Daghestan - CC BY-SA 3.0

Nonostante la dura repressione da parte della autorità moscovite continuano gli attentati di matrice islamista in Daghestan. Una rassegna

20/03/2018 -  Emanuele Cassano

L’attentato dello scorso 18 febbraio alla chiesa ortodossa di San Giorgio a Kizlyar, nella repubblica russa del Daghestan, ha riportato all’attenzione dei media il problema del terrorismo nel Caucaso settentrionale. Seppur in netto calo rispetto al passato, questo fenomeno continua a rappresentare un problema concreto per la regione – teatro negli ultimi 15 anni di una violenta insurrezione armata – come dimostrano i principali dati riguardanti gli incidenti e le vittime legate ad atti di terrore.

Rivendicato dall’ISIS, l’attacco di Kizlyar, messo in atto dal 22enne Khalil Khalilov, è figlio come molti altri del malessere di una comunità afflitta da gravi problemi socio-economici e sconvolta da anni di conflitti e instabilità politica; fattori che hanno contribuito a creare terreno fertile per la radicalizzazione e l’estremismo violento, favorendo in questo modo l’aggressiva propaganda del terrorismo islamista.

Un contesto complesso

Il Daghestan possiede livelli di povertà, corruzione, disoccupazione e criminalità tra i più alti di tutta la Federazione russa. Dal punto di vista economico la regione dipende fortemente da Mosca, in quanto circa l’80% del proprio budget è costituito da sussidi federali ; segno del trattamento di favore riservato dal Cremlino al fine di scongiurare la prospettiva di un nuovo conflitto etnico come quello ceceno. Buona parte di questi fondi, destinati allo sviluppo locale, finisce però per essere spesso oggetto di appropriazione indebita da parte di funzionari locali corrotti. L’aggravarsi di questo fenomeno ha recentemente spinto le autorità federali ad avviare nella regione una massiccia campagna anti-corruzione , che ha portato all’epurazione di diversi membri del governo.

La regione è inoltre caratterizzata da una società fortemente multietnica. Qui convivono – non senza difficoltà – decine di popoli: caucasici, turchici, iranici e slavi, con il risultato che nella repubblica si parlano ben 32 lingue diverse , di cui 14 ufficiali. Questa complessa composizione sociale ha favorito nel tempo una clanizzazione della politica, con gruppi familiari identificati su base etno-regionale in perenne lotta tra loro per il controllo delle principali attività economiche e delle posizioni di potere all’interno del governo. Neanche l’introduzione – fin dagli anni Novanta – di quote etniche per i posti di governo e i seggi nel parlamento locale è servita ad arginare questo fenomeno, che continua a minare la stabilità politica della repubblica.

La società daghestana è infine divisa dallo scontro tra l’Islam tradizionale, rappresentato dalle comunità sufi e dal Muftiyat locale (entità che si occupa dell’amministrazione della comunità musulmana della regione) e appoggiato dalle autorità federali, e l’Islam radicale, di più recente diffusione, al quale fanno riferimento le comunità salafite. Quest’ultimo, osteggiato dal Cremlino e dagli stessi sufi, può però vantare un forte appeal tra quei giovani daghestani che, delusi dalla loro società di appartenenza, sono alla ricerca di nuovi ideali intorno ai quali costruire la propria identità.

Oltre l’ISIS

L’attentato di Kizlyar è l’undicesimo attacco rivendicato finora dall’ISIS nella regione, sebbene le autorità russe ritengano improbabile un collegamento diretto tra Khalilov e lo Stato Islamico, il quale, secondo l’analista politico Andrey Serenko, avrebbe tentato di “appropriarsi” dell’attacco – come in passato di altri – per riabilitare la propria immagine dopo ripetuti fallimenti.

Gli uomini di Daesh iniziarono a mettere gli occhi sulla regione nel giugno 2015, quando annunciarono la costituzione di un nuovo governatorato nel Caucaso russo con a capo il daghestano Rustam Asildarov (conosciuto come Emiro Abu Muhammad Kadarsky), morto nel dicembre 2016 durante uno scontro a fuoco con le forze armate russe. Già dal 2012 però, i successi militari dello Stato Islamico in Medio Oriente portarono molti combattenti a lasciare il Daghestan per la Siria, permettendo così a Mosca di allentare la forte pressione esercitata nella regione dai ribelli islamisti. La successiva ritirata dell’ISIS ha posto il problema del rientro in patria di questi guerriglieri, tornati a rappresentare una potenziale minaccia per il Cremlino.

Nella regione sono attivi anche alcuni gruppi ribelli rimasti fedeli a ciò che rimane dell’organizzazione jihadista “Wilāyat Daghestan” (nota in precedenza come Shariat Jamaat), gruppo legato in origine all’Emirato del Caucaso, proclamato nel 2007 dal ceceno Doku Umarov. Lo stesso Asildarov, prima di giurare fedeltà allo Stato Islamico, combatté tra le fila di questa formazione con il grado di comandante. Negli ultimi anni il Wilāyat Daghestan – come del resto lo stesso Emirato – ha però perso progressivamente il proprio potere, a causa della “concorrenza” di Daesh, delle partenze verso la Siria e della dura repressione delle autorità; al punto da essere dichiarato distrutto nel febbraio 2017 dall’allora capo della Repubblica daghestana Ramadan Abdulatipov.

A complicare ulteriormente lo scenario vi è poi la presenza di diverse decine di cellule composte da combattenti “indipendenti”, bande criminali legate a determinati clan locali e, come nel caso di Khalilov, lupi solitari, ovvero individui auto-radicalizzatisi che di fatto non posseggono alcun legame concreto – se non puramente nominale – con le principali organizzazioni terroristiche che rivendicano un ruolo nella regione.

Obiettivi istituzionali

Perpetrato ai danni di una minoranza religiosa (gli ortodossi costituiscono il 2,4% della popolazione daghestana, prevalentemente musulmana), l’attacco di Kizlyar ha rappresentato – metodologicamente parlando – un’eccezione per il terrorismo locale, i cui obiettivi principali risultano spesso essere la polizia e le forze dell’ordine.

Secondo i dati di Caucasian Knot , delle 2058 vittime del terrore in Daghestan nel periodo 2010-2017, ben 594 (circa un terzo del totale) sono poliziotti o agenti federali, a fronte di 403 vittime civili. Le restanti unità fanno riferimento ai militanti uccisi. Molti degli stessi attentati rivendicati negli ultimi due anni dall’ISIS hanno avuto obiettivi politico-militari, piuttosto che civili.

A finire nel mirino del terrore sono state anche diverse autorità religiose legate all’Islam moderato; è il caso dello sheykh Said Afandi Chirkeyskiy, importante esponente della comunità sufi del Daghestan e strenuo oppositore dell’Islam radicale, ucciso nel 2012 da una terrorista suicida .

Attentati in diminuzione

Negli ultimi anni la repressione messa in atto da Mosca è comunque riuscita a ridurre progressivamente gli episodi terroristici, il cui numero appare in netta diminuzione. Secondo Caucasian Knot , tra il 2016 e il 2017 il Daghestan ha visto un calo degli attacchi terroristici del 62,5%, mentre le vittime sono scese del 73%. Inoltre, se nel 2011 il terrorismo islamista fece 413 vittime, (con una media di oltre una al giorno), nel 2014 esse scesero a 208, mentre nel 2017 furono “solo” 47.

Per combattere il terrorismo islamista il Cremlino ha sempre adottato una linea di tolleranza zero, contrastando l’insurrezione daghestana con ogni mezzo a disposizione, dall’inasprimento dei controlli sulle comunità salafite alla distruzione delle abitazioni dei ribelli e di chi offriva loro riparo, facendo terra bruciata intorno agli insorti. Nel luglio 2016 è stata inoltre approvata una controversa legge antiterrorismo nota come “legge Yarovaya ”, dal nome della parlamentare che l’ha redatta, la quale ha vietato il proselitismo e la diffusione di materiale religioso al di fuori dei luoghi di culto riconosciuti dalle autorità, introducendo inoltre dure pene detentive per chiunque cercasse di organizzare o incoraggiare disordini di massa.


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