Recensione del volume dello storico Ivo Goldstein sul complesso concentrazionario di Jasenovac. Una pubblicazione esaustiva, utile a smentire le tesi pretestuose che hanno ripreso a circolare negli ultimi anni
Goldstein è trasparente, nella conclusione dell’opera, nel descrivere le motivazioni che l’hanno spinto alla scrittura, ovvero che il fine di questo libro è prosciugare lo spazio a disposizione delle menzogne su Jasenovac, come anche presentare ai lettori motivati la verità su questo campo di sterminio, dal momento che, come ha ben detto Ilija Jakovljević, in futuro nella letteratura sui campi ustaša “non dovranno esserci invenzioni, perché neppure una fantasia di Poe o Maupassant potrebbe raggiungere ciò che qui è stato compiuto da uomini del tutto comuni” (p. 800).
In questo senso, la ponderosa opera di ricerca e riepilogo dei numerosi studi già disponibili sul principale complesso concentrazionario allestito nello Stato indipendente di Croazia (Nezavisna Država Hrvatska – NDH) viene opportunamente a fare il punto sugli studi dopo un decennio in cui sono fiorite numerose pubblicazioni, polemistiche fin dai titoli come “La menzogna di Jasenovac smascherata” o “Il mito su Jasenovac”, finalizzate a ridimensionare le responsabilità storiche del regime di Pavelić.
Si tratta di pubblicazioni che, prescindendo da un esame critico delle fonti, si concentrano su testimonianze aneddotiche di relativa mitezza delle condizioni di prigionia e rigettano la storiografia del periodo comunista come quella prodotta dagli ambienti collegati alle vittime accusandola di politicizzazione. Questi atteggiamenti, inoltre, hanno innescato all’interno delle istituzioni croate una serie di gravi conflitti, il cui sintomo più evidente è il rifiuto delle associazioni delle vittime a prender parte alle commemorazioni istituzionali ufficiali a Jasenovac.
Goldstein, già occupatosi dell’argomento in varie occasioni sia da solo che assieme al padre Slavko, con questa consistente monografia aggiorna i contributi effettuati finora e giunge ad un’ottima sintesi tra materiali d’archivio – tra cui sono preminenti quelli di provenienza ustaša conservati all’Archivio nazionale di Croazia (HDA) –, l’abbondante letteratura scientifica già disponibile sul tema, opere memorialistiche e testimonianze dirette. Rispetto a queste ultime due categorie, preme rilevare che l’autore vi si approcci con grande scrupolo, incrociandole sempre con altre fonti e segnalando eventuali incongruenze.
L’opera è organizzata attorno a dieci nuclei tematici. Dopo una lunga introduzione, che funge anche da nota metodologica, si affrontano i preparativi effettuati dal regime di Pavelić, a livello istituzionale e pratico, per la costruzione del campo. Segue una dettagliata descrizione delle strutture, specificità e funzionalità delle cinque unità che formarono il complesso concentrazionario di Jasenovac, tra cui quella di Stara Gradiška.
A partire dalla quarta sezione, “affrontare il terrore di Jasenovac”, vengono descritte le cause e modalità di deportazione delle vittime e le condizioni di inserimento nel campo. La quinta sezione, di oltre ottanta pagine, descrive quindi dettagliatamente le varie categorie di prigionieri, da coloro i quali vennero deportati per motivazioni etniche – ebrei, serbi e rom – agli associati alle varie strutture del Partito comunista jugoslavo, fino agli oppositori politici non comunisti (esponenti della vita politica croata prebellica di cui il più insigne fu Vladko Maček) che poterono godere di un trattamento privilegiato.
Il consistente sesto nucleo, “tortura, uccisione, morte” affronta le varie modalità, spesso efferatissime, di eliminazione fisica dei prigionieri, le relative strutture e logiche sottostanti, come anche le modalità di liquidazione dei cadaveri, tra cui l’utilizzo del “forno di Picilli”, un rudimentale crematorio attivo per alcuni mesi all’inizio del 1942. In questa sezione trovano anche spazio, nel capitolo »Gerarchia criminale« (p. 368) le biografie delle principali personalità coinvolte nel funzionamento del campo.
La settima sezione, “cronologia dei crimini”, affronta i principali eventi che hanno scandito l’amministrazione del complesso concentrazionario, tra cui, nel febbraio 1942, la visita della commissione formata da delegati tedeschi, italiani, ungheresi e della Francia di Vichy (pp. 500–504) e l’internamento di quote crescenti di popolazione serba man mano che gli ustaša rispondevano alla crescente attività partigiana nel territorio della NDH deportando, con maggiore intensità a partire dal 1943, la popolazione di interi paesi.
Una sezione apposita trae l’abbrivio dall’allontanamento di Maks Luburić, capo del III ufficio del Servizio di sorveglianza ustaša, deputato al controllo di tutti i campi di concentramento dell’NDH, per descrivere il relativo miglioramento delle condizioni di vita dei prigionieri tra la fine del 1942 e l’aprile 1944, allorché l’influenza di Luburić riprese a crescere. Dal momento che proprio al periodo in questione, in cui nel campo si disputarono tra le altre cose partite di calcio e vennero organizzate presentazioni teatrali, risalgono le evidenze aneddotiche che vengono presentate dai polemisti per negare la portata di quanto avvenuto a Jasenovac, il lavoro di inquadramento e spiegazione svolto da Goldstein riveste grande importanza.
La nona sezione, intitolata “Jasenovac e il mondo fuori dal campo” ricostruisce, in linea con le più recenti tendenze della storiografia di genere, sia le reti organizzate dai prigionieri per ottenere informazioni dal mondo esterno che la percezione del campo all’estero, e in particolare in Vaticano. La decima sezione, quella conclusiva, oltre a descrivere la chiusura del campo nell’aprile 1945 e la fuga dei prigionieri superstiti il giorno 22 di quel mese raccoglie una serie di brevi biografie (67) di vittime.
L’opera di Goldstein, complessa quanto ricca, oltre che coraggiosa, non rinuncia ad affrontare quegli elementi della storia di Jasenovac che, nel dibattito pubblico, hanno causato maggiore criticità. Anzitutto il ruolo della Chiesa cattolica croata e quello personale dell’Arcivescovo di Zagabria Alojzije Viktor Stepinac, rispetto al quale l’autore, aggiornando il giudizio espresso a suo tempo dal padre Slavko che aveva attribuito al prelato un certo coraggio, scrive che “il coraggio l’arcivescovo Stepinac l’ha mostrato in maniera molto più coerente e chiara dopo il maggio 1945 che prima”, riferendosi all’opposizione al regime comunista.
Un’altra delicata questione affrontata in maniera ineccepibile è quella relativa al numero delle vittime. Il fatto che nel periodo socialista esso fosse convenzionalmente fissato nella cifra esagerata di 800.000 ha infatti finito per costituire un ostacolo alla ricerca. In un paragrafo espressamente dedicato a questo annoso problema (p. 772), Goldstein parte dalle 81.998 vittime registrate nominalmente nel 2011 dall’Ente pubblico area memoriale (JUSP) di Jasenovac per concludere che, sebbene la lista “non sarà mai definitiva”, a perdere la propria vita a Jasenovac furono tra le 90.000 e le 100.000 persone. In conclusione, l’ampio volume di Goldstein si propone, con l’impressionante mole di dati e fonti impiegate e una rimarchevole complessità strutturale, come pubblicazione esaustiva sulla tragedia di Jasenovac, pietra angolare degli studi utile a smentire le tesi pretestuose che hanno ripreso a circolare negli ultimi anni.
* Federico Tenca Montini, assegnista di ricerca presso l'Università di Trieste e autore di svariati saggi su riviste scientifiche italiane, slovene e croate
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