Kukeri - © Ivo Danchev

Kukeri - © Ivo Danchev

Tra la voglia di documentare e la necessità di sognare: è in questo territorio sospeso che vivono gli scatti di Ivo Danchev, uno dei fotografi bulgari più talentuosi, che da alcuni anni si dedica anima e corpo a raccontare come cambia e si evolve la tradizione dei "kukeri". Un'intervista

11/12/2023 -  Francesco Martino Sofia

Come sei arrivato alla fotografia?

Una quindicina di anni fa, quando dirigevo un progetto di conservazione degli avvoltoi nella regione dei Balcani centrali, ho comprato la mia prima macchina fotografica. L’idea era documentare le attività principali del progetto, ma durante le escursioni montane ho iniziato a fotografare i cavalli selvaggi presenti nell’area e la vita dei pastori locali. Quasi per gioco ho spedito i miei scatti ad un importante concorso fotografico, e ho finito per vincerlo. È stato un momento di svolta, in cui ho capito di poter sviluppare insieme le mie due passioni: natura ed arte, unite nella fotografia.

Da lì le cose si sono sviluppate in fretta: nei due anni successivi ho lavorato per imparare, vincendo ancora concorsi e acquistando maggiore fiducia nei miei mezzi espressivi. Proprio allora la versione bulgara del National Geographic ha iniziato a pubblicare materiali locali, e dopo aver visto le mie foto, mi ha chiesto di gestire tali reportage come direttore artistico. Nel 2009 è così nato il mio primo reportage per la rivista, sulla minoranza dei Karakachani, che ha avuto un grande successo anche a livello internazionale, dando vita ad una fruttuosa collaborazione che continua fino ad oggi.

Nel 2015 hai deciso di trasferirti dalla capitale Sofia in un piccolo villaggio sulle falde dei monti Rodopi. Come ha influito questa scelta sul tuo modo di intendere la fotografia?

Indiani d'America - © Ivo Danchev

Prima di trasferirmi, probabilmente avevo una visione piuttosto idealizzata della vita rurale, visione che con tutta probabilità emergeva dai miei scatti. Oggi probabilmente il mio sguardo è molto più realista. Al tempo stesso però, la scelta di vivere in un villaggio mi ha avvicinato ancora di più ai soggetti ed alle situazioni che più amo fotografare.

Un certo romanticismo è un tratto fondamentale della tua vita e delle tue scelte artistiche. Romanticismo che a lungo hai coltivato nei confronti dei pellerossa americani. Cosa rappresenta per te questa comunità?

Una parte di me vive di sogni. Nella mia giovinezza ho a lungo sognato di conoscere i pellerossa, leggendo tutti i libri e guardando tutti i film su cui riuscivo a mettere le mani. A un certo punto, però ho sentito che non era abbastanza, volevo diventare io stesso indiano e nel 2004 ho deciso di andare a vivere con loro. Altro punto di svolta nella mia vita: dopo solo quattro giorni nella riserva Sioux di Pine Ridge, in South Dakota, mi sono ritrovato a fuggire nella notte perché gli indiani che mi avevano ospitato, dopo essersi ubriacati e drogati, hanno tentato di derubarmi e – probabilmente – di uccidermi. Anche qui è stato doloroso abbandonare il sogno, e rendermi conto della difficile realtà, fatta di marginalizzazione e povertà, in cui oggi vivono i nativi americani. Con questa nuova consapevolezza e una buona dose di umiltà, un mese dopo sono entrato nella riserva Crow in Montana, dove ho vissuto un’esperienza intensa e liberatoria. Ho smesso di cercare di essere un indiano, e ho sentito l’esigenza di tornare alle mie radici, in Bulgaria.

Da allora la Bulgaria è al centro della tua esperienza fotografica ed artistica. Cosa ti ispira di più della tua terra?

L’esperienza negli Stati Uniti, forse la distanza, mi ha fatto sentire un legame profondo con la mia terra d’origine. Un legame fatto di natura, di paesaggi, di persone. In questi anni ho tentato di continuare a raccontare storie di uomini e donne che – in Bulgaria – sono rimasti vicini alla terra, per arrivare infine al mio progetto sui “kukeri”, che ho lanciato con le mie prime foto sul soggetto nell’inverno 2018. I “kukeri” rappresentano un nuovo momento chiave nella mia vita professionale, perché nella loro storia si intrecciano tutti i vari interessi che ho perseguito in passato: la vita dei pastori montani, gli animali, le leggende e i miti che mi hanno sempre ammaliato e in qualche modo anche gli indiani, visto che questa tradizione antichissima è in qualche modo vicina a quella dei nativi americani e ne condivide in qualche modo lo spirito tribale. Non a caso, i miei amici indiani sono letteralmente affascinati dai “kukeri” e dalla loro storia. Una fascinazione che, nel mio caso, si è trasformata in una vera e propria ossessione che in questi anni non mi ha mai abbandonato.

Volti spaventosi e grotteschi, in grado di scacciare l’inverno e abbracciare la bella stagione. I “kukeri”, maschere carnevalesche dell’Europa sud-orientale, affondano le proprie radici nei culti dionisiaci. Una tradizione viva e vitale soprattutto in Bulgaria. Un video dagli archivi OBCT


Il reportage fotografico che hai creato sui “kukeri” per l’edizione bulgara del National Geographic ha avuto un enorme successo anche all’estero, ed è stato ripubblicato dalla rivista in 17 altri paesi, un record. Cosa pensi abbia colpito così pubblici tanto diversi?

Da una parte penso sia l’unicità di questa tradizione, così inaspettata, che riesce ad impressionare i lettori anche in un mondo così inflazionato da storie da tutto il pianeta. Dall’altra, almeno spero, metto la qualità dei miei scatti, coi quali ho cercato di raccontare il rapporto tra le maschere, la terra, gli animali e le persone che danno loro vita con una modalità al tempo stesso mistica e fiabesca, che ha toccato la fantasia e le emozioni di tanti.

Cosa hai scoperto, cosa ti ha sorpreso nel corso del tuo progetto?

Quando ho iniziato a fotografare le maschere tradizionali, sapevo molto poco di questa tradizione e delle persone che oggi la tengono viva. Durante il lungo viaggio che ho fatto per documentare i “kukeri” in tutta la Bulgaria, ho scoperto molti elementi a me sconosciuti e a tratti sorprendenti. Ad esempio, che questa tradizione ha vissuto un momento di forte riscoperta ed evoluzione durante il periodo comunista.

Kukeri - © Ivo Danchev

Le maschere odierne hanno iniziato a prendere la forma con cui le conosciamo oggi negli anni ‘60, quando sono stati organizzati i primi festival con competizione tra i gruppi partecipanti, che hanno elaborato costumi sempre più appariscenti e visionari. Fino ad allora, i “kukeri” vivevano in una dimensione molto più locale e improvvisata. Nel corso degli anni si sono rafforzate ed approfondite le peculiarità regionali delle maschere coinvolte, ed oggi la Bulgaria può vantare un’enorme varietà, che mi regala materiale fotografico ed umano complesso e multicolore.

Mi ha poi colpito toccare con mano quanto questa tradizione sia oggi vitale in Bulgaria, con quanta forza cambia e si sviluppa nel tempo e si possono addirittura individuare tendenze e mode, come quella di creare costumi utilizzando le pelli della capra lanuta di Kalofer, una razza locale che fino a una ventina di anni fa era sull’orlo della scomparsa. Oggi questi costumi – davvero impressionanti e molto belli– hanno spinto molti allevatori a reintrodurre questa varietà di capra: anche perché i prezzi e il valore sul mercato sono in continua crescita.

Nella Bulgaria moderna, che ruolo ricopre la tradizione dei “kukeri”?

I bulgari continuano a preservare alcune delle proprie tradizioni più ancestrali. Forse grazie all’isolamento e alla continuità della vita nei villaggi. Neanche la Chiesa è riuscita ad estirparle, ma si è limitata ad reinterpretarle, e a farle in parte proprie. Oggi, però, vedo nuovi elementi innestarsi su questa millenaria tradizione: avverto una necessità di cercare sensazioni positive e riaffermare la propria identità in una società, quella bulgara, che continua ad essere segnata da profondi problemi sociali ed economici. In questo senso, i “kukeri” si stanno trasformando in un simbolo di nuovo orgoglio nazionale, di unicità delle tradizioni del nostro paese, soprattutto per quella parte della società marginalizzata dai processi economici e politici.

È anche per questo che, come hai avuto modo di raccontare attraverso le tue fotografie, la tradizione dei “kukeri” sta assumendo un ruolo sempre più vivo e importante nella comunità rom bulgara?

I rom partecipano alla tradizione da molto tempo, ma nell’ultimo decennio è visibile una tendenza interessante: sempre più comunità rom creano loro gruppi folklorici autonomi. Durante le celebrazioni e le sfilate, ho notato la forte presenza di tricolori e simboli nazionali bulgari. Sono convinto che uno dei fattori in gioco sia la volontà di queste comunità di integrarsi maggiormente nella società bulgara attraverso le reti interpersonali create dai “kukeri”: qui rom e bulgari si scambiano costumi, si aiutano a vicenda, creano amicizie e collaborazione su una base più paritaria che in altri contesti.

Pastori sui Balcani bulgari - © Ivo Danchev

Il tuo progetto sui “kukeri” è un impegno professionale e artistico sul lungo termine. Che risultati vorresti ottenere?

Un primo concreto risultato a cui punto è la creazione di un libro, attraverso cui vorrei rappresentare la tradizione in tutta la Bulgaria. Ecco perché continuo a viaggiare e a fotografare. D’altra parte, però, ho deciso di lasciare le porte aperte all’ispirazione e lasciare al progetto stesso dettare i tempi ed eventuali nuove storie e nuovi obiettivi. Il mio viaggio con i “kukeri” si intreccia inevitabilmente con temi e persone che scopro strada facendo: tutta una parte della mia ricerca, ad esempio, si è concentrata sulla questione dell’abbandono delle campagne, riletto attraverso l’assenza degli abitanti e la presenza delle figure – al tempo stesso protettive e inquietanti – dei “kukeri”.


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