Monolithos al tramonto, Rodi, Grecia - Foto F. Fiori

Monolithos al tramonto, Rodi, Grecia - Foto F. Fiori

Dal piccolo villaggio di Monolithos - sulle colline della parte ovest dell'isola di Rodi - fino alla vetta dell'Ataviros coi suoi 1215 metri, la montagna più alta dell'isola greca. Il maltempo, la nebbia e un incontro curioso

31/05/2024 -  Fabio Fiori

Pedalar ramingo! non in senso negativo, ma letteralmente di ramo in ramo, di strada in strada, incerto su tutto, ad eccezione della curiosità che c’accompagna. Pedalar ramingo sulle strade rodiote, in direzione di Monolithos, sul far della sera, in quella luce tiepida e tenera, che è un indimenticabile abbraccio greco.

Monolithos è un piccolo villaggio sulle colline dell’ovest, che scendono ripide verso il mare, poco lontano dalle rovine del castello costruito alla fine del Quattrocento dai Cavalieri di San Giovanni.

Punto d’avvistamento e difesa, ieri. Punto panoramico e meditativo, oggi. Ci arrivo lasciando la bici alla fine della strada asfaltata che scende dalle alture alle pendici dello sperone di roccia su cui venne edificato il kastro, circondato da un profumato bosco di pini. Si sale a piedi, per una ripida scala in pietra che porta alle mura. Dentro al perimetro nei secoli successivi sono state costruite due chiese, di cui rimane solo quella di San Pantaleo. Entrando, ombre, incensi e silenzi mi rapiscono.

Sprofondo in un lontanissimo mondo buio, circondato da santi barbuti e sante emaciate, cavalieri impavidi e draghi sanguinanti. Qui, in questa misteriosa spelonca ortodossa mi tornano in mente i versi di Kavafis: “Disse un poeta: ‘È più amata / la musica che non si può suonare’. / Così io credo che sia assai più eletta / la vita che non ci è dato vivere.”. Si può dire lo stesso della fede? Appunto sul taccuino.

Esco che il sole s’è già tuffato e a sudovest, sul mar d’argento, si staglia turrito il profilo dell’isola di Karpatos. Intorno a me una bella umanità: poche persone sedute silenziose e adoranti l’astro sacro. In lontananza scampanellio di capre.

Piove, inaspettatamente, il mattino dopo. Sarei voluto partire presto per raggiungere prima di mezzogiorno la vetta dell’Ataviros a 1215 metri, la montagna più alta di Rodi, il suo scabro cuore di pietra. Attesa operosa, perché, dopo aver preparato le borse e caricate sulla bici, prendo qualche appunto e leggo alcune pagine di Durrell.

A lui l’Ataviros, che vede salendo in auto sulla strada da Embonas a Monolithos, appare come un “panettone carbonizzato… che coi fianchi irti di rocce nere aveva un aspetto ancor più medievale”. A me che pedalo in direzione opposta è adesso invisibile, perché avvolto da nuvole bassissime che minacciose vogliono dissuadermi dalla scalata, dalla scoperta di quella che pareva a Durrell un’invenzione umana, enorme abbozzo di una statua mai finita.

Ma non demordo e dopo aver pedalato per un’ora nella profumata pineta che circonda il Gigante, attacco con determinazione la ripida salita, quella dell’unica strada che sale verso la vetta. Non c’è anima viva sulla strada, chiuso da mesi Dias Ataviros, il chiosco al bivio dove un cartello annuncia “Local Products ‘Zeus’ Wine Olive oil Honey Souma”. Quest’ultima è la variante rodiota dell’ouzo, un distillato alcolico fatto a partire dai fichi. Ma per me oggi solo qualche mandorla acquistata prima di partire nell’unico bazar di Monolithos e acqua fresca presa da una delle cascatelle incontrate lungo la strada.

La pendenza aumenta e il bosco di pini mi circonda. Di chilometro in chilometro la salita si fa sempre più irta e la nebbia sempre più fitta; scompaiono i pini e di tanto in tanto appaiono i nuovi moloch energetici: enormi torri eoliche. Confesso che ho un debole estetico e donchisciottesco per queste creature, anche se poi razionalmente critico lo sprawl speculativo e qualche volta dissennato.

La strada, diventata bianca poco oltre il bivio, è ormai disastrata, così mi fermo, lego la bici a un palo e continuo a piedi. La nebbia è ormai fitta e la mia è un’ascesa nell’Ade. Dopo un tornante, anche il vento rinforza rendendo ancor più sinistro il paesaggio. Raffiche violente scuotono arbusti tetri e i pochi alberi scheletrici.

Sulla via per la vetta del monte Ataviros - Foto F. Fiori

Sulla via per la vetta del monte Ataviros - Foto F. Fiori

Poi alla mia sinistra, su un versante molto scosceso, mi sembra di vedere un’ombra umana. Ma una raffica infittisce la nebbia e io cammino accompagnato solo dai lamenti del vento. Invece no! improvvisamente mi taglia la strada un nero fantasma. Piccolo di statura, avvolto in un mantello color catrame che gli copre anche la testa. Ha una fascina sulla schiena che lo fa sembrare ancor più curvo. Io mi blocco, lui si gira. “Chairetísmata fíle”, saluti amico, mi dice. “Yassas”, rispondo, con una delle poche parole greche che conosco. Appoggia a terra il carico e mi indica di sedermi, incominciando a parlarmi in greco.

I am Italian. Do you speak English?”. “Óchi, óchi!”, risponde scuotendo la testa in senso negativo. A gesti mi fa capire che non è un problema e mi invita a fermarmi. Poi prende un ramoscello lo spezza e incomincia a disegnare per terra, con incredibile abilità. Con tre schizzi mi spiega che vive da solo in una piccola casa poco lontano, con un cane e qualche animale. Per lui la montagna è sacra, visto che nel quarto quadro si rappresenta in ginocchio con le mani congiunte in preghiera. Disegna senza dire più una parola; alzando qualche volta lo sguardo per cercare la mia attenzione. Anch’io disegnando malamente per terra gli faccio capire che sto girando l’isola in bici.

Podílato!” Bicicletta! Palió italikó podílato… con una vecchia bicicletta italiana lo portava a scuola suo padre da bambino a Embonas, il paese più grande che sta alle falde settentrionali dell’Ataviros.

Avrei voluto fotografare quei disegni rupestri, ma non ho voluto violare quell’incantesimo arcaico. Con Nikos ho poi condiviso una merenda frugale, il suo pane nero e il suo formaggio di capra, le mie mandorle salate e i miei fichi secchi. Ci siamo salutati con un abbraccio e un reciproco augurio: Kaló taxídi fíle.

Io ho proseguito sulla strada per la vetta, lui sul sentiero diretto alla casa. Entrambi divorati dall’oscuro nitore della nebbia e dal rumoroso silenzio del vento.


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