Si è conclusa nei giorni scorsi la trentesima edizione del Trieste Film Festival, la vetrina italiana sul cinema dell'est Europa. Ha vinto un film albanese, "The Delegation", che racconta la fine del regime di Enver Hoxha. Una rassegna sui film proiettati
Un film albanese, “The Delegation - Delegacioni” di Bujar Alimani, ha vinto il 30° Trieste Film Festival con i voti espressi dal pubblico in sala. Da una sceneggiatura di Artan Minarolli, uno dei cineasti di punta di Tirana scomparso nel 2015, un film essenziale e lineare che riesce con semplicità a raccontare la fine del regime di Hoxha e anche le corresponsabilità diffuse che contribuirono a sostenerlo. Siamo alla fine del 1990, in una remota prigione per detenuti politici.
Inaspettatamente il professor Leo Konomi, rinchiuso dal 1974 per “agitazione e propaganda” e avversario del regime, è prelevato da un commando per essere trasportato urgentemente nella capitale. Là lo attenderebbe una delegazione europea in visita per attestare i miglioramenti dell'Albania nel campo dei diritti umani. Il protagonista è integro, orgoglioso, di poche parole, non risponde ai ripetuti tentativi di dialogo che i suoi accompagnatori tentano nel lungo e complicato viaggio tra le valli montane (è stato girato in buona parte nella regione di Permet) e che ricorda anche “Lamerica” di Gianni Amelio. Quando il mezzo si guasta lungo la strada, bisogna trovare chi lo ripara ed è l'occasione da una parte per conoscere la realtà di un villaggio isolato, dall'altra per scoprire qualcosa di più sui protagonisti, il detenuto e le guardie. Nel frattempo stanno saltando tutte le regole precedenti, lo si intuisce da come parlano, e saltano le convenzioni. È un paese dove ci sono ancora gerarchie e paure ma non funziona più nulla. Per Leo sembra un'improvvisa e incerta libertà. Un film dalle tinte un po' grigie, dove non ci sono colori vivaci, che rende in diversi modi la vita sotto la dittatura e cerca di capire le responsabilità al di là della superficie. “La scuola ti ha rovinato” dice la dura guardia Asslan al professore. “Se tu fossi andato a scuola, non sarei stato in galera”, risponde Leo.
Il dramma dei cancellati in Slovenia, che riguardò più di 26.000 cittadini, oltre l'1% della popolazione, è ripercorso in “Izbrisana – Erased” di Miha Mazzini e Dušan Joksimović. Siamo nel 1991, mentre si susseguono notizie sulla guerra in Croazia, la giovane di origine serba Ana Jovanović va in ospedale per partorire, ma non risulta nei registri. Alle sue proteste, dopo un prolungamento della degenza per verificare i dati, la polizia la porta via, in un centro per richiedenti asilo, mentre la neonata resta nel reparto. Ana è nata a Kragujevac ed è sempre vissuta in Slovenia con la famiglia. Dopo l'indipendenza di Lubiana, è come se non esistesse più e un'impiegata le distrugge gli ultimi documenti. Si trova a compilare moduli assurdi, che evidenziano le rigidità e la follia della burocrazia, insiste, scrive a tutti, cerca una soluzione, chiede aiuto. La giovane si sente persa, affronta un'odissea, senza che nessuno rischi per aiutarla, neanche i giornali o la televisione: è un argomento scomodo per il governo e non se ne parla. Nel frattempo conosce Senad, un giovane bosniaco che è nella sua stessa situazione, e cerca di far visita alla figlia, che è in ospedale e può essere separata da lei. Un film drammatico più valido per ciò che dice che per come lo dice, con la regia che impiega soluzioni semplici, sottolineature e spiegazioni, facendo poco uso di sottigliezze. Qualche scena, come quella della scuola quando la protagonista vede e saluta da fuori i bambini a cui insegnava, suona un po' troppo costruita, ma inserendo anche le relazioni familiari i registi riescono a mantenere una certa tensione.
Molto classico, ma interessante e ben fatto, è lo slovacco “The Interpreter” di Martin Šulík. Un ottantenne interprete ebreo, salvatosi dalla deportazione dentro un monastero, va a Vienna alla ricerca dell'SS che aveva ucciso i suoi genitori. Trova il figlio del nazista, ormai morto, e, sulla base del libro di memorie del soldato, i due partono insieme per un viaggio attraverso la Slovacchia per ricostruire gli eventi. Il regista non vola altissimo, si accontenta di un lavoro lineare, destinato a un pubblico largo. La partenza è più divertente, poi volta al dramma: nella ricerca del passato, escono dimenticanze e rimozioni. Molto bravi i due attori: tenero e orgoglioso il grande regista Jiri Menzel che torna davanti alla macchina da presa, esuberante il coprotagonista Peter Simonischek, il cui personaggio pensa solo a donne, mangiare e bere.
Tra i documentari vittoria meritatissima per lo svizzero “Chris The Swiss” di Anja Kofmel, cui abbiamo assegnato anche il nostro premio Osservatorio Balcani Caucaso – Transeuropa. Un ottimo lavoro, già presentato al Festival di Cannes e vincitore di parecchi premi, che investiga con materiale d'archivio e un'efficace ricostruzione in animazione i tanti misteri legati alla scomparsa del cugino della regista. Un giovane giornalista elvetico ucciso in Croazia nel 1992 dopo essere diventato combattente.
Molto interessante, anche riferito all'Italia attuale, è “Hungary 2018” di Eszter Hajdu. Un documentario che dovrebbe essere visto e studiato da tutta l'opposizione al governo giallo-verde per rendersi conto di come si affronta una campagna elettorale contro forze dichiaratamente nazionaliste e anti-immigrati. La regista filma le settimane che precedono le votazioni per il Parlamento dell'8 aprile scorso. Da una parte segue l'ex primo ministro Ferenc Gyurcsany, del partito Democratico DK, alternato a vari esponenti di Fidesz e del governo ripresi in occasioni pubbliche, mentre Viktor Orban non si fa riprendere, se non nel comizio conclusivo. La destra insiste ossessivamente su tre punti: l'invasione da parte dell'Islam, il miliardario George Soros e l'Unione Europea, identificata in Bruxelles. Slogan insistiti, accanto a “Prima l'Ungheria” e accostamenti offensivi di immagini di Angela Merkel. Una distorsione della realtà presentata in maniera insistita e precisa, che raggiunge l'obiettivo: nonostante l'affluenza record ai seggi, per le opposizioni il risultato sarà una disfatta.
La videocamera della regista cerca di mantenersi distante dai giudizi, ma non può che registrare la ripetitività degli slogan da una parte e la paradossale impotenza di chi cerca di ragionare e capire. Lo Stato ungherese è permeato dal potere di Orban a tutti i livelli, Gyurcsany, che pure conosce l'apparato, ci si scontra in continuazione, è costretto a subire gli effetti della propaganda governativa. Un uomo concreto che si mette in gioco a tutti i livelli: durante la crisi del 2015 aveva ospitato alcuni migranti a casa sua. Ora si trova isolato, i suoi ragionamenti non fanno presa: “migranti, Soros e Bruxelles sono per Orban la sacra trinità. Ha capito che deve far sentire minacciati dall'esterno nella loro identità personale e nazionale. Crea la paura e si offre come protettore”. E non serve a nulla cercare di affermare che “noi ungheresi non siamo egoisti come Orban sta cercando di farci credere”. Gyurcsany sintetizza la scelta in “Orban o Europa?” e la risposta elettorale è chiara, con i votanti a rispondere alle parole su difesa dei confini, della recinzione esterna il senso di purezza degli ungheresi, la discriminazione dei gay. Inutile riportare l'attenzione sui problemi reali dei cittadini, le cure mediche che non ci sono, il reddito troppo basso dei pensionati o la povertà in crescita. Argomenti che non fanno presa se non su chi si oppone già a Orban. La Hajdu riesce a mostrare i limiti, se non l'impotenza, dell'opposizione nel contrastare la propaganda nazionalista e sovranista.
Il Premio Corso Salani, dedicato all'indimenticabile regista e attore fiorentino, ha visto la partecipazione di cinque film italiani in attesa di distribuzione. È stato premiato il bel “My Home, In Lybia” di Martina Melilli, la cui famiglia visse a Tripoli fino all'espulsione degli italiani da parte di Gheddafi. Un intreccio sentito tra storia familiare e attualità del Paese mediterraneo, compresa l'amicizia a distanza con un giovane studente libico. Merita attenzione “L'ora d'acqua” di Claudia Cipriani, rapporto curioso ed elettivo tra uno ragazzino milanese e un palombaro che opera sulle piattaforme.
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