Un documentario racconta gli anni '70 in Istria, con gli occhi di bambini ed adolescenti. Un'intervista alla sua regista, Sabrina Benussi
Il documentario tratteggia la vita della comunità italiana in Istria dagli anni ’70 fino alla morte di Tito nel 1980, attraverso lo sguardo e il vissuto dei bambini e degli adolescenti, i figli e i nipoti dei cosiddetti “rimasti”: perché questo punto di vista?
Il mio documentario nasce dal desiderio di raccontare una pagina di una storia di confine complessa e misconosciuta, nonostante una collocazione vicina all’Italia sotto il profilo geografico, ma lontana anni luce sotto quello storico-politico.
Ho voluto mettere in luce l’interazione tra il progetto di formazione della gioventù socialista, messo in atto attraverso gli strumenti dell’educazione e i mass media di regime, e la memoria dei soggetti coinvolti, focalizzando l’attenzione su un segmento generazionale ben definito: la generazione nata negli anni Sessanta, i figli e/o nipoti dei “rimasti”, ovvero degli italiani che alla fine del secondo conflitto mondiale, per motivazioni sociali e politiche complesse, non intrapresero la strada dell’esodo.
Molto si è detto e si è scritto in merito sia a questi ultimi che ai “rimasti”. Ma la generazione presa in esame, ovvero la mia generazione, nel documentario non è mai stata analizzata, soprattutto nella prospettiva del confronto tra mezzi di comunicazione e memoria.
Si tratta di persone che vissero gli anni ’70 da bambini e adolescenti, studenti nella scuola dell’obbligo, la cui iniziazione ideologica passava attraverso la formazione dei pionieri e della gioventù socialista, fino all’eventuale inquadramento nella Lega dei comunisti. Allo stesso tempo, erano la prima generazione televisiva, spettatrice partecipe delle trasmissioni sia di Tele Capodistria che della Rai, esposta alla cultura di massa che passava attraverso la radio e i contatti, frequentissimi, la società e la cultura della vicina Italia. Il confine, poroso e mobile, lo hanno portato dentro di sé, senza troppi imbarazzi e senza sentirsi schizofrenici.
Ed è il confine in senso più largo qui si racconta, un confine in cui si possono riconoscere tutti coloro che, in varie aree europee, sono stati segnati dalla mobilità.
Spesso come Osservatorio ci ritroviamo a fare lezioni a ragazze e ragazzi di medie e superiori in merito alla dissoluzione jugoslava. Come definirebbe, con una frase, la Jugoslavia socialista nella quale anche lei è cresciuta?
Ipocrita
Una famiglia, stessa casa, mai nessuno nato però nello stesso stato. Così si racconta in modo molto chiaro quel “confine mobile” che ha caratterizzato la regione istriana. Il percorso di integrazione europea è stato foriero di promesse per l'area di Trieste, Gorizia, l'Istria dopo le ferite del '900. Quanto mantenute?
Ho atteso con ansia che la Croazia entrasse nell’Unione europea e quando è successo sono stata felicissima. Fino a quando però l’Unione europea rimarrà solo un’unione economica poco si potrà fare... Per non parlare dei nuovi muri...
Nel documentario emerge chiaramente – anche se delineato in modo molto pacato - il senso di fastidio e poi vera e propria insofferenza rispetto ai meccanismi imposti dallo stato socialista. Con che atteggiamento guardi alla sua infanzia ed adolescenza ora che la Jugoslavia di Tito non esiste più?
Un altro mondo è possibile... ma il “nuovo” crea ancora più delusioni... come ha detto Moni Ovadia nella presentazione a Trieste: è stato buttato via anche il bambino con l’acqua sporca.
Nel documentario spesso sono le nonne a rimettere tutto al suo posto, a dare punti di riferimento rispetto alle inquietudini di chi cresceva in quegli anni...
Sì, almeno la mia di nonna cercava di dare una risposta alle mie inquietudini e portava un po’ di equilibrio tra il “dentro “ e il “fuori”....
Molti dei materiali utilizzati nel documentario sono d'archivio. Come si è sviluppata questa vostra ricerca?
La ricerca ha occupato molto tempo, gli archivi di Tv Capodistria sono un tesoro tutto da scoprire. Poi ho cercato nel magazzino dei miei ricordi, tra gli scatoloni della mia memoria e quelli in soffitta, libri di testo, diario, quaderni, nelle varie biblioteche e per finire gli intervistati mi hanno gentilmente fornito molto materiale....
Ci può raccontare che vita ha avuto Vedo rosso, dopo essere stato realizzato e messo a disposizione del pubblico? Le reazioni, le partecipazioni ai festival...
A distanza di tre anni e dopo i premi ottenuti sono sempre molto convinta del mio lavoro, ho avuto molte conferme a tutte le presentazioni. Sono state molte, a Venezia, Pordenone, Trieste, in Umbria.
In Istria invece ho presentato il documentario ovviamente a Rovigno, e poi solo a Parenzo a Umago, l'ho proposto a Pola e a Fiume ma non ho per lungo tempo avuto alcuna risposta. Il perché non so dirglielo, o meglio forse non voglio fare sterili polemiche: io volevo soltanto capire… anche perché il detto polacco che faccio scorrere alla fine del film dice tutto: "Dalle nostre parti solo il futuro è certo, il passato tanto cambia sempre".
E’ un racconto che usa come arma fondamentale l’ironia e soprattutto non è urlato. I protagonisti, ribadisco, sono bambini e adolescenti che dell’ideologia vedevano solo gli orpelli (gonne abitini ecc.).
La realtà era molto articolata, ma la storia che racconto è quella di persone comuni in un decennio duro per la minoranza ma che avendo non più di 15 anni potevano avere una consapevolezza parziale. Come dico nel documentario provavano fastidio, molto fastidio. Le loro domande però rimanevano senza risposte.
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