Due anni fa, nel febbraio del 2010, Magomedsalam Magomedov è diventato presidente del Daghestan. La sua nomina è stata accompagnata dalla speranza che questo imprenditore di successo, giovane e istruito, potesse portare cambiamenti reali nella repubblica caucasica. Speranze, che sono state ampiamente deluse, suscitando inedite proteste di piazza e mettendo in luce il forte desiderio di dialogo sociale che caratterizza il Daghestan di oggi
Sono passati due anni da quando Magomedsalam Magomedov è diventato presidente della Repubblica del Daghestan, territorio del Caucaso nord-orientale lacerato da scontri e da conflitti religiosi. La sua ascesa è stata inaspettata. Delle cinque candidature proposte dal parlamento al presidente Medvedev, la sua era considerata fra le più deboli. Nessuno voleva tornare “all'era Magomedov”.
Da un Magomedov all'altro
Il padre di Magomedsalam, Magomedali Magomedov, aveva infatti governato il Daghestan per dodici anni (dal 1994 al 2006, ma era ai vertici del Daghestan sin dai tempi dell'Urss). Durante quel periodo era fiorita l'influenza dei potenti clan (tuhum) e aveva preso forma un semplice modello di rapporto con il centro federale: il Daghestan non sosteneva la Cecenia nelle sue ambizioni separatiste e Mosca non lesinava il denaro. Questo accordo soddisfaceva gli interessi di entrambe le parti: durante la seconda guerra cecena, nessuno voleva problemi in Daghestan, che per metà del territorio confina proprio con la Cecenia. Quindi Mosca se la cavava con i soldi, rimpolpando generosamente il bilancio del Daghestan senza interferire negli affari interni. È stato proprio questo modello a portare alla crisi che affligge oggi la più grande repubblica del Caucaso del Nord.
A fronte delle ingenti sovvenzioni da parte del centro federale, che hanno raggiunto il 98% del bilancio del Daghestan (ma che in passato contribuiva invece attivamente al budget statale) e ora ne costituiscono il 75%, le élite locali hanno investito sulla "guerra al terrorismo", creando per la prima volta un dipartimento speciale di "lotta contro l'estremismo e il terrorismo" e adottando una legge, peraltro incostituzionale, che vieta il wahabismo (corrente dell'Islam che il governo associa al terrorismo). Questo ha portato nuovi poteri al ministero dell'Interno, accresciuto lo staff e trasformato le operazioni antiterrorismo in un redditizio business: tutte voci che hanno aumentato costi e sovvenzioni. Di conseguenza, ogni problema della regione, dalla corruzione al potere dei clan, dalla criminalità alla crisi economica, è passato in secondo piano agli occhi delle élite, soppiantato dalla minaccia del terrorismo wahabita.
Tuttavia, quando due anni fa il Cremlino ha scelto Magomedsalam Magomedov, molti in Daghestan speravano che l'arrivo di un imprenditore di successo, giovane e istruito, si traducesse in un cambiamento. Il fatto che sapesse leggere correttamente le preghiere significava molto in un terra lacerata dai conflitti religiosi. Soprattutto, ci si aspettava l'inizio di un dialogo onesto e aperto fra governo e società: “consolidare la società, rafforzare lo stato di diritto, ristabilire l'ordine e sviluppare un'economia dinamica sono i principali obiettivi del lavoro futuro", aveva dichiarato Magomedov alla cerimonia di insediamento.
Speranze e delusione
Le sue mosse hanno confermato le sue parole. Sono state fondate diverse organizzazioni che includono rappresentanti dei salafiti, fra cui "Ahlu Sunna"; è stata creata una commissione per la reintegrazione nella società di ribelli che si presentavano spontaneamente alle autorità; con il sostegno del governo, hanno cominciato a tenersi tavole rotonde con esperti e ONG che si occupano di diritti umani; si è convocato e svolto il Congresso dei popoli del Daghestan. Vice-premier è stato nominato Rizvan Kurbanov, persona di cui tutti i difensori dei diritti umani nel paese hanno il numero di cellulare e che più di una volta ha aiutato le famiglie a cercare parenti scomparsi. Anche grazie a lui sono diminuiti i rapimenti e le condanne senza processo. Ma la cosa più importante è che si è cominciato a discutere pubblicamente di argomenti che prima erano tabù: l'arbitrarietà della condotta delle forze dell'ordine e le persecuzioni nei confronti di persone religiose. Il dialogo è quindi iniziato.
Insieme al “dialogo”, però, è cresciuta anche l'influenza del Comitato nazionale antiterrorismo (NAK), un'agenzia federale la cui funzione principale è la lotta al terrorismo. Ad ogni evento pubblico, che si trattasse di una sessione della Commissione per i diritti umani con il presidente russo o del congresso dei popoli del Daghestan, era sempre possibile vedere degli uomini in abiti civili. Erano gli agenti NAK: funzionari dei servizi di sicurezza russi responsabili del Daghestan. Si è poi scoperto che tutte le iniziative sociali di competenza del governo locale si svolgevano sotto la stretta supervisione dei membri dei servizi russi. La polizia federale aveva letteralmente costretto le élite locali a organizzare iniziative civiche, e questo ha dato i suoi frutti.
Il Congresso dei popoli del Daghestan, che non si teneva da quasi 10 anni ed era stato presentato come un atto di unificazione nazionale, si è risolto in una riunione di attivisti del partito di governo e membri della cerchia delle élite. La tavola rotonda dei difensori dei diritti umani con la partecipazione del presidente Medvedev non ha portato a conclusioni concrete. La commissione per la reintegrazione dei ribelli, dominata dai rappresentanti delle forze dell'ordine, ha dimostrato di avere ben poca influenza sulla risoluzione del conflitto armato. E il vice primo ministro Rizvan Kurbanov, “l'ultima speranza contro la tirannia degli agenti di sicurezza”, ha cambiato lavoro ed è ora deputato della Duma russa.
Questa politica ha suscitato forti reazioni tra i salafiti, la gente si è sentita tradita ed è scesa in piazza. Una protesta con cinquemila manifestanti nel centro della capitale non si era mai vista. I dimostranti chiedevano la fine dei rapimenti e delle condanne senza processo. Un mese dopo la manifestazione è stato ucciso il direttore del giornale indipendente “Chernovik” Khadzhimurad Kamalov. Kamalov non era solo un giornalista, ma anche un attivista, uno dei pochi che poteva mediare nei negoziati fra le parti di una società divisa come quella del Daghestan.
Intanto, il Daghestan continua ad armarsi ed è stato creato un nuovo battaglione di 800 soldati specificamente assoldati per combattere i militanti islamici. Nelle cinque zone più difficili del paese sono state recentemente costituite nuove unità paramilitari “per monitorare la situazione”, coinvolgendo il ministero dell'Interno, i servizi di sicurezza russi e le forze di polizia interne. In Daghestan coesistono una dozzina di corpi di polizia federali e locali, che non si fidano l'uno dell'altro e spesso nemmeno coordinano le proprie azioni. E tutti i problemi sociali ed economici sono rimasti trascurati, giustificati alla luce della complessità della situazione causata da estremismo e terrorismo.
A Magomedsalam Magomedov rimangono tre anni alla fine del mandato. C'è tempo per provare, almeno, a trasformare in realtà le belle parole sul consolidamento del dialogo sociale. E la richiesta di dialogo in Daghestan, una regione con tante persone giovani attive nel sociale e una realtà così fragile, non è mai stata così grande.
* Irina Gordienko è corrispondente speciale della Novaja Gazeta, Mosca
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