Zara, Croazia. Per alcuni un tempo era “la Venezia dell’altra sponda”. La storia di Zadar riassume in sé quella di tante altre città europee, nell’intreccio di genti e culture diverse, di arti e architetture millenarie
Per chi come me arriva dal mare, Zara è “la Venezia dell’altra sponda”, riprendendo il titolo di un reportage del 1916. Zara è stata per secoli un sestiere veneziano e, malgrado le distruzioni della Seconda guerra mondiale e una ricostruzione affrettata, l’impianto urbanistico e le tracce architettoniche della città vecchia sono importanti e suggestive.
Considerazione priva di ogni retorica italiana novecentesca, ma al contrario foriera di appartenenze adriatiche. Perché la storia di Zadar riassume in sé quella di tante altre città europee, nell’intreccio di genti e culture diverse, di arti e architetture millenarie.
Una storia anche contraddittoria e tragica, da non dimenticare per poter affrontare al meglio difficoltà e potenzialità di una nuova Europa delle città. Città di mare, nello specifico, aperte al mondo, cosmopolite e multiculturali, piccole o grandi che siano.
Zadar è isola tra le isole. Perché la città vecchia era circondata dalle acque, perché la città nuova è allungata sulle acque. Perché Zadar è capoluogo delle meravigliose isole del suo arcipelago.
Una relazione con il mare che non è solo geografica e storica, turistica e commerciale, ma anche sentimentale. Innanzitutto lungo la riva che va dal Morske orgulje, l’organo marino, fino alla Foša, ciò che rimane del canale che divideva la città dalla terraferma in età antica.
L’organo il prossimo aprile festeggerà venti anni, di suoni e di relazioni acquatiche. Un organo che è anche un invito al nuoto urbano, a godere dei piaceri dell’acqua salata, con i suoi gradoni che il mare copre o scopre a seconda della marea.
Luogo di festa giocosa nei tramonti d’estate, di cerimonia meditativa nelle albe d’inverno. Sempre prodigo di melodie marine e di piaceri acquatici. Per qualcuno solo per guardare, sentire e respirare il mare, per altri per bagnare le mani, i piedi e la faccia, per altri ancora per tuffarsi.
A Zadar l’ultima volta, nell’agosto scorso, sono arrivato a vela dall’ubertosa isola di Olib, l’isola degli ulivi, una ventina di miglia a nordovest, spinto da un felice, azzurro Maestrale che seguiva giorni di maltempo.
Eravamo in due a bordo di una piccola barca. Io, marinaio Ismaele che ama respirare sempre aria nuova a prua e Stefano, capitano che di Achab ha solo la folle passione per il vento.
Ormeggio nel tardo pomeriggio al marina, che un tempo si chiamava Valle di Bora, toponimo che per degli anemofili vale da solo il viaggio. Poi il giorno seguente passeggiata all’alba, dopo aver preso un caffè.
Le strade poco affollate, deserto il ponte pedonale che permette di attraversare l’ingolfatura settentrionale, il porto storico. Entro nella città vecchia dalla Porta di San Rocco e salgo sulle mura veneziane, che sono Patrimonio dell’Umanità.
Ho la sensazione d’essere su un boulevard parigino, impreziosito dall’odore del mare. Scendo, dopo aver passato l’Arsenale, un altro piccolo gioiello veneziano.
Davanti a me, dall’altra parte dell’ingresso del porto, il fanale rosso. C’è già il barcaiolo che sistema la piccola lancia color minio, con cui traghetta a remi la gente da una riva all’altra, come qui s’usa fare da secoli.
I barkajoli sono un’istituzione zaratina, come i gondolieri a Venezia. Dei barkajoli si ha testimonianza scritta dal XIV secolo. Su una vecchia guida del Touring è indicato un servizio “triangolare”, che ha per vertici i due punti dell’attuale ponte pedonale e un terzo sulla riva nord della Valle di Bora.
Il loro quotidiano andirivieni, con qualsiasi condizione meteorologica, è l’orologio del tempo zaratino. Lo spazio “è una cosa, mentre il tempo è l’idea di una cosa”, scrive Josif Brodskij, stregato dalle acque del Bosforo, che è gola acquatica di Costantinopoli, come lo è questo braccio di mare per Zara.
Ecco allora che guardando dall’alto la scia di quella piccola lancia, i barkajoli sono per me gli instancabili pittori di questo misterico aforisma che l’acqua al contempo fa riecheggiare e cancella.
Sono al fanale verde, dove c’è la bici appoggiata di una donna che guarda il mare, con a fianco il suo piccolo cane fulvo, accucciato sulle zampe posteriori. Entrambi immobili, respirano profondamente in sintonia.
La banchina uscendo piega a sinistra, è l’ormeggio delle navi da crociera che ora è libero. Dopo duecento metri la banchina piega ancora a sinistra, lì dove c’è il Pozdrav suncu, Saluto al sole, un’installazione luminosa dell’architetto Nikola Bašić.
Un cerchio composto di pannelli solari che accumulano energia, restituita di notte attraverso giochi astronomici luminosi. Subito dopo c’è l’organo, progettato dallo stesso Bašić. Ingegnosa e minimalista costruzione sonora che suona grazie ai movimenti delle onde. Un organo a gradoni, che scendono verso il mare e aprono la lunga riva meridionale, una sobria, elegante promenade adriatica.
Da quella banchina mi sono tuffato, ho nuotato, sono stato immobile a pelo d’acqua ad ascoltare la musica del mare, anch’io sollevato e abbassato come acqua nelle canne dell’organo. Su quella banchina mi sono poi seduto per ascoltare la musica del mare, guardando una Luna pallida scolorare nella luce del giorno e tramontare dietro l’isola di Ugliano.
Forse, ho appuntato sul mio taccuino quel mattino, anche Enzo Bettiza, che a Zara ha dedicato pagine bellissime e strazianti nell’ormai lontano 1996, oggi sarebbe più fiducioso sul futuro della città, sulla possibilità di ritrovare relazioni adriatiche antichissime utili anche a rimarginare dolorose ferite.
Certo che il destino geografico di Zadar, Zara, Jader, Idassa, Iadera, Jàdera, per usare tutti i suoi nomi di oggi e di ieri, è più forte e più bello di qualsiasi accadimento storico. Certo anche della sua intimità adriatica, riprendendo le parole di un altro suo cantore: Predrag Matvejević.
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