All'origine delle foibe e dell'esodo ci sono il fascismo e colonialismo italiani, ma la cultura concentrazionaria albergava da entrambe le parti. Le manipolazioni della storia non aiutano l'elaborazione del conflitto, che può essere sostenuta solo dal confronto e dalla ricerca di parole comuni. Nostro editoriale
Vogliamo tornare sulla questione delle foibe, per diverse ragioni.
In primo luogo perché il dibattito che si è riaperto con la proclamazione della giornata del ricordo (e con la fiction di Negrin) ci ha lasciato l'amaro in bocca. Nel tentativo di tirare gli avvenimenti per la collottola, piegandoli a chiavi di interpretazione ideologiche fuori dal tempo, si è fatto un cattivo servizio alla storia, a questa storia in particolare, che di reticenza e di strumentalizzazioni ne ha conosciute fin troppe. Nel decontestualizzare gli avvenimenti, con l'esito di indurre letture parziali e per ciò stesso fuorvianti da una realtà ben più complessa. Nell'ingigantire, come nel minimizzare, quel che è accaduto negli anni immediatamente successivi al 1943, così da ridurre una vicenda tragica e dolorosa ad una questione di numeri, come se le vite delle persone (di ciascuna persona) e i drammi famigliari che ne sono seguiti potessero venir pesate secondo un ordine di grandezza.
In secondo luogo perché mettere mano alla storia in maniera maldestra non può che produrre nuovi manicheismi e, soprattutto, nuovo dolore. Lo abbiamo avvertito nelle sale dove di foibe si discuteva e dove le persone tendevano a polarizzarsi anziché aiutarsi a capire le ragioni dell'altro, nelle lettere che sono pervenute all'Osservatorio e nei centinaia di commenti dei nostri lettori nei quali la memoria si è spesso trasformata in insulto, nel parlare con i testimoni di allora, persone anziane la cui giovinezza è stata segnata da quegli avvenimenti, con gli occhi ancora lucidi per le ferite non più rimarginate. Qui non c'è da stabilire chi avesse ragione e chi torto, perché la ragione sta dalla parte della sofferenza ed il torto da quella della violenza, nella consapevolezza che l'origine di quel che è accaduto affonda le proprie radici nel fascismo e nel colonialismo italiano ma anche nel fatto che la cultura della violenza e della negazione dell'altro albergava in ogni nazionalismo, anche in quello titino. Qui non si tratta di mettere tutto sullo stesso piano, il lager della Risiera di San Sabba e le foibe sono state cose profondamente diverse quand'anche altrettanto drammatiche. Ma non si può nemmeno negare che certa cultura concentrazionaria non fosse propria di entrambe le parti, come Goli Otok è lì ad insegnarci.
In terzo luogo perché se a distanza di sessant'anni il conflitto riemerge - per ora solo negli animi delle persone - in forme così radicali, vuol dire che non c'è stata, qui come altrove, alcuna capacità di elaborazione del conflitto. Non che non se ne sia parlato e che non ci siano stati esempi importanti di ricerca storico-culturale. Quello della Commissione mista italo-slovena in primo luogo. Nata da una mozione approvata unanimemente del Consiglio Comunale di Trieste il 24 settembre 1990 proprio attorno al tema delle relazioni fra i due popoli dalla seconda metà dell'Ottocento fino al 1956 allo scopo specifico di contestualizzare e ricostruire la vicenda delle foibe, nel corso di dieci anni di studi e ricerche ha elaborato un rapporto finale che ben si può definire come il punto d'incontro di due diverse narrazioni. Testo rimasto però a tutt'oggi nei cassetti ministeriali. Questo lavoro, al pari di altri individuali, non è mai divenuto strumento per un percorso di riconciliazione fra le persone e le comunità.
Infine perché il tema dell'elaborazione dei conflitti appare oggi, di fronte ai paladini dello scontro di civiltà, in tutta la sua straordinaria rilevanza. Ogni civiltà è il prodotto dell'attraversamento più che dell'incontaminazione: nel villaggio planetario questo pone la necessità di ricercare i punti di congiunzione piuttosto che di divisione, perché la divisione rischia in realtà di determinare l'implosione di ciascuno. Nel parlare di riconciliazione a questo si dovrebbe pensare, piuttosto che ad un semplicistico richiamo alla convivenza. Un serio lavoro per rintracciare le storie, le parole, i saperi, le tradizioni che accompagnano ed accomunano popoli e culture tanto, ma in fondo non troppo, diverse. Penso allo straordinario lavoro di Predrag Matvejevic che nel suo Breviario Mediterraneo trova le comuni radici della gente bagnata da questo nostro grande mare.
Quel che invece accade intorno a noi è che le storie e le memorie rimangono sempre più divise, tanto da rendere facile il lavoro di chi, in nome di una pretesa superiorità, vuole usarle per ragioni di bassa e cattiva politica.
Per questo ci appare di grande valore il testo scritto per l'Osservatorio sui Balcani da Umberto Usmiani, parte di una mailing list "Tera de Confin" che intende costruire legami di incontro e di dialogo fra le genti del litorale adriatico.
Vedi anche:
10 febbraio, il ricordo dalle terre di confine
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