Si è da poco concluso il convegno nazionale dell'Osservatorio. Iniziamo a pubblicare i molteplici materiali emersi. Qui di seguito la relazione introduttiva di Michele Nardelli
«...le peggiori atrocità possono scaturire da ciò che è apparentemente innocuo, dalla "normale" passività che può caratterizzare la vita quotidiana di milioni di individui nella società di massa: la triste verità è che il male è compiuto il più delle volte da coloro che non hanno deciso di essere o agire né per il male né per il bene»
Hannah Arendt, "La banalità del male"
Accadono talvolta strane coincidenze, che potremo definire come cogenti casualità. Una di queste è che proprio nei giorni in cui ragionavamo sul tema di questo convegno a partire dall'attualità della riflessione attorno alla "banalità del male", si stava svolgendo a Belgrado un simposio internazionale sul pensiero di Hannah Arendt.
Sarà che i fili della ricerca politica e culturale sulle nuove guerre ormai s'intrecciano in una trama che affonda le proprie radici nei "pensieri altri" del Novecento e che tali eresie riverberano solo ora la luce del proprio passaggio, ma è indubbio che se si ricercano risposte non scontate alla guerra prepotentemente ritornata al centro della storia, il messaggio arendtiano mostra intatta la propria forza ed attualità.
Lo è a maggior ragione per noi che non abbiamo inteso organizzare un convegno sul pensiero filosofico della Arendt, quanto invece indagare un terreno che riteniamo sempre più ineludibile di riflessione, dove tale pensiero diviene, nel tempo dove tutto si gioca sull'emotività che segue gli avvenimenti più tragici e sull'emergenza, lo spunto per ragionare sull'elaborazione del conflitto, ovvero sulla parte remota e spesso rimossa dei conflitti.
Quella che si affida allo scorrere del tempo quando avremmo dovuto capire che il tempo non è galantuomo, quella che non si vuol vedere quando il manicheismo ci acceca nel dividere il mondo fra bene e male, quella che demolisce le nostre vecchie categorie interpretative per le quali la guerra si ostinerebbe ad essere la continuazione della politica con altri mezzi.
Capiamoci. Di fronte alle logiche imperiali seguite all'89 come risposta alla crisi dei modelli sociali novecenteschi (tanto quelli usciti sconfitti, quanto quelli considerati vittoriosi), di fronte alla guerra come strumento di dominio e di esclusione, forte sarebbe la tentazione di dividere il mondo in buoni e cattivi, in impero del male e in moltitudini di donne e uomini che rivendicano il proprio diritto alla vita. Ed è il rischio che corriamo quando indichiamo la guerra come una discriminante morale, trascurando di indagare i conflitti, anche nelle loro degenerazioni, come qualcosa che ci riguarda e che ci portiamo dentro.
E a questo proposito, vorrei proporvi una pagina di Stanislao Zuleta, intitolata "Sulla guerra".
« Per contrastare la guerra con una ancorché remota possibilità di successo, è necessario cominciare a riconoscere che il conflitto e l'ostilità sono fenomeni tanto costitutivi dei legami sociali come l'interdipendenza stessa e che la nozione di una società armoniosa è una contraddizione in termini.
Lo sradicamento dei conflitti e il loro dissolvimento in una convivenza fraterna non è una meta raggiungibile, né desiderabile nella vita personale - in amore o in amicizia - ma nemmeno nella vita collettiva.
È necessario, invece, costruire uno spazio sociale e legale dove i conflitti possano manifestarsi e svilupparsi, senza che l'opposizione all'altro porti alla sua eliminazione, uccidendolo, rendendolo impotente o riducendolo al silenzio.
È vero che un passo molto importante per raggiungere questo è il superamento delle "contraddizioni antinomiche" fra le classi e delle relazioni di dominazione fra le nazioni. Ma non è sufficiente ed è molto pericoloso credere che lo sia ... perché allora si cercherà inevitabilmente di ridurre tutte le differenze, le opposizioni e i confronti a una sola differenza, una sola opposizione, un solo confronto ... ovvero il tentativo di negare i conflitti interni e ridurli ad un conflitto esterno; con il nemico, con l'"altro" assoluto: l'altra classe, l'altra religione, l'altra nazione; ma questo è il meccanismo più intimo della guerra e il più efficace, dato che è quello che genera "la felicità della guerra".
I diversi tipi di pacifismo parlano abbondantemente dei dolori, delle disgrazie e delle tragedie della guerra - e questo a ragione, anche se nessuno lo ignora - però sono soliti tacere sopra quest'altro aspetto tanto inconfessabile e tanto decisivo, che è la felicità della guerra. Perché se si vuole evitare all'uomo il destino della guerra bisogna cominciare con il confessare serenamente e severamente la verità, la guerra è festa. Festa della comunità finalmente unita nel più intimo dei vincoli, dell'individuo finalmente sciolto in essa e liberato dalla sua solitudine, dalla sua particolarità e dai suoi interessi; capace di dare tutto, perfino la sua vita. Festa del potersi approvare senza remore e senza dubbi di fronte al perverso nemico, di credere stoltamente di avere ragione e di credere ancor più stoltamente che possiamo testimoniare la verità con il nostro sangue. Se non si tiene conto di ciò, la maggior parte delle guerre sembrano stravaganze irrazionali, perché tutto il mondo sa in anticipo la sproporzione che esiste fra il valore di quello che si vuole ottenere ed il valore di quello che si è disposti a sacrificare. ...
Bisogna dire che le grandi parole solenni: l'onore, la patria, i principi, servono quasi sempre per razionalizzare il desiderio di abbandonarsi a questa sbornia collettiva.
I governi lo sanno e per negare il dissenso e le difficoltà interne, impongono ai loro sudditi l'unità, mostrando loro, come diceva Hegel, la figura del padrone assoluto: la morte. La scelta data è fra la solidarietà e la sconfitta.
È triste, senza dubbio, - prosegue Zuleta - la morte dei ragazzi argentini e il dolore dei loro parenti e quello dei ragazzi inglesi e dei loro; però è forse ancora più triste vedere la gioia momentanea del popolo argentino unito dietro a Galtieri e quella del popolo inglese dietro a Margaret Thatcher.
Se qualcuno mi obiettasse che il riconoscimento preventivo dei conflitti e delle differenze, nonché della loro inevitabilità e convenienza, rischierebbe di paralizzare in noi la decisione e l'entusiasmo nella lotta per una società più giusta, organizzata e razionale, gli risponderei che per me una società migliore è quella capace di migliori conflitti. Di riconoscerli e contenerli. Di vivere, non malgrado essi, ma produttivamente e intelligentemente con essi. Che solo un popolo scettico sulla festa della guerra, maturo per il conflitto, è un popolo maturo per la pace. »
L'idea di scavare nei conflitti per farli evolvere in maniera intelligente e nonviolenta nasce però anche dall'esperienza concreta nel cuore delle nuove guerre.
Chi di noi in questi anni è stato attore di cooperazione internazionale si è reso conto di quanto il proprio agire toccasse solo in superficie le dinamiche dei conflitti e di come fosse difficile fare buona cooperazione senza diplomazia popolare.
Ne abbiamo parlato diffusamente nel convegno dello scorso anno sui dieci anni di aiuti e cooperazione con il sud est Europa. Rilevando come troppo spesso la comunità internazionale appaia chiusa nella propria autoreferenzialità e dipendente dal ciclo dell'emergenza. Perciò si ricostruiscono le case, ma non c'è il tempo né la capacità per sostenere la ricostruzione delle comunità...
Intrisa di economicismo è l'idea che il miglioramento delle condizioni sociali possa di per sé guarire le ferite lasciate dalla degenerazione violenta dei conflitti.
Per questo motivo, ragionando sulla rinascita materiale di quelle terre, abbiamo individuato i territori e le comunità come spazio di sviluppo autosostenibile, dove dimensione sociale, economica, ambientale e civile si intersecano e si rafforzano a vicenda. E dunque abbiamo proposto, a partire dalla primavera scorsa, un percorso per dar vita ad un Manifesto dello sviluppo locale nei Balcani.
Per questo stesso motivo abbiamo voluto dedicare il presente convegno alla necessità di abitare i conflitti, di indagarne le origini, di conoscerne gli attori, di "mettersi in mezzo", anche come simbolica interposizione se occorre, ma soprattutto nello scardinare dal di dentro la logica della guerra e i suoi comportamenti, siano essi il chiudersi a riccio per difendersi dall'aggressione (vera o presunta che sia) o la santificazione del sacrificio («l'anima di fanciulla è necessaria al guerriero ... per il fatto che il suo ruolo principale nella nostra mitica narrazione bellica è quello di vittima e non quello di vincitore», come ci spiega Ivan Čolovic).
In altre parole, il bisogno di interrogarsi sulla guerra moderna come "malattia della civiltà", per usare l'espressione della nostra amica Nicole Janigro, come esito del lungobreve XX secolo e delle premesse positivistiche dei pensieri che si sono confrontati lungo il Novecento, sulla perdizione dell'uomo moderno schiacciata fra promesse mancate e delirio dell'homo faber. Su quella combinazione di modernità e barbarie, di guerre stellari e carneficine, dove il soldato - che tendenzialmente non muore mentre a morire sono i civili - ha la faccia pulita ed inespressiva del professionista americano che fa il suo lavoro (ma non era anche la tesi di Eichmann al processo di Gerusalemme?) e insieme quella brutale del generale serbo che accarezza il ragazzino di Srebrenica prima di dare il via alla mattanza. E ai bulldozer nordamericani che seppelliscono decine di migliaia di morti nel deserto dell'Iraq corrisponde la "zampata ultima" del guerriero balcanico che toglie ogni velo sulle guerre patriottiche.
Figlie di una stessa crisi di civiltà, modernità e barbarie si rincorrono, s'intrecciano, ma non riescono a nascondere il loro vuoto, il loro rimosso, il loro non elaborato. «Le nuove guerre - scrive la Janigro - condotte in nome dell'umanità, appaiono sempre però idealmente deboli, tanto da dover essere, ogni volta di nuovo, alimentate con le ragioni del passato. È la Shoa il peccato originale della postmodernità, la metafora del male da sconfiggere e da evitare...» Così che si può solo essere a favore della guerra, se in gioco è l'umanità.Quella "crisi di civiltà" che incontriamo non solo lungo le lande desolate dei moderni dopoguerra, ma anche nelle periferie delle metropoli, laddove ricompare la pulizia etnica e dove, come afferma Akbar Ahmed, tutti diventano primitivi e selvaggi.
Allora indagare sulla guerra significa ragionare sulla condizione dell'uomo contemporaneo, sulla perdita d'identità, sullo spaesamento. E capire che oggi la guerra, pure bandita dalle Carte internazionali, è rientrata a far parte della nostra vita quotidiana come della normalità del nuovo ordine internazionale.
Dentro questo duplice campo d'indagine vorremmo scavare.
In primo luogo ponendo la questione, visto che il tema dell'elaborazione del conflitto è il grande assente nella gran parte dei progetti di cooperazione internazionale. Quanti interventi umanitari, quante case e scuole ricostruite, quanti progetti di sviluppo sono stati realizzati nei tanti dopoguerra, lungo le moderne tragedie del nostro tempo. E quanto tempo invece è stato dedicato alla ricostruzione della pace? Della pace non come "assenza di guerra", ma della pace più solida che si può chiamare riconciliazione? Quante guerre appena sopite ci stiamo trascinando, dove le cause profonde non sono state rimosse e nella coscienza collettiva come nell'animo delle persone cova ancora la paura, anticamera della vendetta? Quanti conflitti armati sono destinati e riesplodere, più violenti e brutali di prima?
Di questo parleremo diffusamente negli studi di caso che oggi saranno proposti.
In secondo luogo, facendo divenire la tematica dell'elaborazione del conflitto un passaggio decisivo dell'impegno per la pace, del cooperare, del fare diplomazia dal basso.
Elaborare il conflitto significa rendersi conto di ciò che è accaduto e accade al di là della propria collocazione dentro il conflitto medesimo. Prendere coscienza della reale partita che si sta giocando attorno a te e con te, comprendere ad esempio che nella vicenda balcanica degli anni '90 la questione etnica è stata solo lo strumento per garantire base di massa ad una guerra pensata dalla nomenklatura come forma di accumulazione primaria e come logica di potere nel succedere a se stessa. O, in altre parole, della manifestazione post moderna dei processi di finanziarizzazione dell'economia globalizzata che trovano proprio nelle aree deregolate del pianeta i luoghi del loro manifestarsi estremo.
E poi, riappropriarsi dei processi. Trovare il punto d'incontro fra le diverse storie e le diverse verità. Raccontarsi le proprie vicende di "nemici" per scoprire l'amaro e comune destino.
E questo vale tanto per le donne profughe bosniache e serbe che si raccontano intorno ad un tavolo a Prijedor, come per quell'anonimo soldato contadino iracheno messo in un sacco di plastica dalle mani di un soldato a stelle e strisce che di lì a qualche mese morirà di cancro per esposizione ad uranio impoverito.
E per non dover continuare a sentirci dire "i morti seppelliscano i morti", quasi che le ferite potessero rimarginarsi senza essere medicate.
Parliamo con cautela di riconciliazione e ancor più di perdono, sfere che investono una dimensione personale oltre che pubblica.
Per quanto concerne quest'ultima, si tratta di processi complessi che richiedono un grande equilibrio e una grande capacità di compromesso. L'esperienza sudafricana ci insegna che il compromesso «può costituire il punto di partenza di un processo che conduce alla fine assai più lontano di quanto i primi passi lascino intuire. Le decisioni politiche sul futuro non avvengono nel vuoto, ma sono ancorate alla realtà storica. Una casa può essere costruita solo con i mattoni che abbiamo a disposizione in quel momento» (Charles Villa-Vicencio).
Abbiamo imparato dalle vicende del secolo scorso che tali processi devono avvenire nel cuore delle società, nell'elaborazione culturale collettiva più che nei tribunali, laddove si risponde più al bisogno ostentato di vendetta che non all'indagine approfondita sulle cause e sulle responsabilità individuali e collettive. Come ci ricorda Marcello Flores «I risultati complessivi della giustizia dei vincitori sono stati, tranne forse che sul piano simbolico, largamente deludenti: il numero dei responsabili dei crimini che ha pagato il proprio conto con la giustizia è stato così esiguo da apparire ridicolo...; le vittime non si sono sentite risarcite mentre i persecutori si sono sentiti perseguitati più del lecito; la società è stata apparentemente pacificata ma ha lasciato divisioni che sono periodicamente riemerse con risentimenti, lacerazioni e desideri di vendetta» (Marcello Flores, Verità senza vendetta).
Inviterei la signora Carla Del Ponte ad andare la prossima estate come una qualsiasi cittadina a Guca, nel cuore della Serbia centrale, dove ogni anno si svolge il "Dragacewski Sabor", il grande festival degli ottoni e di musica zigana, per capire cos'è il rancore profondo, il ventre del nazionalismo, il retroterra di quei "signori della guerra" che gli risultano inspiegabilmente imprendibili.
Le immagini di Radovan Karazdic e di Ratko Mladic come icone della nazione serba calpestata non si eliminano nei tribunali, quand'anche conosciamo le loro responsabilità e ne possiamo auspicare la consegna alla giustizia penale. Il problema sta nella capacità di una comunità nazionale di guardarsi dentro, di ricostruire i tratti di un risorgimento nazionale che è fatto di negoziazione, di leggi e di strumenti di risarcimento, ma anche ed in primo luogo di elaborazione del conflitto e di riconciliazione.
Quel che ci proponiamo non è dunque un'altra traccia possibile di impegno per la pace, ma una chiave crediamo ineludibile per leggere ed agire dentro i conflitti del nostro tempo.
Trento/Rovereto, 7 dicembre 2002
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