Incontri, festival e pubblicazioni segnalano la riscoperta del grande scrittore croato. Dopo un ostracismo durato due decenni, Krleža è ritornato e i suoi personaggi affollano le nostre strade
Centoventi anni dalla nascita di Miroslav Krleža (1893-1981) non sono un pretesto soltanto celebrativo per l’incontro con l’opera e la vita del più grande scrittore croato, uno dei massimi rappresentanti della letteratura europea del Novecento. Due anni fa, in occasione del trentennio dalla morte, il ricordo di Krleža non era rimasto circoscritto alla Croazia e alla nativa Zagabria dove, da alcuni anni, nella villa Rein, in via Krležin Gvozd, c’è uno spazio dedicato allo scrittore e alla moglie Bela, attrice. Tutti i teatri dell’area ex jugoslava, in particolare sloveni, serbi e bosniaci, avevano realizzato omaggi al grande autore per il quale, nell'occasione, era stato prodotto anche un documentario (Interfilm Zagabria, regia di Željko Senečić).
Ora, a 120 anni dalla nascita, si nota nuovamente una grande attenzione nei suoi riguardi e, di nuovo, non solo in Croazia. Festival teatrali, conferenze, convegni, mostre, pubblicazioni e traduzioni dei suoi scritti si susseguono in diversi paesi europei. In breve, si è confermato un vero e proprio ritorno del grande maestro della letteratura. Krleža, esule nella Croazia tuđmaniana degli anni novanta, troppo croato secondo i nazionalisti serbi, un residuo jugoslavo inutile secondo lo spirito (sub)culturale dominante nelle nuove repubbliche sorte dalle rovine della Jugoslavia di Tito, viene letteralmente riscoperto all’inizio del XXI secolo. Il suo ritorno assomiglia a quello di Leone Glembay, uno dei suoi grandi personaggi teatrali, pittore e soprattutto guastafeste della sua ricca famiglia. Krleža è ritornato malgrado lo slogan populista che echeggia ancora da Lubiana a Skopje, secondo cui “noi abbiamo i nostri autori”.
Il mio Krleža personale
Io Krleža non l’avevo perso né alla vigilia dello sfascio del paese, né durante le guerre fratricide, né negli anni seguenti, determinati dal silenzio quasi generale sulla sua opera e sul suo pensiero estetico, sociale, culturale e politico.
Quell’estate del 1992, fuggito dalla Bosnia Erzegovina, poi espulso dalla Slovenia, mi ero trovato a Trieste. Anche se i miei amici triestini avevano una bella biblioteca, spesso andavo alla Biblioteca slovena fornita pure di libri in lingua serba e croata. Rileggere almeno una parte delle opere di Krleža, e soprattutto la sua biografia, mentre si susseguivano i pensieri sulle persone care, amiche, e le notizie sull’assedio di Sarajevo portato avanti dai “miei serbi”, non era un’impresa facile. Tutto risvegliava in me la sua immagine della “osteria balcanica” in cui, dopo una forte lite, viene spenta la luce. E la luce, sotto i cieli del paese allora andato in frantumi, mancava pure nei cervelli e nei cuori della maggioranza degli abitanti che, due anni prima dell’inizio delle ostilità, aveva abbracciato la causa nazionalista.
Alcune sere triestine le avevo trascorse con un giovane sloveno di Trieste. L’avevo conosciuto in una piccola casa editrice. Non mi mancavano anche altre conoscenze. Così, una sera, ci siamo trovati con un giovane serbo che, oltre a sostenere che l’assedio di Sarajevo dei “nostri eroi” fosse un'invenzione, ha improvvisamente cominciato a discutere di Krleža e Tito che lui, dichiarandosi anche “čovek pravoslavni” (uomo ortodosso), qualificava come i maggiori protagonisti della disgrazia jugoslava, il comunismo. Un’altra sera, invece, un croato avanti negli anni era stato ancor più aspro nei confronti di Krleža, dicendo che quel pallone gonfiato non aveva scritto neppure due righe valide, e che la cultura croata aveva scrittori migliori.
Ero stanco di discutere con quei tizi, ma non così tanto da non poter scrivere nel mio diario una nota su questi incontri e due battute di Krleža: “Croati e serbi sono lo stesso letame” e “Che Dio ci salvi dall’eroismo serbo e dalla cultura croata”.
In realtà, valeva la pena discutere sia con l’uno che con l’altro. Il vero Krleža, però, stava con me nella sala di lettura della Biblioteca slovena, nei ricordi vibranti sul primo incontro liceale con la sua narrativa, i due racconti La battaglia di Bistrizza Lesna e I tre domobrani, di una vecchia edizione della Prosveta di Belgrado, della biblioteca del mio padre.
I suoi personaggi non conformi ai loro tempi (Gesù, Colombo, Michelangelo, lo studente Vidović, i pittori Leone Glembay e Filip Latinovicz ed altri ) sembravano camminare là, tanto inquieti quanto ironici, sussurrando a volte quel lamento sarcastico del Krleža moribondo che, con la mano tesa verso gli scaffali pieni delle sue opere, diceva al suo biografo Enes Čengić: “Ho scritto tutto questo e nulla è cambiato”. Non mancavano anche altri sussurri, abbastanza chiari, come “scrivere non è altro che pensare” e “nel gregge fa caldo, ma c'è puzza”.
L'opera di Silvio Ferrari
Nella sua ottima ricerca e analisi delle traduzioni italiane Miroslav Krleža – ieri, oggi, domani (Centro studi Italo-Croati Ruggero G. Boscovich Milano-Zagreb, 2012) , frutto di un lavoro pluriennale, l’instancabile Ljiljana Avirović, docente e traduttrice, precisa che il “corpus centrale delle traduzioni italiane dell’opera narrativa e drammaturgica dello scrittore si deve al traduttore e scrittore italiano Silvio Ferrari. Più precisamente, Ferrari ha tradotto le opere narrative: Il dio Marte croato; Il ritorno di Filip Latinovicz; Sull’orlo della ragione; I signori Glembay. I saggi: Prefazione ai motivi della Podravina di Krsto Hegedušić; Karl Kraus; Il pittore tedesco Georg Grosz; I marmi bogumili; Nota su Karl Kraus; Il ritorno dalla primavera da Una gita in Russia, oltre agli scritti su Goya, Pallazeschi, Proust, Ady, Rilke. I drammi: Cristoforo Colombo e Michelangelo Buonarroti; alcuni frammenti dal Diario 1942-43 e Brani antologici dagli scritti su Ivan Meštrović (dal 1916 al 1960); il capitolo intitolato Domobrani Gebeš e Benčina parlano di Lenin e infine Le ballate di Petrica Kerempuh, sia per la rappresentazione teatrale sia in traduzione integrale con testo a fronte.”
Tranne l’ultimo dei titoli nominati, pubblicato da Einaudi, nessuno dei maggiori editori italiani ha dedicato spazio alle opere di Krleža, circostanza rivelatrice di programmi editoriali privi di senso estetico e attenzione nei riguardi delle cosiddette letterature “periferiche”. Ci sono però molte case editrici, come Studio Tesi, Zandonai, Costa & Nolan, De Ferrari e alcune riviste letterarie (Nuova rivista europea, Pietre, Il lavoro) che, a partire dagli anni ottanta, hanno pubblicato opere di questo importante scrittore europeo. Le traduzioni in italiano, tuttavia, non sono fra le più numerose. Le sue opere sono tradotte soprattutto in Ungheria, Germania, Slovacchia, Olanda, Svezia, Francia, Inghilterra, Russia, Albania, Ucraina e Bulgaria.
Krleža, la moltitudine
Negli anni ottanta, nelle interviste rilasciate soprattutto alla stampa estera, Danilo Kiš (1935-1989) ripeteva che i suoi maestri erano Andrić, Crnjanski e Krleža. Nei riguardi dell’ultimo, Kiš spesso sottolineava l’importanza dell'incontro con L’infanzia ad Agram 1902-03 (1952), opera di Krleža dominata dalla ipersensibilità e da cui nasceranno lo stile irripetibile e i vasti orizzonti intellettuali ed artistici del grande scrittore croato.
Emerso da una letteratura “periferica” Kiš, a Parigi, implicitamente voleva dire che non era venuto dal nulla. Se non avesse avuto una vita così breve, sono convinto che Kiš avrebbe scritto un libro di ritratti dei suoi maestri, forse un romanzo biografico su ciascuno. Penso però che su Krleža si sarebbe soffermato più a lungo. Il romanzo “Krleža” ne avrebbe contenuti una moltitudine di altri. Oltre al Krleža scrittore e intellettuale, infatti, c’è il Krleža attore (non solo osservatore) del Novecento. Quest’ultimo romanzo si sarebbe ramificato nei seguenti: l’infanzia e giovinezza a Zagabria, Pécs e Budapest (i primi passi nella poesia, narrativa e testi teatrali; la nascita del forte antimilitarismo e della convinzione che restare soli non vuol dire non aver ragione; l’avvicinamento agli ideali dell’Ottobre russo); il periodo fra le due guerre, segnato dai complessi rapporti con il Partito comunista e Tito (di cui l’apice è lo scontro con la sinistra letteraria troppo ideologica e poco artistica), dal tradimento sovietico degli ideali rivoluzionari e dal divieto di pubblicazione delle sue opere; la Seconda guerra mondiale, la Croazia di Pavelić e il rifiuto dello scrittore di stare con gli ustascia o di arruolarsi con i partigiani; il dopoguerra, lo scrittore amico di Tito, l’impresa enciclopedica (Krleža è fondatore della Casa dell'Enciclopedia jugoslava) e il sostegno al comunismo; gli anni settanta, Krleža fra jugoslavità e croaticità e infine il riassunto delle cose dettate al suo biografo, Enes Čengić.
Ciascuno di questi romanzi avrebbe poi contenuto numerosi capitoli ricchi di dettagli significativi per la comprensione migliore della sua opera e della sua vita. Uno di questi sarebbe stato indubbiamente il Krleža scrittore dei “Diari” durante la Seconda guerra mondiale, animato dall'impulso dello “scrivere, scrivere nonostante tutto”. Sì, lui scriveva non sapendo se sarebbe sopravvissuto, né se avrebbe pubblicato quei diari.
Krleža, nostro contemporaneo
Lo studio di Ljiljana Avirović (con la prefazione di Claudio Magris) è introdotto dal saggio L’Europa oggi, scritto da Krleža nel 1935, iniziato dalla riflessione in medias res che “l’Europa non sa quello che sa, e non ha la più pallida idea di quello che vuole”.
Molti dei personaggi krležiani sembrano essere risuscitati nella vita politica, economica e sociale, e non solo nella Croazia attuale. Non mancano i Klamfar (con o senza uno stuzzicadenti fra i denti), gli Ignaz Glembay, gli Aurel (pittore, artista ben venduto), le baronesse Castelli (persone senza scrupoli). Si muovono per le strade di Zagabria, Belgrado, Sarajevo, Podgorica, guidano macchine costose, sputacchiano su chi, secondo loro, non è del loro livello sociale. Sappiamo che si tratta di chi si è arrangiato bene durante e dopo le guerre. Li chiamano i tajkun, i neoricchi. La sintesi delle loro analisi, come quella di Leone Glembay, in cui sono descritti i ritratti degli avi, oggi sarebbe: ecco i signori che ci promettono l’oggi e il domani senza dirci dove hanno guadagnato il primo milione.
Secondo un luogo comune, che domina anche oggi, “può essere che Krleža sia davvero grande, ma è pesante e lontano dalla gente”. Meglio la pesantezza di Krleža, però, che la leggerezza generale, meglio che ci avviciniamo noi a quei punti krležiani in lontananza, perché è impossibile che lo scrittore faccia un passo indietro.
Branko Dragaš, un estimatore belgradese dell’opera di Krleža, si è rivolto due mesi fa ai lettori serbi dalle pagine del suo sito: “Iniziate, diciamo, da Sull’orlo della ragione. Questo ci è vicino oggi. Proseguite con Il banchetto a Blitva. Leggete anche due saggi: I 150 anni dalla ribellione serba e L’oro e l’argento di Zara. Vi propongo per la lettura pure I dieci anni di sangue e L’antibarbarus dialettico. Va bene pure il dramma Colombo. Dopo, decidete da soli se leggere o non leggere Krleža. L'importante è iniziare. E che tutti i pregiudizi siano rotti.”
Questa pubblicazione è stata prodotta con il contributo dell'Unione Europea. La responsabilità sui contenuti di questa pubblicazione è di Osservatorio Balcani e Caucaso e non riflette in alcun modo l'opinione dell'Unione Europea. Vai alla pagina del progetto Racconta l'Europa all'Europa.
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