Nel 2013 250.000 cittadini europei hanno aderito ad un'iniziativa civica su pluralismo e libertà dei media, senza però raggiungere l'obiettivo del milione di firme necessarie. Il problema di armonizzare le normative europee sul tema della libertà e del pluralismo dei media resta all'ordine del giorno. Quale la situazione alla vigilia della nuova Commissione europea? Un'intervista a Lorenzo Marsili
Nel 2013 un’ampia coalizione transnazionale di organizzazioni della società civile, media e attivisti ha lanciato una mobilitazione civica per introdurre nuove norme a garanzia del pluralismo e della libertà dei media a livello europeo. La campagna è stata condotta attivando la procedura dell’Iniziativa dei Cittadini Europei (ICE), uno strumento di democrazia partecipativa introdotto nel 2012 dal Trattato di Lisbona che consente alla società civile europea di proporre interventi normativi a livello comunitario attraverso la raccolta di almeno 1 milione di firme di cittadini di almeno un quarto degli stati membri. L'iniziativa sulla libertà dei media si è fermata molto lontano dal milione di firme necessarie per portare la proposta all'attenzione della Commissione europea, ma la necessità di un intervento comunitario in questo settore resta una priorità.
Abbiamo intervistato uno dei promotori di questa iniziativa, Lorenzo Marsili, giornalista, attivista e cofondatore di European Alternatives , organizzazione transnazionale della società civile che promuove i valori di democrazia, eguaglianza e cultura oltre lo Stato-nazione.
Con European Alternatives nel 2013 avete lanciato una cosiddetta Iniziativa dei cittadini europei (ICE) su pluralismo e libertà dei media, in cosa consisteva la proposta?
Abbiamo proposto una direttiva europea sulla libertà e sul pluralismo dell’informazione. Le Iniziative dei cittadini europei hanno l’obbligo di ricadere all’interno delle attuali competenze della Commissione europea – molto limitate nel caso dell’informazione. Abbiamo lavorato a lungo con un pool di esperti per trovare l’appiglio giusto. La richiesta era dunque piuttosto tecnica ma concerneva la garanzia dell’indipendenza dal potere politico degli organi di controllo e supervisione (come le AgCom) nonché delle nomine apicali nelle aziende pubbliche di informazione.
Quali sono stati i motivi principali che vi hanno spinto a utilizzare questo strumento propositivo? Com’è stata accolta la raccolta firme e dov’è arrivata?
Il ragionamento di base è molto semplice: accettare la degenerazione della libertà dell’informazione in un paese dell’Unione significa provocare un effetto domino su tutti gli altri. All’epoca vedevamo molto chiaramente come la mancanza di qualunque azione politica nei confronti del controllo dei media da parte dell’allora governo Berlusconi avesse facilitato e incentivano Viktor Orbán a stringere sempre più fortemente le maglie del controllo sull’informazione in Ungheria. E l’impunità con cui questo accadeva, a sua volta, spingeva altri leader autoritari a seguire l’esempio.
Siamo riusciti a promuovere una bella coalizione transnazionale – che andava dal principale sindacato tedesco, ai Verdi, alla Fnsi italiana, alle tante ONG che lavorano sullo stato di diritto in Ungheria e Bulgaria, paese in cui abbiamo raccolto oltre 50.000 firme. Abbiamo perfino avuto il sostegno pro bono della Saatchi&Saatchi per sviluppare un’azione creativa online che ha “oscurato” il sito di Repubblica per una mattinata. Alla fine siamo riusciti a raccogliere circa 250.000 firme.
Perché non ha funzionato? Ha comunque smosso qualcosa?
Lo strumento delle ICE riscontra almeno tre difficoltà. Il primo è di carattere tecnico: sono richiesti veramente molti dati personali, a fronte di una cultura, soprattutto nei paesi del nord Europa, non abituata a questo. La seconda ha a che vedere con la limitatezza delle competenze europee, il che porta spesso, soprattutto in ambiti a forte controllo nazionale, a dover avanzare richieste meno dirompenti di quanto sarebbe necessario per stimolare una forte mobilitazione popolare.
In terzo luogo, pochissime ICE hanno effettivamente portato a cambiamenti legislativi reali, ed esiste ormai una certa disaffezione verso lo strumento. Rimarrà famosa la risposta ricevuta dall’Iniziativa europea per l’acqua pubblica, che raccolse oltre due milioni di firme per sentirsi rispondere, con una lettera della Commissione europea, “No grazie”. E questo rischia di portare anche alla percezione di un’Europa tecnocratica e arbitraria, in cui le decisioni non sono frutto di una discussione politica trasparente. Molto meglio sarebbe, invece, coinvolgere il Parlamento europeo nell’analisi delle ICE. Così un’eventuale bocciatura non verrebbe percepita come un arbitrio tecnocratico ma come una scelta democratica di una maggioranza politica.
Nonostante ciò, le ICE rimangono uno strumento importante per organizzare una mobilitazione veramente transnazionale – ed è ciò di cui l’Europa ha bisogno. E anche se la Commissione europea dovesse bocciare la richiesta o il numero di firme essere insufficiente, posso garantire che l’impatto sulle dinamiche del Parlamento europeo è reale. Ne abbiamo avuto esempio nell’accelerazione del processo che ha portato recentemente al famoso rapporto “Sargentini” sull’Ungheria e prima ancora al rapporto “Tavares” – entrambe figure strettamente coinvolte nella nostra ICE.
Dal 2014 ad oggi in che modo le sembra si sia evoluta la condizione della libertà dei media in Europa?
La situazione in paesi quali Ungheria e Polonia è andata peggiorando, al punto che non è più realisticamente possibile parlare di stampa libera. In paesi come la Romania o la Bulgaria una situazione francamente negativa è rimasta tale, seppure senza arrivare agli eccessi ungheresi o polacchi. Nell’Europa occidentale vediamo che una fortissima concentrazione della proprietà rimane un problema dirimente ad esempio in Gran Bretagna, dove la malattia della Brexit è stata aizzata in maniera non trascurabile dallo strapotere delle aziende di Rupert Murdoch.
L’Italia continua invece a scontare un sistema pubblico troppo vittima delle maggioranze di turno, incapace di trasformarsi in una vera e propria azienda “pubblica” o di “bene comune” e non alle dipendenze dell’esecutivo in carica. Scontiamo poi un panorama privato molto concentrato e ridotto, anche sul lato della raccolta pubblicitaria. Occorrerebbe subito varare una vera legge contro il conflitto di interesse, modificare l’assurda legge Gasparri sulle concessioni pubblicitarie e restituire un degno finanziamento pubblico all’editoria.
Quale la lezione appresa da questa campagna?
Il fatto che vi sono problematiche europee che, se non affrontate in tempo, si spargono da un paese all’altro come un’epidemia.
Nel maggio 2018 il PE ha approvato una risoluzione in difesa della libertà di stampa in Europa. Come si colloca il nuovo Parlamento sul tema? La risoluzione del 2018 potrebbe ora avere un seguito a livello istituzionale nell'UE?
Il Parlamento ha spesso agito con coraggio. Penso, ad esempio, al rapporto a firma di Rui Tavares sullo stato di diritto e al rapporto Sargentini. La Commissione europea, invece, ha sempre preferito ritardare e insabbiare. Questa Commissione parte, per certi versi, svantaggiata. Il candidato socialista alla presidenza, Frans Timmermans, è stato bocciato dai paesi dell’Est – con l’Italia nella posizione di utile idiota – proprio per le sue posizioni forti su questo tema. L’elezione di Ursula von der Leyen, invece, è stata salutata da Orbán come una vittoria. Sta ora a lei dimostrare il contrario.
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