Bora scura è un romanzo che racconta in maniera avvincente le complesse vicende del confine orientale, ancor oggi foriere di polemiche quando non di odi di parte
Sulle vicende della Seconda guerra mondiale sul confine orientale sono stati scritti diversi libri a livello di saggistica da parte di storici qualificati (Marina Cattaruzza, Roul Pupo, Gianni Oliva, Roberto Spazzali, Jože Pirjevec e altri) meno di narrativa. O, meglio, la narrativa si è occupata di alcune di esse, con aspetti limitati a testimonianze dirette o al loro territorio o coltivando la memoria dei padri. Penso a scrittori come Fulvio Tomizza, Mario Sgorlon, Marisa Madieri, Nelida Milani, Anna Maria Mori, Stefano Zecchi e qualcun altro, tra cui posso annoverare anche chi scrive.
Ma il merito di aver scritto un’opera narrativa, un romanzo che racconti le vicende del confine orientale in tutta la sua complessità e mille sfaccettature, va per ora solo a Leandro Lucchetti con “Bora scura”, sottotitolo “La saga del confine orientale”, scrittore con un passato di documentarista, regista e sceneggiatore Rai. Un’opera in cui l’autore ha messo in pratica tutta la sua esperienza di uomo di cinema e televisione per restituirci, con la tecnica del montaggio di scene e situazioni le più varie, un affresco avvincente e convincente, ricco di intrighi e colpi di scena, facendo ricorso a un linguaggio immediato, di grande presa sul lettore, alla Ken Follett per intenderci: tutti elementi che inseriscono il romanzo di diritto nel grande filone del romanzo popolare.
Nel romanzo, per altro ben documentato, una serie di personaggi e le loro personali vicende individuali e famigliari nate dalla fantasia dell’autore o sue elaborazioni di storie sentite ben mescolate ai personaggi realmente esistiti, da Tito e compagni al Maresciallo Alexander, dai fascisti della Banda Colotti al Polizeifürer Globočnik, dal Tenente Colonnello Fonda Savio e i maggiori esponenti del CLN a Vittorio Vidali e così via, sono colti nei momenti storici salienti che hanno segnato profondamente la storia del Confine orientale.
Il periodo raccontato va da quando i territori italiani del Friuli con Udine e la Carnia, Gorizia con l’Isontino, Trieste con il Carso, l’Istria con Fiume e il Quarnero divennero l’epicentro di una guerra tra italiani (che inizialmente si spinsero fino a occupare la Slovenia), tedeschi e slavi, con il rovesciamento, dopo l’8 settembre, di fronti e alleanze, con l’instaurazione sulla regione poi dell’Adriatisches Kustenland e l’atroce messa in funzione dell’unico campo di sterminio su territorio italiano, quello triestino della Risiera di San Saba, con l’occupazione cosacca del Friuli con l’intento di creare lì una nuova nazione per quel popolo in funzione antisovietica, quindi i tradimenti e le fratture all’interno del movimento partigiano tra filojugoslavi da una parte (la Brigata Garibaldi) e antifascisti italiani, le formazioni di Giustizia e Libertà e la Brigata Osoppo, cattolica, che, in conflitto con i comunisti connazionali, combattevano per liberare le terre giuliane dai nazifascisti non certo per consegnarle a Tito che mirava all’annessione del territorio fino al fiume Tagliamento.
Non manca il racconto dei terribili giorni dell’occupazione jugoslava di Trieste, e il successivo Territorio Libero in mano agli angloamericani, i moti di protesta, i morti, fino alla restituzione nel 1954 della città all’Italia tra il giubilo dei triestini, non senza però, prima, la tragedia delle foibe e di Pola, la cui popolazione dopo un periodo di speranza assiste annichilita alla consegna della città agli jugoslavi dando così il via a quell’esodo massiccio che via via coinvolgerà anche i cittadini di Fiume e di altri centri istriani, esodo che avrebbe portato a quel vuoto demografico che ben presto sarebbe stato riempito da popolazioni provenienti dalle parti più diverse della Jugoslavia.
Il romanzo non dimentica neppure le vicende interne alla Jugoslavia come quella dell’espulsione della stessa dal Cominform e la persecuzione da parte dei titini degli stalinisti che avrebbero conosciuto la deportazione nell’inferno di Goli Otok, compresa quella dei comunisti italiani, i cosiddetti monfalconesi che, con l’idea di dare un contributo alla costruzione del socialismo nella nuova Jugoslavia, erano stati promotori di un controesodo.
Il merito del romanzo, e la capacità dell’autore, è quello di raccontare la storia da diversi punti di vista, nella ricerca della maggiore obiettività possibile. Oltre a quello degli italiani, infatti, è ben presente il punto di vista degli sloveni, comunisti o meno, e dei comunisti italiani tra i quali spicca la figura di Vittorio Vidali, i quali ultimi, chi per un malinteso internazionalismo chi per sudditanza a Tito, si adoperavano per consegnare terre e popolazioni italiane alla Jugoslavia, nella convinzione, per quegli altri, che così fosse giusto, anche quale conseguenza dei razzistici provvedimenti attuati dal fascismo contro le popolazioni slave autoctone.
Una storia drammatica, che oggi è in gran parte ancora sconosciuta agli italiani nonostante il prezzo pagato da quelle terre e quelle popolazioni è stata la diretta conseguenza di una guerra persa da tutti, dalla Sicilia al Piemonte. In questo senso, il romanzo, con il suo taglio avventuroso, ricco di spunti sentimentali, emotivi, politici, storici, cronachistici, può – più di un altro strumento – fornire un quadro completo, senza pregiudizi e senza ipocrisie, di quegli avvenimenti, tanto lontani ma capaci ancora di suscitare polemiche quando non odi di parte, almeno in loco e tra chi a quelle terre in qualche modo appartiene.
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