vita accademica e dal dibattito pubblico. Solo con l’uscita, nel 1966, di quello che è riconosciuto unanimemente come il suo capolavoro, Il derviscio e la morte (la prima edizione italiana, a cura di Lionello Costantini, è del 1983, ripresa poi da Baldini Castoldi Dalai nel 2008 e nel 2014), la critica riconobbe, pur tardivamente, lo straordinario valore di Selimović, riservando all’opera un’accoglienza entusiastica, e tuttavia inserendola in prima battuta, e in maniera grezza e semplicistica, nella categoria di “romanzo storico”.

Il protagonista del romanzo è Ahmed Nurudin, sceicco dell’ordine dei Mevlevi, che al tempo della dominazione turca vive in una cittadina di provincia della Bosnia, relegato all’interno di una tekija, una sorta di monastero dove i dervisci conducono la propria esistenza votata all’ascesi mistica e le proprie cerimonie rituali. Il suo universo spirituale, fatto di verità eterne e di principi assoluti codificati dai versetti del Corano, comincia a vacillare nel momento in cui il fratello viene imprigionato e arbitrariamente condannato a morte dalle autorità locali, sentenza approvata dal cadì, il magistrato incaricato di applicare il diritto canonico islamico. Assistiamo così a una conversione a rovescio: un improvviso desiderio di ribellione e di vendetta, e un implacabile sentimento di odio si impadroniscono di lui, lo sottraggono all’autoreclusione contemplativa e lo spingono a manifestare i più bassi istinti terreni, compresa la volontà di servirsi degli stessi strumenti del potere e delle stesse pratiche del sopruso per imporre la propria giustizia.

Nella vicenda del derviscio e nella sua confessione in prima persona si cela, nemmeno troppo segretamente, quella matrice biografica che contrassegna una sostanziosa parte del corpus letterario di Selimović. In questo caso la sorte tragica toccata al fratello Šefkija, ufficiale partigiano come lui, fucilato dai suoi stessi compagni per futili motivi (un furto di suppellettili in un magazzino di beni popolari). L’episodio generò nello scrittore un trauma irreparabile e una radicale disillusione che lo avrebbero accompagnato per il resto della sua vita. D’altronde, fu proprio Selimović ad alimentare, soprattutto nelle Memorie [Sjećanja, 1976], una certa ambiguità e a coltivare una reticenza vagamente ironica a proposito della frequente compenetrazione tra frammenti autobiografici e materia narrativa su cui molti critici insistevano. «Io credo che nel romanzo sia tutto personale, indipendentemente dalla questione se esso sia una autobiografia oppure la biografia di un altro» ebbe modo di affermare in un’intervista. «Lo scrittore deve sperimentare tutto, se non come fatto, almeno come possibilità, come emozione. [...] L’opera letteraria non dev’essere ricollegata alla biografia dello scrittore. Essa deve avere la sua propria vita, il suo proprio destino, il suo valore, indipendentemente da qualsiasi altra cosa. Io non voglio in alcun modo collegare il romanzo con la “fattografia”, vale a dire con le fonti dalle quali ha potuto eventualmente trarre origine. [...] Tutto è frutto dell’immaginazione, ma l’immaginazione deve creare su qualcosa che è stato sperimentato».

Il grande successo di pubblico ottenuto dal romanzo portò la critica ad approfondire la ricezione dell’opera e a cogliervi non soltanto la monumentale cronaca di un’epoca storica, ma quegli universali caratteri umani che sono tipici di un romanzo esistenziale. Dietro i costumi, gli emblemi e le consuetudini di un tempo remoto emergono insomma i dubbi e le inquietudini dell’individuo contemporaneo, questioni sociali, politiche e culturali assolutamente attuali. Caratteristiche simili, ma in una costruzione psicologica ancor più complessa, le ritroviamo nel successivo romanzo di Selimović, La fortezza (traduzione di Vesna Stanić, Besa, 2007), pubblicato nel 1970.

Nella turbolenta Sarajevo del XVIII secolo, teatro di epidemie e di violenze, e nella cornice del conflitto russo-turco che ha prodotto una classe emergente di commercianti arricchitisi senza scrupoli e profittatori di guerra, la figura del reduce Ahmet Šabo è per certi versi complementare a quella del derviscio Narudin. Uomo mite e silenzioso, di intaccabile integrità morale, è testimone anch’egli di un potere arbitrario e assoluto identificato in un edificio cupo e spettrale, la fortezza appunto, dove si riuniscono oscuri dignitari che decidono della vita e della morte di chiunque si opponga alla loro autorità. Alla ribellione preferisce una dignitosa accettazione delle cose, al risentimento il calore umano, all’odio l’amore, senza peraltro mai venir meno ai superiori principi della fede e a un’incrollabile fiducia nella giustizia. Come se i valori sacri risiedessero unicamente nell’individuo e nelle sue azioni, come se un’esistenza autentica dovesse sempre fare i conti con la sottomissione a un potere: «Ogni comunità, ogni ideologia e ogni Stato sono una fortezza a sé stante». Anche in questo caso è inevitabile non leggere in filigrana il destino stesso dell’autore.

Un destino ‑ qui più specificamente letterario – in tutto e per tutto analogo a quello di un altro grande del Novecento, che con Selimović condivide temi, ambientazioni, procedimenti narrativi, ovvero Ivo Andrić. Come nella ricezione dell’opus di Andrić i romanzi e i racconti più celebri – quelli che vanno a delineare una sorta di cosmogonia della Bosnia ottomana e asburgica – hanno fatto ombra a testi più introspettivi, intimi, lontani dai profondi sguardi sulla Storia (desideriamo qui ricordare le raccolte di racconti recentemente pubblicate in Italia a cura di Božidar Stanišić, La donna sulla pietra e Litigando con il mondo, entrambe nella traduzione di Alice Parmeggiani, Zandonai, 2010 e 2012), anche per Selimović esiste una produzione narrativa considerata impropriamente “minore”, in cui l’elemento “orientale” cede il passo a dimensioni più familiari e domestiche, a figure umane che la penna dell’autore sembra riscattare da un inevitabile oblio. Tra questi vogliamo citare il romanzo Silenzi [Tišine, 1961, con un’edizione riveduta nel 1966], che ha per protagonista un ex partigiano che esce stremato e moralmente sconvolto dalla Lotta di Liberazione e fa fatica a trovare una sua collocazione nella Jugoslavia del Dopoguerra, o l’incompiuto e postumo Il cerchio [Krug, 1983], dove Selimović analizza, con un piglio quasi profetico, le degenerazioni dell’apparato burocratico socialista e l’influenza esercitata da oscuri funzionari in cui è dato cogliere i prodromi della futura, drammatica dissoluzione politica. Con un interrogativo morale di portata universale: «Abbiamo il diritto di sacrificare uomini, quali che siano i nostri fini?»

L’isola

A questa produzione è stata per molto tempo ricondotta un’opera dalla composizione solo apparentemente frammentaria, un romanzo in forma di racconti che ha avuto una lunga e tribolata gestazione (fu oggetto di un tentativo di parziale censura politica, cui l’autore si oppose strenuamente e con successo) e un’iniziale attenzione di pubblico e critica ben inferiore al suo effettivo valore letterario. Stiamo parlando de L’isola (1974), che, a distanza di oltre quarant’anni dalla sua prima apparizione a Belgrado, ha visto finalmente la luce in edizione italiana per i tipi di Bordeaux (traduzione di Dunja Badnjević e Manuela Orazi, 224 pp., € 16,00), grazie al pregevole lavoro di curatela dello scrittore Božidar Stanišić, e di cui è stata recentemente pubblicata un’ampia e puntuale recensione.

In un’isola dell’Adriatico senza nome e senza una precisa collocazione geografica gli anziani coniugi Marić conducono una vita grama e ritirata. La loro quotidianità è scandita da attività ripetitive e perlopiù silenziose, da un dialogo paralizzato dalla solitudine interiore e dai rintocchi profondi e ossessivamente puntuali di una memoria intrisa di amarezza e rimpianto. Nell’apatia e nel senso di vuoto attraversati da oscuri presentimenti («è meglio che accada qualcosa di spiacevole piuttosto che il nulla») si insinuano figure in bilico tra il reale e l’immaginario, creature fantasmatiche dall’inusitata incantevolezza o dalla parvenza lugubre, che provocano bruschi sussulti di desiderio, di nostalgia o di rimorso, alimentando sogni a occhi aperti o paure immotivate (che sono le più pericolose). «Abbiamo bisogno l’uno dell’altra, noi due. Non abbiamo nessuno. Non abbiamo neanche noi stessi»: Ivan e Katarina, entrambi ostaggio dei ricordi e del passato, e alla disperata ricerca di sopravvivere alla propria insignificanza, sono vincolati da un legame reso indissolubile dalla vecchiaia vissuta come una continua, dolorosa sorpresa. Su di loro, sulla loro esistenza, sugli ininterrotti flussi di coscienza che lasciano filtrare all’esterno solo parole scarnificate, si staglia, implacabile, l’ombra della morte, una presenza-assenza che tutto avvolge e a tutto dà significato. La libertà, umana e animale, ridotta a pura illusione, la ricerca di verità che si incaglia fatalmente in un “così è se vi pare” (emblematico il racconto dal titolo La donna pallida), ma soprattutto il mistero che circonda le vicende umane ripropongono quegli echi dostoevskijani presenti in tutta l’opera di Selimović, in questo caso resi ancora più espliciti da un rimando diretto a Delitto e castigo.

Insieme al penetrante sguardo psicologico, la prosa e il ritmo de L’isola ne fanno senza dubbio uno dei più bei romanzi della letteratura jugoslava. Un incedere narrativo di grande respiro crea atmosfere sospese che dilatano una scenografia naturale di cui Selimović, con un magistrale tratteggio pittorico, rende tutta la vibrante e selvaggia bellezza: il chiarore lunare, il gonfiarsi del mare, la superficie cangiante del cielo, l’abbagliante intensità della luce estiva o il soffio gelido della bora. L’isola diventa, letteralmente, luogo di “isolamento”, esattamente come lo è la tekija del derviscio e la fortezza di Sarajevo. Ivan Marić è, a suo modo, un reduce della vita, come lo sono Ahmet Nurudin e Ahmet Šabo. In questo senso, rendendo giustizia alla grandezza di questo romanzo e sottraendolo a valutazioni critiche troppo affrettate, non si può che sottoscrivere quanto affermò a suo tempo l’insigne slavista Lionello Costantini, il quale vide ne L’isola il coronamento di una “armoniosa trilogia”.

In questo “dramma polifonico” che incarna il sentimento tragico dell’esistenza e i dilemmi universali dell’uomo («un romanzo sulla vita contemporanea» ebbe modo di definirlo, semplicemente, il suo autore), e nella testimonianza stessa della vita e dell’opera di Meša Selimović, prende sostanza il giudizio espresso da Stanišić nella sua illuminante postfazione all’edizione italiana: «Non c’è grande letteratura senza una profonda sofferenza».


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