Yousef Alhelou (profilo personale Linkedin)

Yousef Alhelou (profilo personale Linkedin)

"L’intero popolo palestinese viene punito per l’attacco del 7 ottobre, eppure i giovani di Gaza non hanno nemmeno votato Hamas. Non tutta Gaza sostiene Hamas, anche se non hanno alcuna scelta". Intervista con Yousef Alhelou, giornalista e analista politico palestinese

07/11/2024 -  Ivana Perić

(Originariamente pubblicato da Novosti , il 9 ottobre 2024)

Yousef Alhelou è un giornalista e analista politico palestinese, attualmente residente a Londra. È nato a Gaza, dove ancora vive gran parte della sua famiglia. Dal 2007 lavora come corrispondente e reporter per diversi media internazionali, tra cui Real News Network, BBC ed Electronic Intifada. Ha coperto il conflitto a Gaza nel 2008 e nel 2012, continuando a scrivere della sua città natale per diverse testate, ma anche sul suo profilo Instagram, seguito da un milione di persone.

Il settimanale Novosti ha incontrato Yousef a Zagabria, una delle tappe del viaggio che ha portato il giornalista palestinese a percorrere i Balcani per parlare di Gaza con tutti quelli che sono disposti a dialogare.

Lei racconta la realtà di Gaza da quasi vent’anni. Cos’è cambiato in questi due decenni e cos’è invece rimasto uguale?

Sono nato a Gaza ed è lì che ho iniziato a lavorare come giornalista, seguendo il conflitto del 2008 e quello del 2012. Successivamente, ho avuto la fortuna di ottenere una borsa di studio dall’Università di Oxford che mi ha permesso di trasferirmi all’estero e di continuare a fare giornalismo.

Parlando di cambiamenti, le precedenti guerre lanciate da Israele oggi mi sembrano uno scherzo in confronto al conflitto in corso. Quello che invece non è cambiato è il fatto che Israele, pur sostenendo di aver ritirato le sue forze nel 2005, continua ad occupare Gaza.

Gaza è un’enorme prigione. Non abbiamo né porti né aeroporti, siamo completamente isolati dal resto del mondo. Israele continua a controllare Gaza per via aerea, marittima e terrestre, controlla l’accesso a Internet, energia elettrica, acqua, tutte le risorse. Di tanto in tanto, con la scusa di doversi difendere, Israele lancia nuove invasioni, prendendo di mira i movimenti di resistenza, e soprattutto Hamas. Con ogni nuova guerra, le forze israeliane utilizzano nuove armi, tanto che Gaza è diventata un laboratorio di sperimentazione per l’industria bellica.

Però Gaza è anche il cuore della resistenza palestinese. La maggior parte della popolazione (i due terzi) è composta da profughi palestinesi [costretti a fuggire dalle loro case durante la guerra del 1948] e dai loro discendenti che vogliono semplicemente tornare nella propria terra. Metà della popolazione è costituita da giovani che negli ultimi vent’anni non hanno conosciuto altro che violenza e distruzione.

Gaza è sotto assedio, compresa la costa, persino i pescatori vengono attaccati. Provate a immaginare l’effetto psicologico di questa situazione. Se oggi il futuro dei palestinesi appare cupo è perché Israele sta cercando di cacciarli definitivamente dalla loro terra. Gli attuali sforzi in questa direzione – caratterizzati da un’intensità e una crudeltà inedite – sono parte integrante di una campagna di pulizia etnica che Israele sta portando avanti dal 1948.

Stando alle stime istituzionali, negli ultimi dodici mesi a Gaza almeno 42mila persone sono state uccise e circa 100mila ferite. Gran parte delle infrastrutture è distrutta, la mancanza di beni di prima necessità è ormai una costante, si soffre la fame. Al momento, la maggior parte della popolazione è confinata nel 12% del territorio della Striscia di Gaza, e recentemente l’esercito israeliano ha emesso l’ennesimo ordine di evacuazione della popolazione civile da nord verso sud della Striscia. Come avvengono queste evacuazioni ? Lei come vede la situazione a Gaza?

All’inizio di questa guerra genocida Israele aveva emesso diversi ordini di evacuazione della popolazione del nord, costringendo le persone a spostarsi a sud. Quelli che erano partiti adesso non possono tornare, e non hanno più nemmeno un posto dove tornare, perché le loro case non ci sono più. Non c’è più nulla. Oltre il 65% delle case e degli edifici a Gaza è stato distrutto. Le persone evacuate verso sud poi sono state più volte costrette a spostarsi nuovamente: da Rafah a Khan Yunis, poi a Deir al Balah, e così via. Durante questi spostamenti, gli israeliani hanno sparato e lanciato bombe, uccidendo molti civili.

Quello degli sfollati palestinesi di Gaza è un viaggio a dir poco frustrante, tutti gli spostamenti avvengono all’interno di un perimetro di 40 chilometri, dove nessun luogo è sicuro. Nella Striscia di Gaza non ci sono né bunker né edifici fortificati né rifugi. Gli sfollati vivono in campi improvvisati e tende, senza potersi proteggere dal caldo, dal freddo e dalle bombe. In diverse occasioni, ordigni del peso di una tonnellata sono stati lanciati sui civili nelle tende, letteralmente spazzando via i loro corpi.

In alcune interviste lei ha affermato che si tratta di una punizione collettiva del popolo palestinese…

Esatto. L’intero popolo palestinese viene punito per l’attacco di Hamas del 7 ottobre [del 2023], eppure i giovani di Gaza non hanno nemmeno votato Hamas. Non tutta la popolazione di Gaza sostiene Hamas, anche se non hanno alcuna scelta. Non ci sono alternative. L’Autorità nazionale palestinese non è presente a Gaza e le forze internazionali non possono entrarvi. Israele non rinuncia alla sua politica anche quando i palestinesi protestano e resistono in modo pacifico.

Israele non vuole che venga creato uno stato palestinese ed è chiuso a qualsiasi dialogo. Dall’inizio di questo genocidio, centinaia di civili palestinesi sono stati uccisi anche in Cisgiordania, dove gli attacchi lanciati dai coloni israeliani, come anche i loro insediamenti, continuano a moltiplicarsi. Attualmente, circa dodicimila prigionieri politici palestinesi – tra cui almeno trecento bambini – sono detenuti nelle carceri israeliane senza accuse concrete, senza alcun processo. La storia non è iniziata il 7 ottobre del 2023. Sono ormai 76 anni che le persone soffrono a causa delle uccisioni di massa, del colonialismo e dell’occupazione, portati avanti con la scusa dell’autodifesa di Israele.

Ecco soffermiamoci su questo discorso. I media mainstream statunitensi e britannici, ma anche quelli croati, continuano a parlare del diritto di Israele a difendersi. Lei come commenta il modo in cui i media affrontano le questioni legate a Gaza e alla Palestina in generale?

Anche in passato i mezzi di informazione occidentali erano di parte, schierandosi apertamente con Israele, però con la diffusione dei social non possono più ignorare la sofferenza dei palestinesi. Migliaia e migliaia di immagini terrificanti di bambini palestinesi uccisi e civili massacrati hanno fatto il giro del mondo grazie ai social. I cittadini e i giornalisti che intervengono sui social hanno spinto alcuni media mainstream a cambiare il proprio modo di parlare di Palestina e a rendersi conto che, se non dovessero dare voce anche ai palestinesi, col tempo perderebbero credibilità. Ovviamente, ci sono anche le testate come Al Jazeera, esempi lodevoli di un giornalismo coerente e credibile.

Tornando ai social, se da un lato offrono svariate possibilità, dall’altro tendono a censurare qualsiasi contenuto pro-Palestina. Io, ad esempio, ho un milione di follower, e dovrei averne dieci milioni, però non riesco a raggiungere questo numero per via della censura e delle limitazioni imposte dall’algoritmo. D’altra parte, i soldati israeliani e i mercenari da ogni dove condividono sui social le immagini dei propri crimini senza subire alcuna censura né restrizione. Questo esempio dimostra quanto anche i social siano faziosi e ipocriti.

Stando alle stime del ministero della Salute palestinese, dal 7 ottobre 2023 a Gaza sono stati uccisi almeno 175 giornalisti e giornaliste. Una delle vittime è Hassan Hamad, 19 anni, ucciso dopo essere stato ripetutamente minacciato dai soldati israeliani per il suo lavoro giornalistico. Eppure, i giornalisti di Gaza, penso soprattutto a quelli che quotidianamente pubblicano notizie sui social, continuano a documentare il genocidio in corso. Quali sfide si trovano ad affrontare i suoi colleghi a Gaza?

Negli ultimi dodici mesi a Gaza sono stati uccisi più giornalisti che in qualsiasi altro conflitto nel mondo negli ultimi trent’anni. Secondo il Comitato per la protezione dei giornalisti , dal 1992, quando hanno iniziato a raccogliere dati, nessun conflitto è stato così pericoloso per i giornalisti come lo è la guerra in corso a Gaza.

Se non fosse per i giornalisti che continuano a rischiare la propria vita per seguire il conflitto a Gaza, non saremmo mai venuti a conoscenza di tantissime vicende. Oggi la vita a Gaza è pericolosa per tutti, vengono uccisi civili, medici, operatori umanitari, funzionari internazionali. I giornalisti però corrono rischi maggiori e vengono perseguitati con insistenza. Gli omicidi di giornalisti poi vengono giustificati sostenendo che fossero stretti collaboratori di Hamas. Siamo stanchi di queste bugie.

L’abbiamo incontrata durante il suo viaggio in Croazia. Qual è la sua posizione riguardo alle responsabilità europee per il genocidio di Gaza? Cosa avrebbero dovuto fare e cosa possono ancora fare i paesi europei?

L’Unione europea resta un attore importante dopo che l’amministrazione statunitense, non avendo esercitato sufficienti pressioni su Israele, si è dimostrata incapace di essere un mediatore di pace onesto.

L’UE dovrebbe impegnarsi per arrivare un accordo di cessate il fuoco, ma anche per porre fine all’occupazione. L’Europa dovrebbe insistere sulla responsabilità e sulla perseguibilità dei crimini. Israele ha attaccato ospedali, scuole, cimiteri. I soldati israeliani hanno commesso violenza sessuale contro le donne, hanno umiliato i civili, lasciandoli morire di fame. L’unica cosa che non hanno ancora fatto è sganciare una bomba atomica su Gaza. Ora qualsiasi paese potrebbe tentare di fare quello che Israele sta facendo a Gaza, giustificandosi appunto con l’impunibilità di Israele. Per i palestinesi il diritto internazionale è ormai svuotato di qualsiasi senso. Quelli che hanno studiato diritto internazionale sono talmente delusi da bruciare i libri e affermare che l’Onu è una falsità.

Il mondo ci ha abbandonati. C’è una congiura del silenzio internazionale. La mia famiglia vive a Gaza, e mi sento in colpa quando mangio, mi sento in colpa perché sono al sicuro, mi sento egoista. Continuo ad andare in giro per il mondo ripetendo che i palestinesi vogliono semplicemente riposarsi da tutta questa violenza.

Israele deve porre fine all’occupazione. I cittadini europei possono aiutare, facendo pressione sui politici e sui governi, chiedendo il boicottaggio, le sanzioni, lo stop all’esportazione di armi verso Israele. Sono venuto a conoscenza del fatto che anche la Croazia e la Serbia hanno esportato armi. So che ognuno è concentrato sulla propria vita, diranno che manca la cultura della protesta. Però dovremmo almeno sviluppare una forma di empatia. Studiate la cultura palestinese, proponete ai palestinesi una collaborazione, create una rete tra università, informatevi, organizzatevi.

Sono contento di vedere che i cittadini croati hanno iniziato a informarsi. Credo che le giovani generazioni possano contribuire a cambiare la narrazione. Se non altro, tra vent’anni chiederanno ai loro genitori spiegazioni sul perché non abbiano fatto nulla per evitare questo genocidio.

Israele lancia attacchi sempre più intensi anche nel nuovo vecchio fronte in Libano. Secondo lei, come evolverà la situazione, considerando anche l’impatto delle dinamiche politiche interne statunitensi e israeliane?

Oggi in Libano vengono utilizzate le stesse tattiche come a Gaza, quindi ordini di evacuazione, bombardamenti, distruzioni, uccisioni di civili, medici, giornalisti. Le azioni di Israele restano impunite, un’impunità assoluta. Penso che gli Stati Uniti abbiano capito che Israele sta cercando di guadagnare tempo, continuando ad uccidere civili in assenza di un progresso politico. Pur essendo insostenibile, questa situazione potrebbe protrarsi ancora per qualche tempo. La svolta potrebbe giungere con le elezioni negli Stati Uniti e la nuova amministrazione statunitense potrebbe iniziare a spingere per il cessate il fuoco.

Però è la società israeliana a dover fermare lo spargimento di sangue e rendersi conto che i palestinesi non sono vittime collaterali né meri numeri. I crimini a cui assistiamo non possono che acuire odio e rabbia. La politica israeliana è profondamente sbagliata dal punto di vista strategico e si rivelerà disastrosa per la società israeliana a lungo andare. Con la sua politica, Israele ha creato decine di migliaia di nuovi combattenti tra i palestinesi, portando alla recrudescenza dell’antisemitismo.

La società israeliana sta pagando anche le conseguenze economiche della guerra in corso. Non è quindi da escludere che nei prossimi mesi Netanyahu venga costretto a dimettersi. Questo sarebbe in primo passo verso la pace. La vera libertà arriverà però solo con la fine dell’occupazione. Tornando al discorso sulla solidarietà globale, dobbiamo continuare a batterci insieme per la libertà. Nessuno sarà libero finché i palestinesi non conosceranno la libertà.


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