Il decalogo di Srdjan Dizdarević, presidente del Comitato Helsinki per i diritti umani della Bosnia Erzegovina, per uscire dalla crisi politica, sociale ed economica in cui il Paese si trova dalla fine della guerra. Seconda parte del dossier sulla sinistra nei Balcani
Di Srdjan Dizdarević*, per Le Courrier des Balkans/Fondazione Gabriel Péri, 29 luglio 2008 (titolo originale: "Que devrait être une politique de gauche en Bosnie-Herzégovine?")
Traduzione per Osservatorio sui Balcani: Carlo Dall'Asta
Questa è la seconda parte del dossier sulla sinistra nei Balcani realizzato da Le Courrier des Balkans e pubblicato sulla rivista Nouvelle Fondation della Fondazione Gabriel Péri
Il pluralismo politico ha fatto la sua comparsa in Bosnia Erzegovina nel 1990. Nel quadro della vecchia Jugoslavia, la Bosnia Erzegovina ha conosciuto dei brevi periodi di democrazia pluralista tra le due guerre, ma questi periodi sono stati inframmezzati da periodi di dittatura e di sospensione delle istituzioni democratiche.
A partire dal 1945, e fino al 1990, in Bosnia Erzegovina fu istituito un sistema a partito unico, come pure nelle altre repubbliche federali che costituivano la Repubblica socialista federale di Jugoslavia.
L'instaurazione del multipartitismo è stata operata in due fasi: in un primo tempo il partito unico al potere, come pure le organizzazioni di massa - organizzazioni della gioventù, delle donne, ecc. - si sono trasformate in partiti politici. Poi sono stati creati dei nuovi partiti, alcuni dei quali facevano la loro apparizione per la prima volta, mentre altri riprendevano la tradizione di partiti politici che già in passato erano esistiti e che nel 1945 erano stati messi al bando dal regime comunista.
Così la Lega dei comunisti di Bosnia Erzegovina prese dapprima il nome di Partito socialista e poi di Partito socialdemocratico di Bosnia Erzegovina (SDP), diventando così ufficialmente il primo partito politico di sinistra sulla scena politica alla vigilia delle prime elezioni democratiche che il paese ha conosciuto, nell'autunno del 1990.
In seguito furono creati numerosi partiti che pretendevano di essere di sinistra. I più importanti, in questi ultimi diciotto anni, sono stati, oltre all'SDP:
- l'Unione socialdemocratica di Bosnia-Erzegovina (UBSD), il cui leader era il sindaco di Tuzla, Selim Bešlagić. L'UBSD si è fusa con l'SDP nel 1999;
- l'Unione dei socialdemocratici indipendenti di Milorad Dodik (SNSD), che è il più importante partito dichiaratamente di sinistra in Republika Srpska, una delle due entità della Bosnia Erzegovina che copre il 49% del territorio del Paese;
- il Partito socialista della Republika Srpska, che ha subito diverse trasformazioni e cambiamenti di leader ed è costantemente stato un partito parlamentare il cui leader e fondatore, Živko Radišić, ha fatto parte della Presidenza collegiale del Paese.
Una scena politica «etnica»
Dopo l'instaurazione della democrazia nel 1990, il funzionamento delle istituzioni si è interrotto durante la guerra, tra il 1992 e il 1995. Nove mesi dopo la firma degli accordi di pace di Dayton (dicembre 1995), le prime elezioni del dopoguerra hanno avuto luogo nel settembre 1996. Elezioni politiche e presidenziali si sono tenute anche nel 1998, 2000, 2002 e 2006. La principale posta in gioco e le divisioni non avvenivano tra diverse concezioni ideologiche e politiche, la lotta non era condotta tra destra e sinistra. Al momento dell'instaurazione del pluralismo politico, era evidente che la Bosnia avrebbe conosciuto una scena politica in cui la questione interetnica sarebbe stata quella chiave.
I principali attori della vita politica non sono i partiti politici classici, quelli che possono essere descritti come liberali, socialdemocratici, conservatori... I principali attori sono i partiti politici nazionalisti, che si rivolgono esclusivamente agli elettori appartenenti all'una delle tre comunità della Bosnia Erzegovina: serbi, croati e bosgnacchi. A parte queste tre comunità, che la Costituzione della Bosnia Erzegovina definisce come «popoli costitutivi», ci sono 17 minoranze riconosciute dalla legge sulle minoranze etniche. Una parte dei cittadini si definiscono invece come «bosniaci» nel senso di appartenenti alla Bosnia Erzegovina. Questa categoria di cittadini o, piuttosto, questa identità, non è ufficialmente riconosciuta. Statisticamente, i «bosniaci» figurano alla voce «altri».
Tutti i partiti nazionalisti, senza eccezione, hanno in effetti un programma molto limitato. Il loro fine è l'omogeneità etnica: una divisione del territorio e una privatizzazione nel quadro della transizione da un'economia di Stato verso un'economia di mercato. Questi partiti insistono sulla protezione della lingua, della cultura e della tradizione proprie dell'etnia che essi rivendicano come propria. La loro politica poggia sulla rivalità con le altre due etnie, il che ha provocato tensioni interetniche dal momento dell'arrivo al potere dei partiti nazionalisti.
La frammentazione della scena politica tra le tre etnie, seguita dalla frammentazione della società sulle stesse basi, ha lasciato uno spazio molto ridotto ai partiti politici classici, ivi compresi quelli che si proclamano di sinistra. I risultati delle elezioni illustrano questo stato di cose: tranne che in occasione delle elezioni generali tenutesi nel 2000, i partiti nazionalisti sono sempre riusciti ad ottenere dal 70 all'85% dei suffragi espressi. In questo senso, le elezioni in Bosnia Erzegovina somigliano piuttosto a un censimento della popolazione che a delle elezioni democratiche. In altre parole, la grande maggioranza degli elettori si allinea dietro i partiti politici che difendono la loro appartenenza etnica, e che hanno caratteristiche di movimenti populisti piuttosto che di partiti politici moderni. In queste condizioni i partiti politici di tipo liberale, socialdemocratico o conservatore, sono a priori marginalizzati e non hanno alcuna possibilità di successo.
La Bosnia Erzegovina è quindi un paese «pre-politico», in cui l'appartenenza etnica e i diritti collettivi prevalgono sulle scelte politiche e sui diritti individuali.
Le conseguenze della guerra
Le conseguenze della guerra sono state disastrose. Più di 100mila persone sono state uccise e 2,25 milioni di abitanti - che costituivano circa il 53% della popolazione di prima della guerra - hanno dovuto fuggire dalle proprie case. Secondo la Croce rossa internazionale, 27.371 persone risultano disperse. Per quanto riguarda l'economia, secondo l'UNDP, le perdite dirette assommano a 50-60 miliardi di dollari, e la somma delle perdite dirette e indirette, secondo questa stessa fonte, arriva a 100 miliardi di dollari. Alla fine della guerra il paese aveva perduto il 50% della sua forza economica.
Oggi il PIL pro capite è di 1.852 dollari e il 17,8% della popolazione vive al di sotto della soglia di povertà. Su una popolazione stimata di 3.800.000 persone, si stima a 999.500 il numero di persone occupate. Di queste il 33% è impiegato nel settore informale. Il tasso di disoccupazione, secondo l'OCSE, è del 16,1%.
Il paese ha una Costituzione molto complicata e complessa, il che ha generato lo sviluppo d'un enorme apparato amministrativo, che consuma il 9% del PIL. Questa amministrazione è composta da 14 governi, 180 ministri e 146 amministrazioni locali! Le spese pubbliche, compreso il costo dell'amministrazione, arrivano al 50% del PIL.
La situazione economica e sociale, tenuto conto di questi dati statistici, è molto difficile. Essa è ulteriormente aggravata dal carattere selvaggio della privatizzazione e della transizione verso l'economia di mercato. Ai tempi della Jugoslavia, l'economia non era nelle mani degli imprenditori, ma nelle mani dei dirigenti politici. La necessaria privatizzazione si svolge in un quadro marcato dalla corruzione delle élite politiche e dall'assenza di aiuti sociali mirati a proteggere i nuovi disoccupati e tutti quelli che sono stati impoveriti dalla rapidità della transizione. I nuovi proprietari non rispettano i doveri verso i loro impiegati. Le strutture di potere sono più vicine ai nuovi padroni piuttosto che ai lavoratori, i cui diritti non sono tutelati. I sindacati, in quanto forza che dovrebbe proteggere i lavoratori, sono praticamente inesistenti. A ciò si deve poi aggiungere l'assenza di politiche sociali: non esiste alcuna presa in carico dei «casi sociali» da parte dello Stato. La politica sociale, quando esiste, non è fondata su criteri obiettivi, che tengano conto dei bisogni, ma è orientata a soddisfare i bisogni degli alleati politici e dell'elettorato fedele a coloro che sono al potere.
«Normalizzare» la scena politica
Il dominio della vita politica da parte dei partiti nazionalisti non ha per unica conseguenza l'avvelenamento delle relazioni interetniche. Tenuto conto dei valori (o, piuttosto, dei disvalori) a cui sono legati i nazionalisti, diventa evidente che ogni progresso nazionale è votato allo scacco, fintanto che i partiti nazionalisti determineranno la politica del paese. «...Il valore universale e centrale per l'Europa è il cittadino, dunque l'individuo, e non il popolo né la classe sociale. Si deve constatare che la protezione del cittadino sottintende la protezione dei suoi diritti nazionali e sociali e che, al contrario, la protezione della nazione o della classe sociale più spesso esclude la protezione dei diritti dell'individuo. In Europa occidentale la vita, la salute e la dignità di ciascun individuo sono protette da un insieme di norme strettamente stabilite. Questi valori rappresentano quell'europeismo minimo a partire dal quale, da parte loro, gli Stati, le regioni e i popoli possono ognuno sviluppare le loro proprie specificità», scrive Tarik Haverić.
Prima di poter avviare un dibattito concernente l'avvenire di una politica di sinistra in Bosnia-Erzegovina, bisognerebbe in primo luogo normalizzare la scena politica, che assomiglia ancora oggi a una scena politica della metà del XIX secolo. Certo, si potrebbe anche qualificare la politica attuale come una politica di destra, che necessita di una alternativa di sinistra per rimettere finalmente il Paese sui binari della normalità. Ma ciò implicherebbe una forma di riconoscimento, una legittimazione dei partiti al potere in quanto partiti di destra, il che è ingiustificato.
È evidente che la sola volontà delle forze al potere non sarebbe di per sé sufficiente per creare una situazione politica così confusa e incongrua. La Costituzione della Bosnia Erzegovina, imposta dagli Accordi di pace di Dayton, e che non è mai stata democraticamente approvata, non riconosce come attore politico sovrano il cittadino, bensì il serbo, il bosgnacco, il croato in quanto tali. Ci veniamo dunque a trovare in una impasse: la Costituzione riduce praticamente tutto all'etnicità, e le élite al potere non cercano di migliorare la situazione. Questo circolo vizioso, per essere interrotto, deve vedere due attori prendere in mano la situazione: in primo luogo i cittadini della Bosnia Erzegovina, ossia la società civile del paese; e, in secondo luogo la comunità internazionale, tenuto conto del suo ruolo di testimone e di garante degli Accordi di Dayton.
Il passaggio da una società pre-politica a una società politica moderna non sarà facile. Le forze politiche attualmente presenti non mostrano alcuna volontà di far evolvere la società in Bosnia Erzegovina, e lo stesso vale per la comunità internazionale. Quanto agli attori della società civile, essi non sono sempre in grado di fare la differenza. La posizione dei dirigenti politici locali è chiara e non necessita di ulteriori spiegazioni. Essi sperano di mantenere i vantaggi acquisiti durante la guerra, e ogni cambiamento rappresenta per loro una minaccia. Il discorso è diverso per quanto riguarda la comunità internazionale. La sua posizione è caratterizzata dalla mancanza di una strategia chiara e condivisa riguardo alla Bosnia. Essa è, certamente, determinata a non permettere più che un conflitto abbia luogo nella regione, ma questo è l'unico punto su cui esiste un consenso tra i principali attori di quella che viene definita la "comunità internazionale". Senza entrare nei dettagli, quest'ultima agisce speculando sul futuro del Paese e prefigurando due ipotesi contraddittorie: la ricostruzione d'una società multietnica, come esisteva prima della guerra, oppure la scissione del Paese e la sua divisione su basi etniche. Ne risulta l'evidente assenza di una strategia di normalizzazione del Paese.
Infine, la società civile non ha la capacità di pesare in modo decisivo sull'evoluzione politica perché, come scrive Tarik Haverić, «l'opinione pubblica bosniaca subisce da anni una particolare lobotomia, un'abile combinazione di indottrinamento, cancellazione della memoria e distruzione delle capacità di ragionamento, il che riduce la sua attitudine a quelle reazioni collettive che dovrebbero derivare da simili circostanze».
Costruire una vera pace, democratizzare le istituzioni
Una politica di sinistra dovrebbe, in primo luogo, tener conto di due aspetti cruciali: il primo, che è essenziale, è il mantenimento della pace. Senza esagerare, la situazione attuale nel Paese può essere descritta come un cessate il fuoco stabile, il cui garante è la comunità internazionale con la presenza delle truppe della NATO. La seconda priorità dovrebbe essere un orientamento sincero e senza ambiguità verso l'integrazione nell'Unione Europea, che rappresenta, da una parte, una scelta senza alternative, e dall'altra una garanzia ad impegnarsi a favore dei valori europei. Al di fuori di queste due condizioni, senza le quali non è possibile prospettare delle soluzioni alla crisi profonda che scuote la Bosnia Erzegovina, una politica di sinistra dovrebbe porre l'accento sulla democratizzazione e sul funzionamento delle istituzioni. Attualmente le decisioni, anche quelle sulle questioni più importanti, vengono prese nei circoli ristretti dei dirigenti dei partiti politici, al di fuori dei parlamenti e senza dibattito pubblico. La questione non è solo quella della dignità dei parlamenti e dei rappresentanti del popolo: è l'essenza stessa della democrazia ad essere terribilmente in difetto.
I parlamenti, compresa la Camera dei rappresentanti dell'Assemblea parlamentare della Bosnia Erzegovina, sono lasciati fuori dal processo decisionale. Approvano le decisioni dei quartieri generali dei partiti politici che, essi stessi, non sono affatto democratici e dipendono, come regola generale, dal dirigente unico del partito.
Certo, questa democratizzazione esige anche l'apertura di un dibattito pubblico con gli attori della società civile, necessario per scegliere le soluzioni possibili. Dopo l'instaurazione del sistema politico pluralista, i cittadini sono stati chiamati a partecipare alla vita politica solo in occasione delle elezioni. Le élite politiche, nel corso del loro mandato, non hanno mai sentito l'esigenza di consultare gli elettori né di domandare la loro opinione.
Questo processo di democratizzazione sottintende inoltre la valorizzazione della posizione dei sindacati e del padronato, e le negoziazioni tra le parti sociali si devono sostituire al modo unilaterale di decidere e di dirigere proprio delle autorità politiche attuali. Non si può prevedere una politica di sinistra senza il rafforzamento delle istituzioni democratiche e senza una apertura di fatto del processo decisionale, che non può restare un monopolio delle élite politiche al potere.
La questione del rispetto dei diritti della persona è strettamente legata a questo processo, poiché è il fondamento stesso di una società democratica. Una politica di sinistra dovrebbe prima di tutto tener conto degli standard internazionali in questo campo e della Convenzione europea sui diritti dell'uomo. I principali problemi ai quali si dovrebbe prestare attenzione sono la necessità di privilegiare i diritti dell'individuo al posto di quelli collettivi dei gruppi etnici, il riconoscimento del cittadino come attore chiave e la fine delle discriminazioni basate sull'appartenenza etnica, religiosa, o di genere. Bisogna anche porre fine all'esclusione dei bambini, degli anziani, dei dispersi durante il conflitto, delle persone con handicap, degli ex-detenuti dei campi di concentramento... Tutte queste categorie sociali sono vittime di discriminazione e sono marginalizzate nella società attuale.
La Bosnia d'oggi è riconoscibile per un altro paradosso. Il potere è concentrato proprio là dove esso è molto debole o inesistente nei Paesi di tradizione democratica. Il potere decisionale e i budget più importanti si situano al livello delle due entità, la Republika Srpska e la Federazione di Bosnia-Erzegovina e al livello dei dieci cantoni della Federazione. Così, lo Stato centrale e i comuni sono gli anelli deboli in questo sistema politico. Una redistribuzione del potere è indispensabile per il buon funzionamento del Paese e per una migliore corrispondenza tra le decisioni politiche e le attese dei cittadini.
Le municipalità, dove i cittadini soddisfano circa l'80% dei loro bisogni, sono oggi ridotte a gestire funzioni simboliche e non sono neppure menzionate nella Costituzione. Il comune dovrebbe avere voce in capitolo negli ambiti della gestione del territorio, dei servizi, delle infrastrutture comunali, dell'abitazione, del mantenimento dell'ordine pubblico, delle questioni di sicurezza delle persone e dei beni, nella protezione sociale, così come in altri domini che nei Paesi europei sono riservati ai politici comunali.
Per illustrare la difficile situazione dei politici locali, è bene ricordare che le municipalità bosniache di 50mila abitanti spesso non dispongono che di un budget di due milioni di euro all'anno! La questione non consiste solo nel redistribuire il potere, ma nel riavvicinare il cittadino alla comunità locale.
Anche la regionalizzazione dovrebbe essere una delle ambizioni della sinistra. Sicuramente non si tratta di accettare le regioni fondate esclusivamente sull'etnicità, ma di basarle su criteri economici quali l'interdipendenza nel campo delle infrastrutture, dei trasporti e degli altri aspetti che definiscono una regione europea.
Lo Stato centrale e la sua organizzazione rappresentano una delle questioni chiave per il buon funzionamento del Paese, e soprattutto per il suo sviluppo economico. Il Paese è organizzato in modo tale che le istituzioni delle due entità detengono le prerogative in tutti i settori importanti. Le loro politiche non sono armonizzate, e sono ben lungi dall'esserlo. Benché allo Stato centrale, secondo la Costituzione del Paese, dovrebbero spettare per esempio il commercio estero, le dogane e gli investimenti stranieri, tali questioni restano sempre nelle mani delle autorità delle due entità, che non si separano volentieri dal potere e soprattutto dalle risorse finanziarie. Per raggiungere questo obiettivo bisognerebbe che il potere centrale, vale a dire il governo del Paese e il parlamento della Bosnia Erzegovina arrivassero a creare uno spazio economico unico per l'intero Paese, il che non è il caso attuale. Ciò implica una legislazione unica nel settore economico, che valga e sia applicabile in tutto il Paese.
Un flagello che è molto diffuso e che rappresenta un ostacolo in molti ambiti è quello della corruzione. Il Paese occupa attualmente l'84° posizione nella lista dei 179 Paesi più corrotti al mondo, segno rivelatore del posto che occupa la corruzione nel Paese. La sua onnipresenza minaccia lo sviluppo economico e gli investimenti diretti dall'estero. Essa si fa sentire nel campo dell'istruzione, della sanità, della gestione del territorio, dell'ecologia, della giustizia, della polizia, al livello dei partiti politici e dei parlamenti. Va da sé che le élite politiche vi sono fortemente implicate. Una politica di sinistra dovrebbe sbarazzarsi di questa pratica, che separa la Bosnia Erzegovina dai paesi civilizzati.
Sapendo che durante il conflitto, circa 2,25 milioni di abitanti del Paese (vale a dire il 53% della popolazione), sono fuggiti dal loro luogo di residenza, il ritorno dei profughi e dei rifugiati rappresenta una questione fondamentale. Il diritto al ritorno, il diritto alla proprietà privata, il diritto a non essere discriminati, il diritto ad una istruzione adeguata per i bambini, il diritto al lavoro, sono tutti diritti fondamentali. Dalla fine del conflitto nel 1995, solamente 600-700 mila persone sono ritornate alle loro residenze d'anteguerra. La priorità d'una politica di sinistra adattata al caso bosniaco sarebbe quella di creare buone condizioni per il ritorno degli esiliati, e soprattutto quella di esprimere la volontà politica affinché i cittadini, quali che siano le loro origini etniche, possano scegliere il loro luogo di residenza. Una sconfitta a questo livello significherebbe che l'estremismo nazionalista, i crimini di guerra e i peggiori crimini contro l'umanità sarebbero ricompensati.
Anche la questione della laicità dovrebbe far parte delle scelte essenziali della sinistra. I nazionalismi hanno trovato un terreno d'intesa con i dirigenti delle tre principali comunità religiose. I leader religiosi hanno sostenuto i politici nazionalisti e si sono direttamente impegnati nelle successive campagne elettorali. Essi hanno partecipato in modo non trascurabile al successo dei nazionalisti ai diversi scrutini elettorali. In cambio, le élite politiche hanno ampiamente aperto le porte dello Stato ai tre cleri. Da una parte lo Stato s'è impegnato a restituire alle comunità religiose i beni che erano stati confiscati sotto il regime comunista. D'altra parte, le istituzioni pubbliche sono state ampiamente aperte agli interessi del clero, e in particolare le scuole, mettendo in pericolo le conquiste del secolarismo e della sua tradizione.
Col tempo i capi religiosi hanno acquisito sempre più peso politico, al punto che la loro voce si fa sentire su ogni questione importante. Essa ha spesso un ruolo decisivo. I leader religiosi hanno una tale importanza da decidere chi sarà il leader politico del gruppo etnico-religioso di riferimento, e quale partito politico ne sarà il rappresentante. L'importanza della laicità deve poi esser vista nel contesto di una società multiconfessionale. La mancanza di rispetto per la laicità infatti, e la sua sconfitta nella pratica, implicano una forte rivalità tra le comunità religiose, cosa che contribuisce ad innalzare le tensioni interetniche e interreligiose, rimettendo ogni volta in questione la stabilità del paese.
Nel quadro della politica estera, le preferenze e le alleanze si determinano in funzione dell'appartenenza etnica o religiosa, mentre invece si dovrebbe definire una politica le cui priorità siano determinate dalla volontà di mantenere la pace e dagli interessi dello Stato. Il buon vicinato con i diversi Stati della regione, basato sui principi di Helsinki, deve essere una delle priorità. Inoltre una politica che tenga conto dell'importanza dei rapporti economici con il resto del mondo, e che risponda al bisogno d'uno sviluppo più rapido, modificherebbe la lista degli alleati della Bosnia Erzegovina per ridefinire i suoi rapporti col mondo. Il desiderio di integrazione europea e il rispetto delle istituzioni internazionali come le Nazioni Unite dovrebbero essere i princìpi più importanti, sui quali si potrebbe costruire una politica coerente, che porterebbe profitto non solamente alla reputazione del Paese, ma anche agli interessi dei suoi cittadini.
Economia, impiego e protezione sociale
In ambito economico, la prima priorità deve essere l'impiego. Le distruzioni causate dalla guerra, e la transizione verso l'economia di mercato, hanno considerevolmente aumentato il numero dei disoccupati e hanno contribuito ad aumentare la povertà. Fino ad ora la transizione è consistita nel privatizzare le compagnie beneficiarie, e ciò senza una programmazione che tenesse conto della nuova disoccupazione. Si nota una totale assenza di progetti di sviluppo, che potrebbero impiegare la mano d'opera esistente e che aprirebbero una prospettiva ai giovani.
Ugualmente devono essere modificate le politiche fiscali. Attualmente l'IVA è al 17% su tutti i prodotti, senza eccezione, e l'imposta sul reddito è al 10% senza distinzione alcuna rispetto al salario percepito. Questa politica fiscale non corrisponde affatto a quella che dovrebbe essere una politica fiscale che tenga conto dell'elemento sociale, e si situa dunque agli antipodi di una politica di sinistra. La politica fiscale è tale da beneficiare chiaramente i ricchi e sfavorire coloro i quali guadagnano da 300 a 400 euro al mese, il salario medio corrente. Bisognerebbe prevedere l'introduzione di tasse sui grandi patrimoni, cioè un'imposta sulla ricchezza.
Tra le priorità economiche dovrebbe pure figurare una riforma dell'amministrazione, dato che fino ad ora questo apparato enorme e inefficace genera i costi maggiori. Al posto di sostentare un'amministrazione pesante e inadeguata a porsi al servizio del cittadino, il bilancio dovrebbe essere ridiretto verso lo sviluppo e il miglioramento delle infrastrutture deficitarie, e rientrare così nelle norme europea. La situazione in ambito sociale è tale che la Bosnia Erzegovina occupa una delle ultime posizioni in Europa. Solo l'1% del PIL è destinato alla protezione sociale, malgrado i bisogni dettati dalla situazione economica, estremamente difficile. Deve essere creata una politica sociale che garantisca un minimo per ogni individuo, secondo dei criteri unici che devono essere stabiliti per il Paese nel suo insieme.
L'80% dei pensionati riceve un assegno che mediamente si situa tra i 120 ed i 160 euro mensili. Per la vasta maggioranza dei pensionati si tratta dell'unica fonte di reddito. Evidentemente ciò è insufficiente a coprire le spese minime per famiglia, che vanno dai 450 ai 500 euro. Il sistema pensionistico deve subire una profonda riforma, al fine di permettere una vita normale e dignitosa alle persone anziane. Benché la Bosnia non sia ancora parte dell'Unione Europea, dovrebbero fin d'ora essere introdotte norme europee per la protezione dell'ambiente. In mezzo ad altri settori, l'ecologia è l'anello debole. La prossimità con paesi sviluppati comporta la presenza di industrie inquinanti sul suolo bosniaco. Il paese sta diventando una sorta di pattumiera d'Europa, e una soluzione a questi problemi dev'essere trovata urgentemente.
In conclusione: solo una politica di sinistra può rispondere alle attese dei cittadini
La Bosnia Erzegovina ha attraversato in questi ultimi quindici anni una crisi profonda, che è stata segnata da una guerra senza precedenti in Europa dalla fine della Seconda guerra mondiale. La crisi attuale, che è una crisi politica apparentemente senza vie d'uscita, è stata provocata, come tutte le crisi precedenti, dai politici nazionalisti, che in definitiva non possono e non vogliono trovare una soluzione per il paese. I temporanei cali delle tensioni non rappresentano in effetti che dei momenti di calma che precedono nuove crisi. Per questa ragione un'opzione politica che innanzi tutto non sia basata sui nazionalismi, e che sia orientata a sinistra, potrebbe significare l'inizio della fine della crisi, e una normalizzazione a medio termine. Una politica di sinistra, perché i problemi attuali sono tali che una politica liberale o di destra non saprebbe rispondere alle attese dei cittadini. Questi hanno bisogno di una politica sociale efficace e rapida, e non possono attendere le ricadute positive di uno sviluppo economico che ha bisogno di un certo periodo di tempo per produrre degli effetti avvertibili.
Infine, la sinistra di domani deve essere gestita e promossa da uomini politici che offrano un'immagine diversa da quella delle élite attuali, figure politiche corrotte, senza grandi valori morali e senza autorità. Le future élite devono avere una reputazione basata sulle loro competenze specifiche, sulla loro istruzione e soprattutto su quei valori morali che sono gravemente mancati in questi ultimi anni, il che ha molto nuociuto all'immagine degli uomini politici e della politica in generale.
*Presidente del Comitato Helsinki per i diritti umani della Bosnia Erzegovina
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