Lo scrittore ed ex-architetto greco Alexis Stamatis riflette sull'intimo rapporto tra cittadini e ambiente urbano partendo dal caso della sua Atene. Un rapporto che racconta anche dello stato della democrazia e delle inuguaglianze nella società globale
(Originariamente pubblicato sul sito del progetto euPOLIS , poi ripreso dal quotidiano Danas , il 16 dicembre 2023)
Alexis Stamatis è uno degli intellettuali greci coinvolti nel progetto euPOLIS , incentrato sullo sviluppo di soluzioni innovative e integrate per migliorare la qualità della vita negli ambienti urbani. Al progetto partecipano diverse città europee, tra cui Atene e Belgrado. Architetto di professione, scrittore per vocazione, in questa intervista Stamatis offre un punto di osservazione privilegiato sulla capitale greca, riflettendo sul nesso tra architettura, ambiente e cittadinanza attiva.
Nel suo nuovo romanzo lei cita il poeta Periklīs Giannopoulos secondo cui “in Grecia la vita si vive all’aperto”, nelle taverne e nelle piazze. Ritiene che oggi Atene sia ancora adatta alla vita all’aperto come lo era in quell’esaltante periodo successivo alla caduta della dittatura dei colonnelli?
Recentemente, ho organizzato una passeggiata letteraria per presentare il mio nuovo libro, partendo dal Politecnico di Atene, nel noto quartiere di Exarchia. Nel periodo immediatamente successivo alla caduta del regime militare, Exarchia fu una fucina di esperienze, sia positive che negative, un ambiente brulicante di vita dove gli intellettuali discutevano delle nuove idee politiche. Ricordo che all’epoca noi studenti, finite le lezioni, ci affrettavamo alle taverne dove regnava un’atmosfera genuina, seppur caotica. Oggi, con la sua stazione della metropolitana, più che un punto di incontro, Exarchia è un grande calderone, riecheggiando così il destino di molte metropoli. La vita sociale sembra meno articolata, considerando che molte persone ormai lavorano da casa, e quindi vi trascorrono più tempo. Da scrittore, pur essendo propenso al lavoro solitario, mi manca quel fremente ritmo di vita di una volta. Assistiamo ad una trasformazione della vita sociale, particolarmente evidente tra le giovani generazioni che frequentano locali rumorosi, facendosi distrarre dai loro smartphone e da tante altre cose.
Atene, scelta dagli antichi greci per la sua posizione eccezionale, è una città facilmente percorribile. Dall’Acropoli in mezz’ora si arriva al mare percorrendo uno dei suoi ampi viali. La città contemporanea però si sviluppa sempre più verso l’alto, dando priorità alle attività commerciali rispetto a progetti e legami più incisivi. Atene vanta una grande diversità urbanistica: ogni angolo della città offre un’atmosfera peculiare. Questo intrecciarsi di elementi diversi – caratteristica che distingue Atene dalle metropoli meticolosamente pianificate, come Parigi – riflette il graduale sviluppo della capitale greca. Attualmente, stiamo cercando di adeguare questa diversità intrinseca della città e di svilupparla ulteriormente, tenendo conto dello stile di vita prevalente che permette agli ateniesi di trascorrere gran parte del tempo all’aperto nove mesi all’anno.
È possibile evidenziare alcuni cambiamenti in ambito architettonico e urbanistico dopo il golpe dei colonnelli, che segnò una profonda svolta anche nella vita sociale della Grecia? Ad esempio, in ex Jugoslavia dopo la Seconda guerra mondiale, oltre all’architettura brutalista, erano emersi enormi conglomerati abitativi dotati di spazi comuni, molti dei quali però col tempo sono stati lasciati al degrado…
Un fenomeno analogo si era verificato anche ad Atene, ma nel periodo precedente al golpe. Con l’arrivo di molti migranti in cerca di casa in una città con la capacità di carico antropico già ridotta, si era optato per la costruzione delle cosiddette πολυκατοικία (edifici residenziali multipiano), segnando un netto distacco dall’architettura delle case operaie in Inghilterra o a Berlino Est. Pur trattandosi di un fenomeno architettonico interessante, non sono mai riuscito a capire come si possa vivere in tali spazi. Un’interpretazione errata della filosofia di Le Corbusier condensata nella formula “alti edifici, bassa densità” aveva portato a conseguenze inaspettate.
Puntando sull’edilizia residenziale multipiano si era cercato di aumentare il verde urbano, finendo però col creare spazi abitativi angusti. Questo è uno dei motivi per cui ho abbandonato l’architettura. La legislazione ha poi aggravato il problema, prevedendo che la superficie dei balconi non debba superare 1,4 metri quadrati, una misura davvero irragionevole in un paese che vanta circa trecento giorni di sole all’anno. Le leggi restrittive hanno portato al moltiplicarsi di edifici multipiano in cemento armato che oggi rappresentano quasi il 70% del tessuto urbano di Atene. Pur non costituendo un insieme omogeneo in termini di altezza e aspetto esteriore, questi edifici, nel loro complesso, sono esteticamente sgradevoli e monotoni.
La tendenza a ridurre gli spazi abitativi tanto da farli assomigliare ad una scatola da scarpe, senza balcone e senza un pezzo di cielo sopra la testa inevitabilmente incide sulla salute fisica e mentale di chi ci vive…
Come ho accennato prima, è per questo che ho abbandonato il mestiere dell’architetto. Per me l’architettura è una disciplina filosofica e artistica, si tratta di creare e restituire spazi alla comunità. Quando mi sono reso conto di dover lavorare in un ambiente troppo regolamentato – “questa camera deve essere così, la cucina va fatta così,…” – ho deciso di abbandonare. Come può una struttura architettonica predefinita riflettere il carattere di chi ci abita ed entrare in dialogo con le strutture circostanti? Non puoi semplicemente spargere edifici qua e là, questa non è architettura. Ogni città è un organismo vivente, ha un suo passato, un’evoluzione storica che l’architetto deve rispettare. Certo, le città possono cambiare radicalmente, con effetti più o meno positivi, e va bene così. Nei Balcani però lo stato di salute dell’urbanistica è preoccupante, ed è destinato a peggiorare considerando il crescente impatto dei cambiamenti climatici.
Il protagonista del suo romanzo Bar Flaubert [in Italia pubblicato da Crocetti editore nel 2003] riflette sullo scopo dell’architettura e conclude che il fatto di essere insoddisfatti delle città in cui viviamo riflette la nostra disillusione nei confronti della società in generale. Ritiene che le tendenze architettoniche e urbanistiche possano essere indicative di mutamenti dei comportamenti e dei valori sociali?
Certamente. Il carattere di una città e la mentalità dei suoi abitanti sono inestricabilmente legati, come due protagonisti di un intimo spettacolo quotidiano. Purtroppo, questo legame viene spesso ignorato. Quando entriamo in casa, chiudendoci la porta alle spalle, tendiamo a percepire tutto ciò che resta al di là della porta come “un fuori” indistinto, in contrasto con quel dentro che consideriamo il nostro spazio privato. La nostra prospettiva, influenzata tanto dalla cultura quanto dall’educazione, spesso rimane confinata dentro le quattro mura domestiche. Per questo è di fondamentale importanza coltivare la consapevolezza dell’esistenza umana come parte integrante di un mondo più grande. È incoraggiante che questa consapevolezza pian piano stia trovando il suo posto nei programmi scolastici, favorendo una prospettiva più ampia.
Secondo lei, gli ateniesi amano la loro città? Sono orgogliosi di essa?
No, perché non sono capaci di distanziarsi dalla quotidianità. Spesso faccio un esperimento. Vado nel centro storico di Atene e dico a me stesso: “Adesso sono un turista, uno straniero, vengo ad esempio dalla Serbia. Cosa vedo?”. Perché quando vado in Serbia, osservo, divento un flâneur, vedo le cose diversamente da chi ci abita, percepisco la molteplicità di odori e immagini, e costruisco una narrazione tutta mia. Le persone tendono a dare per scontata la città in cui vivono. Ormai nessuno osserva le città, tranne i turisti. Ma i turisti vedono solo ciò che è stato selezionato appositamente per loro.
Lei come vede Atene oggi?
Attualmente vivo nella parte settentrionale di Atene dove le temperature sono di circa cinque gradi inferiori ai valori medi registrati nella città. Se penso alla vita prima dell’aria condizionata, sembrava l’inferno di Dante!
Intorno alla metà degli anni Ottanta, durante un corso post laurea in architettura sostenibile, approfondimmo le problematiche legate alla costruzione di edifici ad alta efficienza energetica. Già allora, c’era chi con lungimiranza metteva in guardia sull’incombente sfida climatica, invocando la necessità di progettare edifici e quartieri ecosostenibili. Non tutto però dipende dagli architetti, servono leggi stringenti. Purtroppo, siamo ancora in attesa di norme esaurienti e vincolanti.
Nonostante l’onnipresenza del discorso sui cambiamenti climatici nelle agende politiche, in Grecia la consapevolezza ambientale è ancora piuttosto debole. Manca il senso di appartenenza alla comunità. I cittadini non hanno un’adeguata consapevolezza del proprio ruolo nella società, dei propri diritti e doveri. È nostro diritto creare un ambiente urbano sostenibile. Tradizionalmente si riteneva che alcune risorse, come acqua e aria, sarebbero state gratuite per sempre. Pensando però al futuro, vi è il timore che l’accesso a queste risorse venga ristretto. Uno scenario che, per quanto fantascientifico possa sembrare, potrebbe diventare realtà.
È opinione diffusa che i cambiamenti sociali avvengano quando le masse iniziano a rivendicare i diritti in precedenza riservati alle élite. In un suo recente saggio, lei affronta la questione delle aspirazioni delle élite di oggi, chiedendosi se le risorse della Terra ormai siano talmente diminuite che l’umanità potrà evolvere solo colonizzando la Luna o Marte. Una colonizzazione che, ovviamente, sarebbe riservata ai privilegiati. Chi sono oggi gli artefici delle trasformazioni sociali e quali valori promuovono?
L’indifferenza delle élite nei confronti delle masse popolari è ormai evidente. I cittadini sono diventati mere pedine da sfruttare per realizzare le grandiose idee di una manciata di miliardari. Se in passato i ricchi contribuivano alla società costruendo ospedali e promuovendo l’educazione, le attuali tendenze, scevre da ogni senso di umanità, puntano sulla commercializzazione. Emerge un divario tra i valori sociali e le motivazioni effettive di chi li promuove. Il denaro resta la forza trainante, motore dell’algoritmo del capitalismo. Questo processo è ormai slegato dall’evoluzione del pensiero umano.
Se un tempo i pensatori rivoluzionari – come Einstein, Tesla e i premi Nobel in varie discipline – erano influenti, oggi l’attenzione si è spostata sui miliardari con aspirazioni imperialistiche, miliardari che ci intrattengono con gli spettacoli, come la diatriba Musk vs Zuckerberg, completamente futili. La concentrazione del potere nelle mani di pochi è un fenomeno pericoloso, soprattutto in un momento storico, come quello attuale, decisamente diverso dall’epoca romana. La parvenza di democrazia sta svanendo, mentre gli assetati di potere sfruttano la tecnologia per manipolare le masse. Ci promettono i beni che, per la loro stessa natura, appartengono alla collettività, dissimulando così le loro vere motivazioni, ossia l’idea che le risorse primarie dovrebbero essere controllate e distribuite tra i pochi.
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