Sono trascorsi 70 anni da quando, il 25 marzo del 1944, gli ebrei di Ioannina, nell'Epiro, vennero deportati ad Auschwitz. Furono una cinquantina a sopravvivere, tra loro Esthir Koen, ancora in vita, ha deciso di regalare la sua testimonianza
(Pubblicata originariamente da E Kathimerini il 7 marzo 2014, selezionato e tradotto da Le Courrier des Balkans e OBC)
Il 25 marzo sarà una giornata dolorosa per Esthir Koen. Incontrerà il Presidente federale tedesco, Joachim Gauck. E' stato lui stesso a chiederle di incontrarla. Tra i cinquanta membri della comunità ebraica di Ioannina sopravvissuti ad Auschwitz, Esthir Koen è una delle due ancora in vita.
“Mi sento un po' strana. Agitata. Vorrei chiedergli da dove è venuto tutto quest'odio che ha portato a bruciare milioni di persone a causa della loro religione. Accettare il perdono? Ciò che hanno fatto è imperdonabile. Non hanno risparmiato nessuno. Li hanno bruciati tutti... E quando ci hanno cacciati dalle nostre case e gettati sulla strada, nessun vicino ha scostato le tende per vedere cosa stava accadendo”.
25 marzo 1944, mattina. Con l'aiuto della gendarmeria greca la Gestapo effettua una “retata” nel quartiere ebraico di Ioannina. 1725 uomini, donne e bambini vengono ammassati sui camion. Solo qualcuno riesce a scappare e darsi alla macchia, tra i quali il futuro marito di Esthir. Gli altri vengono deportati ad Auschwitz. Tra loro i genitori e sei fratelli e sorelle di Esthir, che allora aveva 17 anni.
“L'ultima volta che ho visto i miei genitori è stato sulla rampa d'ingresso a Auschwitz, dove ci hanno separati. Mentre s'allontanava mio padre urlò a me e mia sorella: “Figlie mie, siate in grado di preservare il vostro onore!”.
Più tardi un'altra internata ci ha rasato i capelli. Le ho chiesto cosa era accaduto ai miei genitori. Lei mi ha mostrato i camini dei forni crematori ed ha detto: “Là, bruciano...”. Esthir si è salvata grazie ad una dottoressa ebrea-tedesca e a delle infermiere che l'hanno nascosta quando le SS hanno svuotato la sua baracca per alimentare i forni crematori.
A liberazione avvenuta Esthir è rientrata a casa sua a Ioannina. Lei e la sorella scoprono che sono le uniche sopravvissute dell'intera famiglia. Gli altri sono stati sterminati.
Davanti alla sua casa natale l'attende un altro duro colpo: “Ho bussato alla porta ed uno sconosciuto ha aperto. “Cosa volete”, mi domanda. Gli rispondo che è casa mia. “Ma ti ricordi se c'era un forno in casa tua?” mi dice. “Ma certo, ci si cucinava il pane!”. “Allora smamma. Sei scappata ai forni in Germania ma io ti brucio nel forno di casa tua!”.
Esthir tenterà poi di ricostruire la sua vita. Si sposa con Samuil, scampato alla retata. Ha dei bambini. “Sono venuta a conoscenza del fatto che le nostre due macchine da cucire Singer erano presso il Metropolita. Sono andato a chiedergliele ma lui mi ha risposto che erano state consegnate alla prefettura. Là abbiamo dovuto risalire ai numeri di serie... Pretesti per liberarsi di me. Ho loro mostrato il mio avambraccio, con il marchio di Auschwitz e ho detto loro: 'Questo è l'unico numero che conosco' e me ne sono andata”.
Alla fine degli anni '60 l'ambiente non è ancora amichevole nei confronti dei sopravvissuti. “Un professore di teologia delle scuole superiori ha dato a mia figlia della 'sporca ebrea' perché l'ha incrociata per strada dopo le 9 di sera, il che era vietato, anche se era in mia compagnia. Lei non l'ha sopportato e qualche mese più tardi ha deciso di emigrare in Israele.”
Esthir lascia cadere una lacrima. Perché starsene in silenzio tutti questi anni? “Avevamo paura. Devi capire, nessuno ci amava”.
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