Donne, e madri, che lasciano i figli al paese di origine per venire a lavorare in Italia. Sono circa un milione e ricoprono il ruolo di badanti, o meglio "addette alla cura della persona". Tra loro molte sono georgiane, indispensabili ma spesso invisibili, come emerge da un recente studio. Riceviamo e volentieri pubblichiamo
Era un giovedì quando Marina (nome di fantasia) arrivò in Italia, nel 2012, per diventare una tra le oltre un milione di badanti. Poteva così mantenere la famiglia lasciata in Georgia: due figlie adolescenti e il marito che aveva avuto un incidente pochi mesi prima. La maggior parte delle badanti in Italia sono libere il giovedì pomeriggio e Marina aveva sentito parlare in georgiano tante connazionali incontrate proprio quella prima sera mentre camminava, confusa, per le strade di Bari. L’emozione più forte che aveva provato era la paura: si ricorda di come avesse subito immaginato i tanti bambini rimasti in Georgia senza le loro madri. Questo pensiero fu talmente forte e amaro che, nei suoi primi anni di lavoro in Italia, Marina evitava di uscire il giovedì, così come la domenica.
I lavoratori domestici con regolare contratto nelle famiglie italiane sono circa 920mila (L’Osservatorio DOMINA, anno 2021), ma se si considerano anche i lavoratori irregolari, il numero sale a oltre due milioni. Circa la metà di questi lavoratori sono badanti e la maggior parte proviene da dieci paesi: Romania, Ucraina, Filippine, Moldavia, Perù, Albania, Marocco, Ecuador, Georgia e Polonia.
Sono tante, sono diverse, sono indispensabili, si prendono cura delle persone anziane, ma rimangono spesso invisibili come persone, come individui. Lo sostiene Tiziana Francesca Vaccaro, attrice e autrice, che racconta la storia di una badante nel suo spettacolo, Sindrome Italia, interpretato anche nella versione di libro a fumetti in collaborazione con Elena Mistrello. Sono storie di vite sospese, di anni difficili, di esperienze complesse, con emozioni forti, contrastanti e, spesso, inespresse.
La scelta delle badanti di lasciare il proprio paese e la propria famiglia è infatti forzata perché non ci sono possibilità di lavoro nei paesi di origine. Molte di loro si ricordano come, al momento di partire per l’Italia, speravano di tornare a casa presto, al massimo dopo un paio d’anni e invece, molto spesso, sono rimaste in Italia per oltre un decennio. Nella maggior parte dei casi sono le uniche a sostenere le proprie famiglie, e nelle famiglie - si sa - emergono sempre dei nuovi bisogni. Il lavoro delle badanti è duro e faticoso, più emotivamente che fisicamente. Spesso si sentono in trappola, come in uno dei disegni della graphic novel Sindrome Italia di Tiziana Francesco Vaccaro ed Elena Mistrello.
Gli studiosi dei processi migratori falliscono nel descrivere le caratteristiche “generali” delle badanti perché le loro storie sono molto variegate così come sono diverse le loro personalità. Per un buon esito delle esperienze migratorie diventa fondamentale la forza emotiva sia delle badanti stesse, sia dei familiari rimasti a casa, dei cosiddetti “left behind”. Senza questa forza, potrebbe svilupparsi l’ormai famosa “sindrome Italia” correlata a problemi psicologici che a volte si dimostrano assai gravi.
Un recente studio dell’Università di Bologna, realizzato nel 2022 nell'ambito del corso di dottorato di Sociologia e Ricerca Sociale, dal titolo "Lives apart? Experiences of transnational motherhood by Georgian labour migrants to Italy and their children", mostra però che l’esperienza della migrazione lavorativa può anche essere complessivamente positiva, nonostante le difficoltà che, inevitabilmente, l’accompagnano.
Un aspetto particolarmente sensibile – e difficile – di questa esperienza è quello della maternità transnazionale. Sono numerose le dualità e le contraddizioni che fanno parte di questa esperienza. Innanzitutto, nonostante la loro assenza da casa, le madri non si “staccano” dalla loro famiglia e riescono a mantenere varie forme di presenza, soprattutto grazie alle possibilità che offrono Internet e le tecnologie di comunicazione contemporanee. Marina, ad esempio, ogni tanto partecipa a distanza alle preparazioni festive in casa sua, in Georgia, anche esaminando come le sue figlie preparano la tavola per le feste.
Sono complesse le dualità delle esperienze della maternità transazionale. Lavorando all’estero, le madri, in effetti, sacrificano il loro presente, rinunciano quasi completamente alla vita sociale durante gli anni della migrazione, sono focalizzate sul loro lavoro. Nonostante questo, si sentono in colpa per avere lasciato i figli a casa. Inoltre, per quanto sia traumatica l’esperienza della separazione dalla loro famiglia, le badanti sostengono che se dovessero decidere di nuovo, sceglierebbero comunque di migrare, sempre per la mancanza di adeguate alternative (o alternative accettabili) nei loro paesi.
Nonostante la sua importanza, Internet non si presenta come una soluzione per alleviare il dolore che la separazione comporta. “Non importa dove sia la madre, lei è comunque sempre con i suoi figli”, affermano le immagini, spesso commoventi, che le badanti condividono sui loro profili social. Le madri sono andate via dalle proprie case proprio per proteggere i loro figli e assicurare loro un futuro migliore: è questa la propria auto percezione dominante durante gli anni della migrazione. “Solo quando hai dei figli, comprendi che ci sono delle vite più preziose della tua”.
La migrazione delle madri sfida, anche se inconsciamente, la classica “ideologia” di maternità: le madri non sono più fisicamente onnipresenti nelle vite dei loro figli. Hanno scelto di migrare perché sono focalizzate su progetti di cura dei loro figli a lungo termine e lo considerano un dovere. La migrazione delle madri crea pratiche ed esperienze di una diversa maternità, accompagnata da numerose imprevedibili sfide, e quindi più difficile da affrontare. In molte famiglie, però, questa nuova maternità non è meno efficace di quella tradizionale. Difficile dire come si sarebbero sviluppati i rapporti intergenerazionali se le madri fossero rimaste a casa, ma secondo tante testimonianze, la separazione può sfociare anche in una comprensione migliore tra madri e figli. La distanza non necessariamente li separa emotivamente. “Da piccola ero arrabbiata perché la mamma non c’era, ma ora mi sento sempre più legata a lei. Ora la capisco”, - così riflette la figlia ventiduenne di Marina, otto anni dopo la partenza della madre.
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