La più grande ed importante organizzazione internazionale per la sicurezza regionale si è trovata da un giorno all'altro senza i suoi dirigenti. Dalla scorsa settimana, per via del veto di Azerbaijan Turchia e Tajikistan, l'OSCE è senza vertici
(Originariamente pubblicato da EastJournal il 20 luglio 2020)
L’Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa (OSCE), nota per essere “la più grande organizzazione di sicurezza regionale al mondo”, è stata da un giorno all’altro privata dei suoi più alti dirigenti. Dal 18 luglio è rimasta senza segretario generale, rappresentante per la libertà dei media, alto commissario per le minoranze nazionali e direttore dell’Ufficio per le istituzioni democratiche e i diritti dell’uomo (ODIHR). Questi sono i vertici delle istituzioni che costituiscono l’OSCE coprendo i vari ambiti del suo mandato.
Il principio dell’inclusività è stato la causa scatenante della crisi. Tale principio è la chiave di volta del funzionamento dell’Organizzazione e ne costituisce, al contempo, il punto di forza e il tallone d’Achille. Sulla base dell’inclusività tutte le decisioni vengono prese in modo consensuale dai 57 paesi partecipanti all’OSCE. In altre parole, ognuno di questi stati, diversissimi tra loro, può da solo paralizzarne il processo decisionale.
La dinamica della crisi
Tutto è iniziato con una procedura che sembrava una formalità. Si votava per un’estensione del mandato dei vertici – in scadenza il 18 luglio – fino alla fine dell’anno, quando, a Tirana, si svolgerà l’annuale incontro dei ministri degli Esteri dei paesi partecipanti.
Il processo si è arenato quando l’Azerbaigian ha espresso delle riserve su Harlem Désir, il rappresentante per la libertà dei media. A ruota, Turchia e Tagikistan hanno messo in discussione la direttrice di ODIHR, Ingibjörg Sólrún Gísladóttir. In una dinamica non del tutto chiara (le negoziazioni non sono aperte al pubblico) un gruppo di paesi tra cui Armenia, Francia, Canada, Islanda e Norvegia hanno, allora, ritirato il loro supporto per il Segretario generale, Thomas Greminger e l’Alto commissario per le minoranze nazionali, l’italiano Lamberto Zannier.
Dittature alla riscossa
La triade di paesi che ha dato inizio alla crisi ha una caratteristica comune: la sistematica violazione dei diritti umani che sono impegnati a tutelare in quanto membri dell’OSCE. Ognuno dei tre aveva dei piccoli motivi di risentimento nei confronti dell’Organizzazione ed ha sfruttato la situazione per far sentire il proprio peso.
In particolare, lo scorso febbraio Désir aveva criticato l’Azerbaigian per l’arresto di 8 giornalisti durante una manifestazione a Baku. La cosa, evidentemente, è stata mal digerita dal governo azero. In un comunicato del 6 luglio il diplomatico francese è stato duramente attaccato e la sua attività all’OSCE descritta come “parziale e politicamente motivata”.
Similmente, sembra che la Turchia sia entrata in contrasto con Gísladóttir dopo che alcune ONG turche, poco gradite ad Ankara, hanno partecipato a degli eventi OSCE. Al contempo, Désir ha condannato più volte la Turchia – l’ultima volta a marzo – per gli arresti e i soprusi nei confronti di giornalisti che avvengono regolarmente nel paese.
Infine, il Tagikistan sta negoziando da mesi i termini del mandato della missione dell’OSCE che ospita, con Dushanbe che vorrebbe limitare l’immunità per il personale locale della missione.
Tutto tace a ovest…
L’analista Walter Kemp ha sottolineato che a essere stati messi in discussione sono stati i principi fondanti delle istituzioni dell’OSCE, non solo le persone ai vertici. Nel già menzionato comunicato azero, per esempio, si legge un attacco durissimo ai negoziati per la risoluzione del conflitto in Nagorno-Karabakh. Se le dittature hanno smesso persino di fingere di tutelare i diritti umani, è anche perché i paesi democratici, e maggiori finanziatori dell’Organizzazione, l’hanno abbandonata al suo destino.
Ogni anno si perdono mesi in discussioni sul bilancio con molti stati partecipanti, soprattutto occidentali, che sembrano interessati solo a risparmiare sulle loro quote di partecipazione. Secondo Kemp queste eterne diatribe procedurali impediscono all’OSCE di svolgere il proprio mandato, scoraggiano le persone con il profilo giusto dal candidarsi ai vertici delle istituzioni e disincentivano gli stati dal proporsi alla presidenza annuale dell’Organizzazione.
Il ruolo dell’OSCE
Ma qual è, in fin dei conti, il ruolo di quest’organizzazione e perché è importante? All’origine dell’OSCE, si trova l’atto finale di Helsinki del 1975, accordo conclusivo della Conferenza sulla sicurezza e la cooperazione in Europa (CSCE). Questo patto definiva dieci principi fondamentali che avevano il fine di migliorare le relazioni tra Stati Uniti e Unione Sovietica.
Tra i dieci punti di Helsinki ci sono elementi considerati allora importanti da Mosca per ribadire le proprie conquiste in Europa orientale, quali l’inviolabilità delle frontiere, l’integrità degli stati e la non ingerenza negli affari interni. Come pedina di scambio, il Cremlino si impegnava formalmente a rispettare i diritti umani e alcune libertà civili, inclusa quella di pensiero, coscienza, religione o credo. Proprio su questo punto diversi gruppi di dissidenti in Unione Sovietica hanno basato le loro rivendicazioni negli anni successivi, dando luogo a vari “comitati Helsinki”.
L’OSCE con le sue attuali istituzioni permanenti è stata istituita solo nel 1994. La CSCE venne scelta come la piattaforma per risolvere le problematiche emerse con la caduta dell’Unione Sovietica e la Jugoslavia, i conflitti in primis.
Da allora, l’Organizzazione ha continuato a lavorare sia nei Balcani che nell’area post-sovietica. Insieme alle sue attività più note – il monitoraggio elettorale e i negoziati per la risoluzione dei conflitti, – l’OSCE collabora con gli stati partecipanti in molti altri campi , in base a quello che viene definito come un approccio globale alla sicurezza.
La crisi e il futuro
Negli anni duemila l’Organizzazione è entrata in un periodo di crisi. Nei Balcani è stata parzialmente rimpiazzata dall’Unione Europea con la sua politica di allargamento nella regione. Nel Caucaso, ha visto il suo ruolo limitato dalla guerra in Ossezia del Sud e la conseguente chiusura della missione in Georgia per volontà russa (2008), seguita, poi, da quella delle missioni in Azerbaigian (2014) e Armenia (2017).
L’organizzazione è uscita, in parte, da questo limbo per conseguenza della guerra in Ucraina. Nel 2014 venne, infatti, istituita una missione per monitorare e risolvere il conflitto in corso nella parte orientale del paese.
Se la chiusura delle missioni nel Caucaso ha mostrato tutti i limiti delle decisioni per consenso, la possibilità di avere una piattaforma di dialogo già pronta con i rappresentanti di Mosca, Kiev e Washington è ciò che ha reso l’OSCE particolarmente adatta al compito da svolgere in Ucraina.
L’attuale debolezza dell’Organizzazione si rispecchia nell’aggravarsi della situazione nei suoi paesi partecipanti. Solo nell’ultimo mese c’è stata un’escalation del conflitto tra Armenia e Azerbaigian. I canali per risolvere queste crisi ci sono, manca la volontà degli stati di utilizzarli. Per quanto sembri anacronistica l’idea di un gruppo di ambasciatori che si incontra in un palazzo viennese, nessuna alternativa credibile all’OSCE è stata finora creata.
Iniziative
Ventinove organizzazioni, tra cui OBCT, hanno firmato una dichiarazione a sostegno della libertà dei media , dopo la decisione dei governi di Azerbaigian e Tagikistan di bloccare il rinnovo del mandato di Harlem Désir, rappresentante dell'OSCE sulla libertà dei media.
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