I paesi del Caucaso hanno straordinarie risorse, ma sono spesso bloccati dalla mancata democrazia. Una recensione
Un bel libro di viaggi in quella parte del mondo poco conosciuta come i paesi del Caucaso, dell’Asia centrale e di alcune regioni della Federazione Russa, e, pertanto, poco ancora battuta dal turismo internazionale, anche se, comunque, alcuni di questi paesi, penso all’Uzbekistan, al Kazakistan o all’Azerbaijan, ma anche all’Armenia, cominciano, in qualche modo, ad attrezzarsi. Il libro è “Esimbdè – Né Oriente né Occidente” di Christian Eccher, attualmente professore associato di Lingua e Cultura italiana all’Università di Novi Sad in Serbia, collaboratore di diverse testate giornalistiche. Il libro è edito da Ensemble per la collana Transculturazione diretta da Armando Gnisci.
Lo spettro dei paesi visitati è ampio e certamente elementi di diversità tra essi esistono, ma direi che tutti hanno una caratteristica comune per scontare il fatto di essere stati per troppo tempo parte dell’impero sovietico con le conseguenze del caso. Sul piano politico, queste sono l’autoritarismo diffuso (a capo dei rispettivi paesi c’è quasi sempre un dittatore, solo apparentemente eletto, per lo più proveniente dalla nomenclatura del Pcus, e che nei confronti dei possibili oppositori usa gli stessi strumenti coercitivi dei sovietici), quindi la scarsa libertà sul piano della democrazia politica e dei diritti, in particolare dei lavoratori, per lo più sfruttati e con ancora una forte visione dirigista statale che favorisce la corruzione. Più che la ideologia liberista a cui accenna Eccher, in questi paesi che vorrebbero percorrere la strada del libero mercato, vige il cosiddetto capitalismo di relazione, ovvero l’abdicazione del mercato non alla libera economia, alla reale concorrenza, bensì a uomini – per lo più ex oligarchi della vecchia Urss - legati da rapporti di interessi personali ai vari presidenti e, spesso, alle loro famiglie.
Come giustamente racconta ad Eccher, nel suo reportage sull’Armenia, Richard Giragosyan, direttore dell’ONG “Regional Studies Center”: “I governanti armeni sono dei vecchi dinosauri che non hanno idea di quello che avviene oggi nel mondo contemporaneo. I più pericolosi, poi, sono quelli che indossano abiti occidentali, parlano la stessa lingua degli europei e degli americani, conquistano il loro appoggio e le loro simpatie ma hanno una mentalità sovietica e un solo obiettivo: la presa del potere a qualsiasi costo”.
Si capisce che un’autentica economia di mercato li lascerebbe a bocca asciutta, pertanto la strada che ha portato alle privatizzazioni è tutt’altro che quella del liberalismo, bensì quella delle regalie di aziende statali dei tempi dell’Urss “vendute per pochi spiccioli” come scrive Eccher nel capitolo sul Kazakistan “a uomini d’affari senza scrupoli e vicini agli ambienti della politica i quali, anziché modernizzare la produzione, hanno preferito vendere i macchinari e guadagnare più soldi possibile in un arco di tempo molto limitato”. Cosa aspettarsi, del resto, da uomini politicamente e culturalmente nati e cresciuti in pieno regime a basso, se non a nessun tasso liberale, educati più all’esercizio del potere personale che a quello della produzione della ricchezza? Tanto più in paesi come questi che l’Unione Sovietica ha gestito centralisticamente costringendo con la forza le loro economie a seguire la volontà e gli appetiti di Mosca, sfruttandole, piuttosto che supportandole. E noto come la decisione, ad esempio, dell’Unione Sovietica di irrigare in larga scala il deserto per fare dell’Uzbekistan un grande produttore di cotone abbia portato al disastro ambientale che ha finito anche con il prosciugare il cosiddetto Lago d’Aral. Così com’è noto come il Kazakistan sia stato eletto dall’Urss, in spregio alla popolazione, come territorio per i loro esperimenti nucleari, i cui effetti devastanti sulla salute sono vivi ancora adesso.
Seppur, a parole, il sistema fosse stato finalizzato alla crescita di un’economia capace di creare le risorse necessarie a mantenere in vita, anche se con poco, un’intera popolazione, alla lunga e nei fatti, è diventato sempre meno tale proprio per la sua intrinseca incapacità di creare ricchezza, finendo col distribuire solo sempre più bassa assistenza, per altro sostenuta da debiti sempre più alti, fino alla naturale implosione, che è poi quella che ha coinvolto tutti i paesi dell’area comunista, a cominciare da quelli dell’est europeo.
Implosione che in alcuni paesi ha prodotto addirittura guerre di indipendenza come quelle della Cecenia, della quale Eccher ci presenta un reportage da Grozny, la capitale, che esemplifica molto bene come, proprio l’economia incapace strutturalmente di produrre ricchezza porti a una miseria tale da favorire nella popolazione il mostro del nazionalismo, che vede nell’altro, nel caso della Cecenia nei russi (ma, ad esempio, nella ex Jugoslavia il serbo nel croato e viceversa) il colpevole, di una causa che è invece tutta e solo economica. Situazione nella quale politici privi di scrupoli ci inzuppano il pane, diventando, ottenuta l’indipendenza, a loro volta dittatori o, comunque, capi autoritari.
Il dramma, infatti, se non addirittura la tragedia, è che si continua con un eccesso di dirigismo statalista che si ammanta delle parole “per il popolo”, ma che riguarda sempre invece il potere di una oligarchia, quando non di una persona. E’ straziante, quando non comico, quanto Eccher racconta dell’attuale presidente ceceno Kadyrov, se pensiamo alla lunga guerra dei ceceni per affrancarsi dai sovietici che tanto ci ha interessato: “Se Kadyrov va a spasso per la città, la Tv di Stato cecena mostra l’intera passeggiata, dall’uscita del presidente dalla sua dimora – un edificio che ricorda la Casa Bianca di Whashington e che si trova vicino alla City – fino al ritorno. E’ lo stesso Kadyrov a occuparsi delle riprese: con il suo telefonino, riprende il mondo intorno a sé (soprattutto i bambini che gli corrono incontro e lo abbracciano) e lo trasmette in diretta via Istagram. Kadyrov ha la barba lunga, come quasi tutti gli uomini ceceni, e veste sempre un’uniforme militare. Il leader ceceno utilizza internet per promuovere il culto della personalità di stampo sovietico. Non disprezza però neanche i metodi più antichi: su tutti gli edifici pubblici, infatti, troneggia la sua immagine” e così via, il tutto compatibilmente al suo pari, di non minore educazione sovietica e autoritarismo, Vladimir Putin, al quale è riservata l’immagine su altri palazzi e il nome dell’arteria principale di Grozny e con il quale vive in simbiosi, anche perché “Kadyrov, dal canto suo, non potrebbe governare in maniera dispotica senza l’avallo di Putin”.
E’ chiaro che le condizioni autoritarie di un paese comprendono soprattutto il controllo dell’economia, finendo per dipendere non dal mercato, come sarebbe auspicabile per favorire una sua naturale crescita, ma dalla corruzione che l’avvelena, con la conseguenza che a farne le spese, al netto delle oligarchie clientelari, sono i lavoratori che – come si evince da dai tanti incontri e racconti che l’autore ben intreccia nel suo libro - si trovano a vivere in un regime privo di diritti, di sindacati che li tutelino, di salvaguardie sociali, basate come sono le eventuali condizioni di lavoro sullo sfruttamento della persona, legato al consenso politico tramite silenzio e quietismo, pena l’esclusione dal mondo del lavoro, quando non il carcere, il gulag, la morte, secondo la peggiore tradizione (non a caso il pezzo su Tomsk, l’autore l’ha dedicato ad Anna Stepanova Politkovskaya, la giornalista che cercava di denunciare gli aspetti illiberali del suo paese). Tradizione a cui la caduta del regime sovietico e la sua sostituzione con una gestione privatistica dell’economia, ha fatto nascere il grosso equivoco secondo il quale privatizzare sia la stessa cosa che liberalizzare, il che non è in quanto il libero mercato per essere tale, autentico, e non drogato, necessita di una totale terzietà dello stato (operazione, per altro, che, come abbiamo potuto constatare, è difficile addirittura in paesi democratici come l’Italia, dove il capitalismo di relazione – dai casi di Telecom Italia a quello dell’Alitalia piuttosto che di Autostrade e, per lunghi anni, quello della Fiat - ha avuto la meglio rispetto alle leggi dell’economia di mercato privilegiando, in ragione di consensi elettorali da una parte, sindacali e imprenditoriali dall’altra, una dipendenza assistenzialista che ha coinvolto l’intera filiera produttiva finché, arrivata al suo punto di saturazione, ha finito col fermare del tutto l’economia, ingigantendo il debito del paese).
E’ legittimo aspettarsi che anche questi paesi, così ben raccontati da Eccher, dopo la crescita economica temporanea seguita alla fine della economia pianificata di stampo sovietico, rischino a loro volta di saturarsi, se continueranno a non trovare la quadra di una vera democrazia politica, capace di liberare le straordinarie risorse di cui questi paesi godono e nel rispetto delle loro precipue culture e tradizioni senza quelle violenze di cui sono stati fatti oggetto nel passato da parte di Stalin e dell’Unione Sovietica e con la creazione di un capitalismo di rapina molto più simile, temo, a una sorta di banditismo di Stato piuttosto che a una idea di economia liberale, alla quale qui, proprio per la presenza di questo, non è concesso di esistere.
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