A Katerina, ormai in età adulta, si dischiude la verità sul recente passato della sua famiglia: appartenente alla minoranza tedesca in Slavonia che venne decimata nel secondo dopoguerra. "Segreti di famiglia", di Ivana Šojat è arrivato recentemente nelle librerie italiane edito da Voland
Ci sono libri che a un certo momento vanno scritti, perché vengano almeno in parte illuminati gli angoli bui della Storia, quella di cui si dice che a scriverla sono sempre i vincitori. La storia di una guerra, o un rivoluzione, che viene assunta come verità assoluta e, magari, insegnata nelle scuole, fino a diventare, in certi regimi, ideologia e pedagogia insieme. Per cui si hanno i buoni e i cattivi, il bianco e il nero, il vero e il falso. La Jugoslavia di Tito, ad esempio, ha vissuto all’interno di una memoria che è diventata essa stessa ideologia e pedagogia, mito e religione di Stato: quella della Lotta Popolare, come lì veniva chiamata la Resistenza, che non ammetteva deroghe rispetto a quella che, anche al di là del valore oggettivo, doveva essere considerata la verità assoluta, non discutibile, eliminando così ogni possibilità di equivoco, pena la morte, il carcere, l’internamento, l’esilio.
Poi, ecco spuntare, molti anni dopo, una giovane scrittrice e trarre dal profondo della Storia altre verità, taciute per anni ma non meno sofferte da gente che, vissuta tutta la vita con quelle ferite, chi rimuovendole e chi, viceversa, tenendosele sempre dentro per non sovraccaricarsi di altre sofferenze, per quieto vivere, per convivenza, perché così va il mondo in quel momento, se le è portate nella tomba. E la giovane scrittrice, favorita dalla caduta di un regime che non c’è più, non più obbligata a una verità ufficiale, scrive un romanzo di grande intensità che illumina parti della Storia, sempre quella con la S maiuscola, altrimenti proibite o cancellate o neglette o dimenticate. Arriva così in libreria, in Croazia nel 2010, da noi quest’anno, edito da Voland, il romanzo della croata Ivana Šojat “Segreti di famiglia”, nella traduzione di Valentina Marconi.
Nata nel 1971 ad Osijek, in Slavonia, Ivana Šojat racconta la tragica vicenda dei discendenti di quei tedeschi che sul finire del 1700 furono mandati dalla imperatrice Maria Teresa in quella regione col fine di salvarli dalla carestia e dalla fame e che lì misero le loro radici (la loro storia è ampiamente raccontata da Slobodan Šnajder – si noti la croatizzazione del cognome – nel grande romanzo “La riparazione del mondo”, edito da Solferino). La Šojat non si spinge fino a quegli anni, ma si limita al Ventesimo secolo, guardandolo attraverso gli occhi di una giovane donna di oggi, Katarina Pavković, una pittrice tornata, per la morte della madre Marija, da Zagabria a Osijek, la sua città natale, dopo 18 anni che vi mancava. Ad aspettarla ormai solo un’anziana amica di famiglia, Jozefina, che in pratica ha sempre vissuto in stretto contatto con i Pavković, condividendo con loro molte vicissitudini delle quali la giovane Katarina verrà a sapere soltanto adesso, a bara chiusa della madre, importanti segreti che, per tutelarla durante il regime di Tito, le erano stati taciuti. Una storia complessa che prende spunto dai ricordi di Katarina, dai suoi difficili rapporti con la madre Marija, dal ricordo della amata nonna Klara e dai racconti, in un intrecciarsi continuo di presente, passato e trapassato che l’autrice abilmente dipana nel suo romanzo.
Conosciamo così, fin dall’inizio del secolo ventesimo la famiglia Schneider della minoranza tedesca in Slavonia, con la bisnonna di Katarina, la benestante Victorija Richter, e il suo matrimonio con un uomo, Rudolf Schneider, appunto, che vedremo partire soldato nella Prima guerra mondiale, sul fronte galiziano, e che nel corso della vita si rivelerà, purtroppo, essere un ubriacone, scialacquatore di ricchezze e donnaiolo, mentre la coraggiosa e irreprensibile Viktorija metterà al mondo quattro figli, tra cui Klara, la nonna di Katarina, Alojzija, Adolf e Greta.
La loro vita scorrerebbe serena, se non fosse per le intemperanze del padre, a cui comunque il suocero Richter impedirà di mettere mano sull’eredità della figlia, intestando a lei ogni bene e, soprattutto, se il nazismo non si affacciasse sul suolo europeo solleticando l’orgoglio tedesco della minoranza in Slavonia, facendo diventare sempre più politica la loro associazione culturale Kulturbund, fino a farne la mano longa di Hitler. Della famiglia Schneider, però, vi aderirà il solo Adolf fino ad arruolarsi nelle file naziste e partecipando ai pogrom antisemiti, mentre la più giovane Greta passerà nel 1941 con i partigiani di Tito, a dimostrazione della sbagliata simmetria che renderà tragico il destino di questa gente, che ci sarà in quegli anni.
Infatti, i partigiani di Tito non vanno tanto per il sottile e si accaniscono contro la minoranza tedesca, equiparata al nazismo, ammazzando e deportando donne e bambini nel campo di concentramento di Valpovo: “Albeggiava quando giunsero a Valpovo, nel campo di concentramento strapieno di bambini coperti di pidocchi, di gente senza più dignità. Seguirono mesi di fame, sporcizia, dissenteria. Come un incubo da cui non ci si riesce a svegliare”. La stessa figlia partigiana Greta, arrivata sul posto per chiedere la loro liberazione resterà terrorizzata da quel che vede, e riesce nell’intento di rimandarli a casa, per modo di dire: le loro case sono ormai tutte occupate da gente che fa strage dei loro beni. “Quando ci hanno rilasciato dal campo, dopo tre mesi” racconta Jozefina, che a Valpovo aveva perso l’unica figlia che le era nata quando ormai credeva di non poter mai avere figli “le nostre case erano già occupate da altra gente. Funzionari di partito, si diceva. Combattenti, comunisti, ‘amici del popolo’. Non ci hanno fatto più entrare. Mi hanno detto: o nel porcile, o accomodati pure in strada. Raus! Non sapevo dove andare. Sono rimasta nel porcile, senza protestare. Non ho avuto scelta”. Un incubo. Stessa sorte alla bisnonna Viktorija. “Vattene! Questa è casa mia!” si sentirà gridare da una donna che riconosce essere Majda che mandava sempre i suoi figli da lei. “Si chiese come aveva fatto in tutti quegli anni a non vedere il mostro che covava dentro quella donna dai fianchi larghi”. Viktorija piangente non si trattiene però dal chiederle “Le fotografie. Datemi almeno le mie fotografie. Nient’altro…” che presero a volare dalla finestra.
Katarina, sempre più angosciata e offesa con i genitori per il silenzio in cui per anni, a riguardo, è stata tenuta apprende che il suo vero cognome non è Pavković, bensì Steiner. Il padre Stjepan Steiner era nato nel 1942, caritatevolmente trattenuto dai Pavković, che lo avrebbero adottato, assumendone il cognome, mentre i suoi veri genitori, gente senza colpe, venivano deportati per poi essere uccisi. Ma anche Greta, dopo aver amaramente scoperto l’accanimento jugoslavo contro persone innocenti verrà fatta sparire… Katarina stessa ha la misura dell’abisso in cui potevano aver vissuto i suoi ricordando improvvisamente quando, bambina, in pieno regime comunista, dopo aver visto con i suoi compagni di classe un film sui partigiani, presero a gridargli “Cruc-ca, cru-ca!”. E lei corse a chiedere alla nonna Klara se era vero che loro fossero crucchi. E la nonna le rispose: “No, Katarina, siamo tedeschi”
“Ma allora siamo cattivi?”
“No, Katarina, no, siamo persone perbene.”
“Ma i tedeschi… loro…”
“I cattivi ci sono in ogni popolo, anche fra noi tedeschi. Ma non siamo tutti colpevoli, non è andata proprio così, te ne accorgerai anche tu, quando sarai più grande!”
E probabilmente questo romanzo, anche per il suo valore letterario, è la testimonianza più alta della raggiunta presa di coscienza dell’autrice. E, si spera, non solo dall’autrice.
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